Difficile
da difendere la figura di Gabriele D'Annunzio. Troppo impantanata
nella retorica umbertina e poi fascista. Il poeta vate
costruì la sua immagine sentenziosa e pomposa sulle insicure
fondamenta di un'Italia provinciale e piccolo borghese; volle
edificare la sua vita come un'opera d'arte. Fu con questa idea che,
colui che si pavoneggierà con il titolo di Principe di
montenevoso, immaginò le sue
azioni eroiche, dal
volo su Vienna nel 1918 all'impresa di Fiume; con questo spirito
addobbò la villa che aveva assunto a dimora sulle rive del Garda
quando la trasformò in un monumento alla sua gloria e la ribattezzò
Vittoriale degli Italiani.
D'Annunzio
è cosiderato, con Pascoli, il massimo esponente del Decadentismo
italiano. Ma la declinazione nostrana di quella corrente artistica
era in definitiva in un tono assai minore rispetto al grande
movimento letterario europeo che aveva espresso sulla scia di
Baudelaire, con Verlaine, Mallarmé o Rimbaud tematiche ben più
ricche e profonde.
In
particolare, nel poeta pescarese, la facciata dell'edificio poetico
appare spesso di cartapesta, la foga retorica svela un che di stantio
e di artefatto. Pensiamo alla celebre invocazione con cui chiude la
poesia dedicata alla transumanza delle genti d'Abruzzo: Ah perché
non son io co' miei pastori? Qualcuno gli fece giustamente notare
che forse era semplicamente perché preferiva le ville della Versilia
o Montecarlo alle montagne abruzzesi.
Accade
però che, abbandonati gli artifici, l'opera d'annunziana mostri il
suo aspetto più convincente. Perché, malgrado tutto, D'Annunzio
poeta lo è davvero. È il caso per esempio di Notturno.
Scritto su striscioline di carta con gli occhi bendati dopo un grave
incidente aereo che lo aveva reso momentaneamente cieco e nel quale
il suo compagno di volo era morto, questa prosa lirica tralascia la
retorica grandiloquente e assume un tono che appare più sincero e
personale.
Aegri somnia.
Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col
torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le
ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata.
Scrivo sopra una stretta
lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis
scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli
orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l′ultima
falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una
guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro
i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema
leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione
del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia
attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d′ogni
luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è
solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata.
Imparo un′arte nuova.
Ma
anche nella raccolta Alcyone troviamo qualche momento di vera
poesia. È il caso della celeberrima La pioggia nel pineto.
Dedicata ad Eleonora Duse, -l'Ermione del canto- questa lirica
in versi liberi fu composta in Versilia nel 1902. La maestria con la
quale il poeta utilizza les figure retoriche e quelle di stile
raramente appare così poco forzata e ha come risultato un sorgere di
immagini, di odori e di suoni che ci immergono in quell'universo
naturale. Ad essa si potrebbe associare la celebre definizione che
Pascoli aveva dato dell'arte poetica: uno sguardo vergine sulle
cose.
Dimenticando
per un istante le reminiscenze scolastiche e l'autocaricatura
dannunziana possiamo inoltrarci tra gli alberi di quel mondo fuori
dal tempo nel quale la natura parla, respira, vive. Non è forse
usurpata per questa lirica la definizione che il critico Walter Binni
diede della nuova poesia: pura atmosfera musicale che porta
l'eco di un nuovo e misterioso mondo ignoto agli antichi.
Taci.
Su le soglie
del
bosco non odo
parole
che dici
umane;
ma odo
parole
più nuove
che
parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta.
Piove
dalle
nuvole sparse.
Piove
su le tamerici
salmastre
ed arse,
piove
su i pini
scagliosi
ed irti,
piove
su i mirti
su
le ginestre fulgenti
di
fiori accolti,
su
i ginepri folti
di
coccole aulenti,
piove
su i nostri volti
silvani,
piove
su le nostre mani
ignude,
su
i nostri vestimenti
leggieri,
su
i freschi pensieri
che
l’anima schiude
novella,
su
la favola bella
t’illuse,
che oggi m’illude,
o
Ermione.
Odi?
La pioggia cade
su
la solitaria
verdura
con
un crepitìo che dura
e
varia nell’aria
secondo
le fronde
più
rade, men rade.
Ascolta.
Risponde
al
pianto il canto
delle
cicale
che
il pianto australe
non
impaura,
né
il ciel cinerino.
E
il pino
ha
un suono, e il mirto
altro
suono, e il ginepro
altro
ancora, stromenti
sotto
innumerevoli dita.
E
immersi
noi
siam nello spirto
silvestre,
d’arborea
vita viventi;
e
il tuo volto ebro
è
molle di pioggia
come
una foglia,
e
le tue chiome
le
chiare ginestre,
o
creatura terrestre
che
hai nome
Ermione.
Ascolta,
ascolta. L’accordo
delle
aeree cicale
a
poco a poco
più
sordo
si
fa sotto il pianto
che
cresce;
ma
un canto vi si mesce
più
roco
che
di laggiù sale,
dall’umida
ombra remota.
Più
sordo, e più fioco
s’allenta,
si spegne.
Sola
una nota
ancor
trema, si spegne,
risorge,
trema, si spegne.
Non
s’ode voce dal mare.
Or
s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea
pioggia
che
monda,
il
croscio che varia
secondo
la fronda
più
folta, men folta.
Ascolta.
La
figlia dell’aria
del
limo lontana,
la
rana,
canta
nell’ombra più fonda,
chi
sa dove, chi sa dove!
E
piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove
su le tue ciglia nere
sì
che par tu pianga
ma
di piacere; non bianca
ma
quasi fatta virente,
par
da scorza tu esca.
E
tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il
cuor nel petto è come pesca
tra
le pàlpebre gli occhi
son
come polle tra l’erbe,
i
denti negli alveoli
son
come mandorle acerbe.
E
andiam di fratta in fratta,
or
congiunti or disciolti
(e
il verde vigor rude
ci
allaccia i malleoli
c’intrica
i ginocchi)
chi
sa dove, chi sa dove!
E
piove su i nostri volti
silvani,
piove
su le nostre mani
ignude,
leggieri,
su
i freschi pensieri
che
l’anima schiude
novella,
su
la favola bella
che
ieri
m’illuse,
che oggi t’illude,
o
Ermione.