martedì 30 aprile 2013
Nikolaj Gogol': Le Anime morte
È
un libro che è stato, almeno in italiano, tradotto e ritradotto.
L'ultima prova è del 2009 ed è opera di Paolo Nori per Feltrinelli.
Io
ho la versione di Agostino Villa, pubblicata nel 1953 da Mondadori.
L'ho riletta recentemente e devo dire che mi è sembrata una
traduzione un po' desueta. È strano come si abbia l'impressione di
leggere una lingua un po' polverosa che a volte diventa ostica in
termini che, senza dubbio furono popolari, ma che oggi pochi
utilizzano. Non lodo la mia ignoranza ma che cosa sono i calzoni
di bambagino, e perché uno dei
servi comprati è soprannominato Non perdona a trògoli?
E che cos'è un capo scarico?
Ma, scanso alle pignolerie,
veniamo al fatto.
Uno
strano personaggio arriva nella città di N. modesto capoluogo di
governatorato. Né grasso né magro, né alto né basso, né bello né
brutto, Pavel Ivanovic Cicikov ha l'aspetto di un banale gentiluomo
in viaggio con due dei suoi servi a bordo di un modesto calesse.
Un
viaggio senza meta, nella Russia del XIX secolo, diventa pretesto per
lo scrittore per osservare e analizzare situazioni e peronaggi
disparati, insoliti o banali; per rappresentare infine il semplice
scorrere della vita.
Le
Anime morte fu quasi interamente
scritto da Gogol durante il suo soggiorno a Roma tra il 1837 e il
1839. Sul modello della Divina Commedia,
il progetto dello scrittore era di comporre non un romanzo ma ciò
che lui chiamava un poema
in tre parti, descrivendo gli aspetti morali della società
dell'epoca, dai più bassi ai più elevati. Solo la prima parte fu
conclusa. Il libro non sarà mai terminato. Tornato a Roma nel 1845,
Gogol continuò la scrittura della seconda parte del romanzo (quella
che avrebbe dovuto corrispondere al Purgatorio)
ma, sempre più ossessionato da un'infatuazione religiosa, bruciò
poi le pagine scritte, lasciando incompiuta l'opera.
Le
anime morte di cui si
parla sono quei contadini, servi della gleba, morti tra un censimento
e l'altro e per i quali i possidenti dovevano continuare a pagare il
testatico al governo fino all'aggiornamento del censimento
successivo. L'idea di Cicikov era di comperare per pochi soldi queste
anime a dei proprietari ben contenti di sbarazzarsi di un carico
inutile, per realizzare così un patrimonio fittivo da poter
ipotecare, incassare un prestito e poi sparire dalla circolazione. Il
progetto sembra facile ma innesca una serie di quiproquo
e di reazioni a catena che finiscono per mettere nei guai Pavel
Ivanovic.
I
critici si sono divisi nell'analisi del romanzo. Per alcuni si tratta
di un quadro realista della Russia dell'epoca. Una società arcaica
nella quale i servi, legati alla terra e al possidente, erano
considerati alla stregua degli altri animali domestici, venduti,
comprati e sfruttati. Un mondo in cui l'aristocrazia e la burocrazia
zarista dominavano senza intralci un popolo che viveva nella miseria.
Quadro di critica sociale dunque, rigoroso atto di accusa contro un
sistema profondamente iniquo.
Sotto
il titolo Le Anime morte bisognava quindi riconoscere non i
servi deceduti ma i gretti personaggi della buona società, incapaci
di umanità.
Per
altri, la chiave di lettura del romanzo è piuttosto nella volontà
satirica che porta alla caricatura, all'accentuazione delle linee di
carattere, spinte fino al grottesco.
In
realtà Gogol era lontano dalla volontà di cambiamento strutturale
della società russa che pure a quel tempo cominciava a esprimersi
negli ambienti più avanzati. Non vedeva la necessità di modificare
il sistema sociale. Era piuttosto un conservatore che considerava le
tare individuali: grettezza, avarizia, ambizione, responsabili della
miseria in cui viveva il popolo. I necessari cambiamenti dovevano
essere per lui la conseguenza di una rigenerazione morale più che
politica.
Resta
il fatto che questo libro, senz'altro il più significativo della sua
pur notevole opera, è forse l'affresco più riuscito della società
russa del XIX secolo. Morto a 43 anni, Gogol sarà considerato dai
suoi successori come il padre di una nuova letteratura russa. I
grandi autori che continueranno a scrivere dopo la sua morte Dostojevski, Tolstoi, Turgenev
(che fece un mese di carcere e due anni di esilio per un necrologio
dedicato a Gogol e pubblicato malgrado il divieto della censura)
riconosceranno in lui un maestro e un esempio.
Scritto
nella lontananza, Le Anime morte è soprattutto un omaggio
alla terra russa anche -e soprattutto- quando il paesaggio si fa, per
contappunto, italiano.
Terra
di Russia, terra di Russia! Io ti vedo; dalla mia incantevole,
meravigliosa lontananza, io ti vedo. Tutto è povero in te,
disordinato, inospitale; non rallegrano, non atterriscono lo sguardo
gli arditi miracoli della natura, coronati dagli arditi miracoli
dell'arte: le città con gli alti castelli dalle mille finestre,
radicati sui dirupi; le pittoresche piante ed edere radicate sulle
case, fra lo scroscio e l'etreno vaporio delle cascate. Non si
rovescia indietro la testa a guardare il sovrapporsi senza fine,
nelle altezze, dei blocchi di pietra; non brillano attraverso gli
oscuri archi gettati uno sull'altro, rivestiti di tralci di viti,
d'edere e di milioni e milioni di rose selvatiche, non brillano in
lontananza gli eterni profili dei monti radiosi, alzati agli
argentei, limpidi cieli. Tutto è aperto, desolato e uniforme in te;
come piccoli punti, come piccoli segni, visibili appena, spiccano tra
le distese le piatte tue città: nulla che accarezzi o che affascini
lo sguardo. Ma che inaccessibile forza è dunque questa che attira a
te? Perché riecheggia e di continuo risuona al'orecchio,
malinconica, come si diffonde su tutta l'ampiezza tua, da mare a mare
la tua canzone? Che c'è in essa, in codesta canzone? Che cosa chiama
così, e singhiozza e afferra il cuore? Che suoni son questi che
morbosamente si insinuano e penetrano nell'anima, e s'attorcigliano
al moi cuore? Terra di Russia! Che cosa vuoi dunque da me? Quale
inaccessibile legame esiste tra noi? Che hai da guardarmi così e
perché tutto quello che c'è in te si rivolge a me con quest'occhi
pieni di aspettazione?... E ancora pieno di stupore, rimango immoto,
e già sul capo ho l'ombra di una nube minacciosa, gravida di piogge
incombenti, e il pensiero ammutolisce dinnanzi alla tua vastità
illimitata? Forse qui, forse in te sorgerà uno sconfinato pensiero,
giacché tu stessa sei senza fine? Non potrebbe avere qui l'avvento
un eroe gigante, giacché c'è spazio abbastanza perché si sviluppi
e si muova? E minacciosamente mi abbraccia la possente vastità,
riverbandosi con terribile forza nel profondo del moi essere; d'una
potenza arcana s'illuminano i miei occhi... Oh, sfolgorante,
fascinosa, ignota al mondo sconfinatezza! Terra di Russia!...*
*Traduzione
di Agostino Villa
lunedì 22 aprile 2013
Grotta di Sant'Angelo a Palombaro (Chieti)
Sulle
pendici orientali della Maiella, non lontano da Fara San Martino,
Palombaro è su un colle a circa 500 metri di altezza. Siamo nella
comunità montana della Maielletta. È nel territorio di questo
comune che si trova la grotta di Sant'Angelo, un misterioso e
sorprendente luogo di culto, situato in un'ampia apertura nella
roccia della montagna. Dalla frazione di Cantagufo parte una
mulattiera che sale verso il monte poi un sentiero permette di
arrivare, in una decina di minuti, alla grotta, nascosta nel bosco di
faggi.
La
grotta non è molto profonda e l'ampia apertura permette alla luce
del giorno di arrivare fino ai resti in muratura situati nel fondo.
Non resta molto di ciò che ha l'apparenza dell'abside di una chiesa.
Una stretta finestra ad arco si apre verso la valle mentre nella
parte superiore è un'elegante decorazione di piccole arcate.
Dell'origine
e del significato di questi ruderi non si sa praticamente nulla. Una
sola citazione in una bolla papale del XIII secolo che, nell'elenco
dei possedimenti del monastero di San Martino, cita la chiesa di
Sant'Angelo a Palombaro. Sembra che nell'antichità vi si venerasse
Bona, dea della fertilità. È Sant'Agata che, con l'arrivo del
cristianesimo, ha sostituito nella cultura popolare la dea Bona come
protettrice della fertilità proteggendo le donne dal serpente che
vorrebbe rubare loro il latte. Le grandi vasche scavate nella roccia
e situate nella parte anteriore servivano forse a raccogliere acque
miracolose. Per molto tempo la grotta è servita da stalla per i
pastori del paese a cui il comune la affittava. Negli anni trenta del
Ventesimo secolo fu ripulita e riaperta al culto.
mercoledì 3 aprile 2013
Carlo Levi, Cesare Pavese e il confino
Carlo
Levi nasce a Torino all'inizio del Novecento. Negli anni della sua
giovinezza trova in questa città un ambiente culturale molto ricco
che il fascismo faticherà a soffocare. Lo zio, Claudio Treves, è
uno dei principali dirigenti del Partito Socialista ed è, si dice,
grazie a lui che Levi conosce Pietro Gobetti, quasi suo coetaneo, già
fortemente impegnato nella vita politica e culturale. Carlo Levi,
mentre segue ancora gli studi di medicina, scrive per la rivista di
Gobetti Rivoluzione liberale e
nello stesso tempo comincia a frequentare l'ambiente dei giovani
pittori torinesi, dando nuove basi alla passione della sua vita, la
pittura appunto.
Per
la sua militanza antifascista (nel 1931 aveva aderito al movimento
Giustizia e libertà)
è condannato al confino in Lucania, dove resterà un anno tra il
1935 e il 1936.
A
Torino Carlo Levi aveva conosciuto tra gli altri anche Cesare Pavese,
di qualche anno più giovane. Pavese si interessa e si appassiona
alla letteratura e alla poesia soprattutto grazie all'insegnamento di
Augusto Monti, suo professore di liceo, seguace anche lui di Pietro
Gobetti e convinto degli importanti e necessari legami tra
letteratura e etica.
Come
Levi, Pavese frequenta i gruppi antifascisti della città, ma il suo
impegno non sarà mai strettamente militante. Fatto sta che, durante
una perquisizione del suo domicilio, la polizia trova una lettera di
Altiero Spinelli, a quel tempo in carcere a Roma, lettera peraltro
non destinata a lui ma alla donna dalla voce rauca Tina
Pizzardo, con la quale Pavese aveva una complicata relazione. Ciò
basta per far scattare l'accusa di antifascismo. Pavese è inviato,
come Levi al confino ma a Brancaleone calabro, dove rimarrà un anno.
Carlo
Levi e Cesare Pavese sono quindi, malgrado loro, nell'Italia
meridionale, praticamente nello stesso periodo e vivono, lontano da
Torino, un'esperienza analoga. Entrambi scriveranno un libro,
ispirato da questa vicenda: per Levi sarà Cristo si è fermato a
Eboli, per Pavese Il carcere.
È
sorprendente allora il modo così differente che hanno i due
scrittori piemontesi di raccontare il loro viaggio in un'Italia che
era loro praticamente sconosciuta. Carlo Levi scrive il suo romanzo
all'inizio del 1944, mentre si trova a Firenze è la guerra sembra
non voler finire mai. Nel suo libro parla della sua esperienza, ma
soprattutto delle cose che ha visto. Descrive una società per molti
aspetti arcaica e feudale. Mentre in tutta l'Italia si festeggia
l'Impero (il 1935 è l'anno della guerra in Etiopia) e i ricchi
notabili pavoneggiano, il popolo analfabeta vive nella miseria e
stenta a sopravvivere tra fame e malattie, lontano dalla «civiltà»
fermatasi ad Eboli, ultimo avamposto prima di quel mondo dimenticato
da Dio. E di fronte all'abbandono, i contadini di Aliano hanno
cercato altrove una soluzione per i propri mali. Levi scopre
l'importanza della magia e del rito che non snobba come semplici
superstizioni ma che osserva con interesse, come un aspetto di quella
civiltà contadina che la modenità stava facendo scomparire. Carlo
Levi, riconosciuto come medico dai poveri abitanti del posto, entra
nelle catapecchie del paese per esercitare una professione che aveva
ormai abbandonato. È accolto con riconoscenza, apprezzato per la sua
umanità, qualità che mancava ai dottori del paese, descritti come
incompetenti ciarlatani. A poco a poco un legame molto forte, fatto
di compassione ma anche di simpatia e infine di affetto, lo lega alla
gente di Aliano.
Il
libro di Carlo Levi non è solo un romanzo. L'autore osserva il mondo
che lo circonda con l'occhio di un antropologo attento, scruta,
analizza, riflette. La sua opera diventerà un punto di riferimento
per quegli studiosi che si occuperanno con nuovo interesse alla
cultura contadina del meridione.
Siamo
anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime,
nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e
città, civiltà precristiana e civiltà non piú cristiana, stanno
di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la
sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e
quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo
dissidio secolare, giunto ora alla sua piú intensa acutezza, e non
soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non
si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli
della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale
si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e
quello del secolo scorso non sarà l’ultimo. Finché Roma governerà
Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e
tirannica
Tutt'altra
disposizione è quella di Cesare Pavese.
Il
suo racconto del soggiorno in Calabria è sicuramente meno
autobiografico di quello di Carlo Levi, lascia maggior spazio alla
fantasia e all'invenzione; un paragone troppo formale sarebbe quindi
improprio. Resta però un'impressione di minore apertura al mondo,
anzi di uno sguardo che piuttosto di allargarsi verso l'universo che
lo circonda, si volge verso il ripiegamento e l'introspezione. I
personaggi che ruotano attorno alla figura di Stefano, il confinato,
sono osservati sempre con distacco. Manca l'empatia che appare nel
libro di Levi. Le loro azioni e le loro parole sono sempre riportate
verso Stefano che resta personaggio chiave e, in qualche modo l'unico
che ha una vera profondità. È nella solitudine che il protagonista
trova la condizione che più lo appaga e sembra avere quasi un
sentimento di sollievo quando Giannino, l'unica persona a cui si era
legato, va in prigione. E rifiuta di incontrare l'altro
confinato,chiudendo simbolicamente ogni velleità di impegno
politico. Solo i personaggi femminili assumono un certo rilievo: la
donna lasciata al nord, la proprietaria della casa in cui abita, la
giovane Concia simbolo di selvaggia vitalità. Ma i rapporti non sono
facili, la comunicazione non riesce ad innescarsi.
Nessuno
si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le
pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell'osteria, fra i
visi cordiali o inerti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e
precario, dolorosamente isolato, tra quella gente provvisoria, dalle
sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo
lasciava frequentare l'osteria, non sapeva che Stefano, a ogni
ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua
vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui
come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe
tornato a casa.
Ma
Il carcere, a differenza di Cristo si è fermato a Eboli
non è che un romanzo, se Carlo Levi parla alla prima persona,
Stefano non è Cesare, non del tutto almeno.
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