Ho visto e ascoltato Francesco Biamonti a Lilla, in Francia, pochi anni prima della sua morte. Era invitato ad un colloquio alla facoltà di Lettere. Tra gli universitari sempre un po' impettiti, lui con il suo berretto e la sua aria dimessa, aveva l'aspetto di un mite pensionato, forse quel ragioniere che avrebbe dovuto essere dopo gli studi. Parlava con lentezza, il respiro già faticoso e difficile. Le sue parole erano pesate ma non pesanti, piuttosto limpide e precise. Capace di citare a memoria Dante e Sbarbaro, Montale e Valéry, Biamonti affascinava per la sua intelligenza e la sua cultura, sorprendenti perché quasi nascoste sotto un velo di modestia e semplicità.
Non è un caso se oltre alla letteratura fosse stata la pittura l'altra sua passione. Si è detto: nei suoi testi parlano i colori. Colori vivi sotto il sole cocente o sfumature tenui, nebbie portate dal vento, movimenti di foglie nel crepuscolo. In una luce che viene dal mare, visto spesso da lontano, dall'alto di quella costa ligure luogo cardine per le sue storie. Il mare che, diceva Biamonti, è un'apertura sul mondo ma è anche un deserto in cui ci si perde e che in questa dualità ha la sua attrazione.
Cézanne è l'artista più amato, che aveva dipinto e ridipinto la Sainte Victoire, mutando l'angolo o il momento del giorno. Così sono i paesaggi dello scrittore, ogni volta gli stessi e ogni volta visti con occhio diverso e con luce nuova, alla ricerca di una precisione sempre più vicina è sempre irraggiungibile. È una natura che consola, dice Biamonti, ma che è anche lo specchio dell'animo umano e, come in Leopardi, meditazione sul senso della vita. Ed è forse l'ammirazione per gli impressionisti e l'interesse per il simbolismo, soprattutto quando si esprime nell'analogia tra i sensi, che lo spinge all'uso della sinestesia, facendo nascere immagini intense e profonde:
desolato crinale che il sole invetrava;
L'azzurro rugoso;
Il mare[...] si squamava d'oro.
Scrittura che non è più prosa e che, nella forma, sembra un richiamo alla poesia-racconto pavesiana di Lavorare stanca. Anche qui la parola è ritmata, l'immagine netta: la frase come un'onda di risacca che poi si srotola e si distende:
Se ne andavano per il cielo, intorno al quarto di luna, certe nuvole leggere
o ancora:
Raffiche di luce opalescente, staccatesi dal largo, calcinavano il sentiero.
Biamonti era un finto contadino. In realtà per lui la terra non era mai stata lavoro, piuttosto passione. Amava parlare - e scrivere - di fiori e di piante, di ulivi che fremono al vento e del contrasto tra il verde abbagliante dei prati e il bianco dei muretti di pietra nel sole. Ma il suo non è uno spazio vuoto. Se non c'è più nessuno per ricordare il nome degli ulivi, se anche le piante soffrono dell'abbandono degli uomini, questi ultimi sono ancora -di nuovo- presenti, vengono da lontano, percorrono sentieri antichi. Territorio di confine, dove il passaggio di clandestini, in cerca di pace e lavoro, si trasforma in racconto mitico; dove gli sguardi e i silenzi assumono forza e legano le persone al di là di frontiere e vite distinte. Perché questa non è una poesia del ripiegamento né dell'abbandono; c'è l'impegno, mai ostentato ma sempre presente. L'attenzione per gli altri è coscienza di chi vive tra gli uomini e conosce i valori: non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine.
Non è però nell'indicazione biografica che bisogna cercare il significato delle sue storie. La citazione è stata ripresa decine di volte: “Mi piace non dire niente; io sono da cancellare; la mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante”. Come Proust, Biamonti ci invita a trovare nel libro e non nell'autore il senso delle parole. Eppure è difficile pensarlo lontano da questo spazio di confine tra Liguria e Provenza, paese tra mare e montagna che riempie i suoi scritti. Forse è anche il desiderio di andare all'essenza che implica la volontà di liberarsi da qualche bagaglio che diventa ingombrante e che appesantisce il pensiero:
Per navigare bisogna alleggerire il naviglio della memoria per non affondare sotto il cumulo dei ricordi e delle rovine.
Così anche i suoi libri sono oggetti esili, il risultato di un lavoro di decantazione che lasciando solo il succo di un pensiero aprono spazi di percezione e che nella sottrazione diventano grandi opere.