martedì 25 febbraio 2014
Mariusz Wilk: Appunti di un lupo
Prendete
delle placchette di ferro, dotate di fori per poterle infilare in uno
spago e così tirarle fuori più facilmente dal bagno. Se ne siete
sprovvisti, prendete delle vecchie serrature, vecchie chiavi o
vecchie catene. Potete usare del ferro non corroso, ma certi
preferiscono invece della ferraglia arrugginita, e anche le battiture
che schizzano sotto il martello del fabbro. Mettete il metallo e le
noci di galla pestate grossolanamente, in un recipiente nel quale si
formerà l'acido gallico, che potrete usare per otto o dieci anni. Le
noci di galla sono delle escrescenze dovute a particolari insetti,
che si formano sulle quercie. Sceglietele con cura perché ce ne sono
di dure, di verdi e macchiate, di scolorite. Pestate, spruzzate con
acqua mischiata a kwas (o succo di cavolo marinato) e mettete da
parte al riparo dalla luce, oppure immergete immediatamente il
metallo nella soluzione. Versate poi nell'acido ottenuto un decotto
di foglie di quercia, di ontano o di frassino. Strappate la corteccia
a primavera, appena la linfa sale, e fatela seccare – la corteccia
secca da una tinta più scura. Fate bollire fino a evaporazione in un
recipiente di rame. Aggiungete del liquido e scaldate a fuoco basso
fino ad ispessimento. Passate in un crivello e pressate. Poi passate
in un setaccio più fine e pressate. Infine passate in una tela e
pressate di nuovo. Versate quindi questo decotto nell'acido. Per
ottenere sali ferrugginosi, aggiungete del miele, della birra d'orzo,
o del vino, rosso di preferenza. Mettete il recipiente di tchernilo
al riparo della luce e mescolate più volte al giorno. Il processo si
effettua lentamente: contate tra i dodici e i quattordici giorni.
Temperate con un decotto di luppolo per evitare la muffa. Se il
tchernilo passa
attraverso la carta aggiungete della gomma di ciliegio per indurirlo;
se volete che scorra più facilmente sotto la penna, aggiungete dei
chiodi di garofano o dello zenzero...
Questa
ricetta di inchiostro (tchernilo)
è tratta da un libro di ricette del XVI secolo. Gli scribi del
monastero non erano autorizzati a prendere in mano una penna prima di
aver fabbricato essi stessi il proprio tchernilo.
Mariusz
Wilk, giornalista polacco nato nel 1955, fece parte dell'opposizione
alla dittutura di Jaruzelski
e finì anche in prigione. Nel 1991 si stabilì sulle isole russe di
Solovki, nel mar Bianco, all'estremo nord del paese, dove restò sei
anni. Per Wilk non si trattava di andare in volontario esilio ma, all'indomani
del crollo dell'impero sovietico, di cercare un punto di vista
emblematico per osservare e raccontare i cambiamenti della società.
Solovki è stata nel passato la
sede di un importante monastero, meta di pellegrinaggio per gli
ortodossi russi. Dopo la rivoluzione del 1917 divenne luogo di
reclusione, uno dei primi gulag sovietici. In una serie di articoli
pubblicati in Francia dalla rivista polacca Kultura, Mariusz Wilk (il
suo cognome in polacco vuol dire lupo) ne ha descritto il paesaggio
rude e affascinante, l'esistenza e il carattere del migliaio abitanti
dalla vita inquieta e caotica.
lunedì 10 febbraio 2014
Luciano Bianciardi: La vita agra
E se ora ritorno al mio paese, e ci
incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno
stavolta lui dirà niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so
fin da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda,
Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se
caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta
appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare,
credi pure che la vita è agra, lassù.
Erano già gli anni Sessanta, gli anni
del miracolo economico e
gli italiani sognavano l'utilitaria e il televisore. Le
catene di montaggio delle fabbriche del nord correvano sempre più
veloci. I contadini e i pastori del sud, abbandonavano
già pieni
di rimpianto la loro terra e
partivano verso il promesso benessere del triangolo industriale. Il
paese si trasformava a vista d'occhio; nelle periferie i palazzoni
spuntavano come funghi nella notte, costruiti dagli stessi contadini
meridionali trasformatisi in manovali. L'Italia agricola e
sottosviluppata del dopoguerra vendeva ormai elettrodomestici al mondo
intero, ricercati perché
economici, grazie ai salari
di miseria degli operai: a quel tempo turchi
e bengalesi
erano i nostri padri.
Tra
gli intellettuali poche erano le voci critiche che, come Pasolini,
denunciavano una corsa al progresso che era piuttosto corsa al
profitto degli uni e all'alienazione degli altri.
E
tra le poche, quella di Luciano Bianciardi è
stata presto dimenticata. Solo nel
1993,
grazie al saggio di Pino Corrias Vita
agra di un anarchico,
si è riscoperta l'importanza dello scrittore grossetano. Il
titolo del saggio di
Corrias è
un evidente richiamo
al romanzo che Bianciardi ha pubblicato nel
1962: La vita
agra,
riferimento
doveroso dato il carattere ampiamente autobiografico di quest'ultimo.
La
vita agra
è
la
storia di un intellettuale che lascia la provincia grossetana per
andare a Milano con uno scopo ben preciso: vendicare la morte dei 43
minatori di Ribolla, uccisi nel 1954 da un colpo di grisù nella
miniera della Montedison. L'idea
è di fare esplodere il torracchione,
sede
della società.
Ma
le vita nella metropoli non è facile. Il protagonista deve fare i
conti con una società che a poco a poco tenta di inghiottirlo. Si
rende conto ben presto che il suo gesto isolato non avrebbe senso,
solo una presa di coscienza e un'azione collettiva sarebbero
efficaci.
La
vita agra, -il
titolo è un'evidente
contrapposizione alla Dolce vita
felliniana, uscita due anni prima- , è
un libro vitale e
sostanzioso, un testo che
resta, a distanza di più di cinquant'anni di grande modernità anzi,
a tratti, profetico. È
l'espressione piena
di un pensiero eretico:
Occorre che la gente impari a non collaborare, a non farsi
nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.
Ma
non e solo il contenuto a fare di questo romanzo un'opera importante.
La scrittura di Bianciardi gioca a spiazzare il lettore fin dalla
divagazione filologica di un incipit che si dilunga nella
rievocazione del quartiere di Brera. Si diverte con sottintesi
letterari che mettono a repentaglio le riminiscenze scolastiche del
lettore, tra Manzoni (il securo napoleonico del Cinque
maggio) e Cassola (si sa come son fatte queste ragazze di
Bube), Carducci e Verga: (e sono capaci di mangiare vivo te
con tutta la casa del nespolo).
E
poi richiami storici più o meno velati come quello di Vittorio
Emanuele III: quel gambecorte di un italiano rimasto sul trono
cinquant'anni, ma cosa comandava quel poveretto sposato con la
montanara pecoraia se a Roma c'era quell'altro, quello tutto nero, a
fare e disfare ogni cosa.
E
ancora accumulazioni di sinonimi, termini tecnici o dialettali,
latinismi...
Bianciardi
sembra irridere i manierismi e la ricerca dello Stile; fa
l'occhiolino a Gadda, altro scrittore fuori dalle forme, e costruisce
un romanzo in cui forma e contenuto operano concretamente nello
stesso senso, nella stessa critica radicale al conformismo.
Paradossalmente
il successo del libro, le interviste, la fama, furono fatali a
Luciano Bianciardi. Lui che quando lavorava da Feltrinelli, era stato
licenziato per scarso rendimento è ormai sotto i riflettori
della celebrità. La società dei consumi che aveva voluto denunciare
è riuscita a fagocitare il libro e il suo autore. Ritiratosi a
Rapallo lo scrittore abbandonerà ogni velleità, morendo alcolizzato
a soli 49 anni, nel 1971.
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