giovedì 31 dicembre 2015
venerdì 25 dicembre 2015
Eugenio Montale: I limoni
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantanoi ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rurnorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
lunedì 21 dicembre 2015
Provenza : Le Rocher des Aurès
Credo
che non potrei avec cura della mia salute fisica e intellettuale se
non passassi almeno quattro ore al giorno – e spesso di più – a
passeggiare nei boschi, per colline e per campi, completamente libero
da ogni contingenza materiale. Si può dire con certezza che si tratta di
pensieri da un soldo o da un milione. Quando penso che gli artigiani
e i commercianti rimangono nelle loro botteghe non solo tutta la
mattina, ma anche tutto il pomeriggio, seduti a gambe incrociate, –
come se le gambe fossero fatte per sedersi, e non per alzarsi e
camminare - , penso che molti tra loro abbiano del merito a non
essersi suicidati da un pezzo.
Io
che non posso restare nella mia camera un sol giorno senza
arrugginire, quando mi capita di mettermi in cammino all'undicesima ora della mia
giornata alle quattro del pomeriggio, ora troppo tardiva per
riscattare la giornata, quando le ombre della notte comminciano già
a confondersi con la luce del giorno – ho il sentimento di aver
commesso qualche peccato, peccato che bisogna espiare, io confesso di
essere sorpreso dalla capacità e dalla resitenza – senza parlare
dell'insensibilità morale dei miei vicini che si rinchiudono tutto
il giorno nelle loro botteghe e nei loro uffici per settimane e mesi
che sommati fanno anni. Ignoro di che stoffa siano fatti per restare
seduti a quest'ora, alle tre del pomeriggio, come se fossero le tre
del mattino.
H.D.Thoreau:
Del camminare
Les
rocher des Aurès è uno
sperone triangolare culminante a 771 metri che si eleva ai
piedi del massiccio della Lance
nelle
prealpi francesi della Drôme. La
punta indica l'est e il suo innalzamento ha lasciato due falesie di
calcare, nel loro punto
d'incontro, quasi cinquanta metri.
Le
bianche mura di pietra rendono da questo lato l'accesso
impraticabile.
Già
nell'Età del bronzo, tra il 3000 e il 2000 a.c., forse proprio per
questa particolarità, il sito era apprezzato come rifugio ideale per
una piazzaforte considerata inespugnabile. Furono
forse i celti a dare il nome
di Aeria all'oppido costruito du questa montagna.
Quando
l'aria è tersa si vede la valle del Rodano a una trentina di
chilometri di distanza, il monte Ventoso e il lontanissimo massiccio
delle Cevenne, a più di 120 chilometri.
Nella
regione il vento soffia spesso con forza ma in questo punto preciso
la montagna della Lance
fa da barriera e addolcisce
le temperature permettendo una vegetazione rigogliosa.
Attualmente
il Rocher des Aures si situa
in una zona relativamente isolata e selvaggia ma nell'antichità
passavano da qui importanti vie di comunicazione come quella che
collegava la colonia fenicia di Massalia
(l'odierna Marsiglia) alle città della valle del Rodano.
Molte
esplorazioni,
di archeologi professionisti o dilettanti, hanno percorso questo sito
alla ricerca dei resti dell'oppido
di Aeria
che Strabone cita nel suo trattato di geografia ma, forse
anche a causa della difficile accessibilità del luogo, senza
risultati spettacolari.
Partiamo
dal paesino di La Roche-Saint-Secret.
Nel
fresco del mattino la bruma avvolge ancora il fondovalle e dalle
sponde del fiume Lez si allarga verso i campi circostanti.
Ma
rapidamente il sole supera le creste delle montagne e scendendo fino
al fiume dirada la nebbiolina e ravviva i colori delle foglie di
vigna ormai quasi pronte a cadere.
Sembra
che il borgo di La Roche Saint Secrèt debba il suo nome proprio al
Rocher des Aures che
si trova sul suo territorio.
La
strada che attraversa il villaggio è quella che collega Dieulefit,
capoluogo del cantone a
Valréas, nella
cosiddetta “enclave dei papi” appartenente amministrativamente al
dipartimento vicino del Vaucluse, quello
di Avignone, sede papale
appunto.
Il
monte più alto è il Garaux e “culmina” a 1338.
Risalendo
la stradina che porta verso un'antica cappella, passiamo davanti al
castello di La Roche. Oggi è una casa privata, solo i
torrioni angolari ricordano le antiche funzioni.
Nel
prato vicino un cane ci accoglie facendoci le feste. È un border
collie che probabilmente ha fiutato la possibilità di una
passeggiata fuori programma e che ci seguirà per tutta la durata
della gita.
La
stradina si trasforma rapidamente in sentiero e si avvicina alla
falesia calcarea tra pini, arbusti e castagni.
Arrivati ai piedi del
picco roccioso lo aggiriamo, tagliando le pendici della Lance e
scendendo gradualmente verso una valletta sottostante.
Una sola costruzione isolata, le
gîte de Flontargias, una tipica cascina in
pietra trasformata in agriturismo, interrompe l'aspetto un po'
selvaggio del luogo.
Da qui il sentiero comincia a
risalire a zig zag verso la cresta del monte Lance.
Il nostro
amico cane ci precede e ogni tanto si ferma per aspettarci. Se
tardiamo troppo torna indietro e rifà la strada con noi. In effetti
la passeggiata descritta nella guida non è proprio di tutto riposo.
Dopo la discesa risaliamo dai 400 metri dell'agriturismo fino ai 1200
del passo, non lontani dalla cima della Lance.
Quassù il bosco si fa meno fitto
poi lascia spazio ad ampi pascoli dove troviamo una piccola mandria
di mucche limousine reputate per la loro rusticità.
Il nostro amico cane conosce la
strada meglio di noi e a ogni bivio ci aspetta per vedere se
prendiamo la direzione giusta.
Il poveretto deve cominciare ad avere
fame e sete; noi non avevamo previsto un giro così lungo e non
abbiamo niente da offrirgli.
Concluso il giro sulla montagna
ritroviamo, sotto il Rocher la via percorsa la mattina. Il
cane sembra sempre più impaziente di ritrovare la sua casa e
soprattutto la sua pietanza.
Ci aspetta ancora ma ogni volta si
allontana un po' di più e quando si volta sembra invitarci ad
affrettare il passo.
In vista della casa riconosce i
suoi padroni e ci lascia definitivamente accolto dai rimproveri della
“castellana” che lo ha cercato tutto il giorno.
sabato 19 dicembre 2015
La passatella
Sarà
l'inverno che arriva, sarà la fine dell'anno che, con lo scandire
delle ricorrenze, ci fa considerare con maggior raccoglimento lo
scorrere implacabile del tempo, l'ora sembra alla rievocazione.
Reminiscenza
di aneddoti spesso insignificanti nello scorrere degli avvenimenti ma
capaci, come la proverbiale madeleine
di Marcel Proust, di riportare a galla stralci di
vite passate, di mondi
che sembrano ormai lontanissimi nell'accelerazione spettacolare di
una modernità che fa sembrare preistorico il decennio precedente.
Così
basta un accenno in
una pagina di un interessante blog
http://www.qualcheriga.it/10-cose-che-ho-imparato-in-abruzzo-nel-2015/
alla passatella
per ritrovare immagini del passato ormai dimenticate.
Nel
borgo di Castel del Monte le possibilità di svago, soprattutto
finita la bella stagione, non sono molte. Lo erano ancor meno quando
l'automobile era un privilegio di pochi e quindi più difficile
spostarsi. La vita sociale, più di oggi, separava spesso il mondo
femminile da
quello maschile. Per questi ultimi il ritrovo era la cantina,
l'osteria e poi il più moderno bar, dove ritrovarsi dopo il lavoro e
passare il tempo tra amici e conoscenti. Questi locali erano
relativamente numerosi, quasi
quanto le chiese, e tutti molto frequentati.
Si
battevano le carte, a tressette, a scopa, a volte a briscola. Ma
senza dubbio il gioco che più di tutti appassionava gli astanti e
spesso accendeva gli animi era la passatella.
Un
gioco antichissimo; pare fosse conosciuto già dagli antichi romani,
diffusissimo
poi negli ambienti popolari della Roma papalina al punto da provocare
tali
turbe all'ordine
pubblico
che,
nel XVI secolo, fu necessario l'intervento delle forze dell'ordine
del papa Sisto V.
Una partita a carte era solo il
pretesto per decidere chi fosse il padrone e chi il
sottopadrone. Stava poi a quest'ultimo proporre al primo chi
potesse bere e chi no le bevande pagate equamente. Si animavano
lunghe discussioni, soprattutto se il padrone e il sottopadrone non
erano proprio amici o, peggio, avevano un conto da regolare.
Entravano in ballo ripicche, antipatie, rancori, animosità. Chi
restava “a secco” era fatto olmo (olmo, forse perché con
i rami di questa pianta si legavano le viti e quindi erano vicini al
vino ma senza berlo). Oppure, con un fine ancora più perfido, a
volte si designava uno zimbello per farlo bere fino all'ubriacatura,
la famosa gatta. Succedeva che antiche amicizie fossero messe
a dura prova e che, bicchiere dopo bicchiere gli animi si scaldassero
è il gioco finisse sovente in rissa.
L'osteria castellana non sfuggiva
a questa malasorte. Ed era forse il ricordo di epiche dispute ad
accollare epiteti battaglieri ai locali. Oggi Montelepre (il
paese di Salvatore Giuliano) ha definitivamente chiuso i battenti
mentre Il Vietnam è diventato l'accogliente Rifugio del
pastore.
domenica 6 dicembre 2015
Ma la festa dell'Unità non si fa più?
Per
chi abita all'estero non è facile seguire la vita politica italiana.
Molte cose sono cambiate in questi ultimi decenni e il cambiamento
sembra accelerarsi sempre più, preso in un vortice che spazza via
tutti i punti di riferimento che sembravano inamovibili.
Ciò
è ancora più evidente in un contesto particolarmente circoscritto e
singolare com'è quello di un paese di montagna come Castel del
Monte, malgrado tutto ancora un po' appartato rispetto al mainstream
contemporaneo.
Così
capita ancora di sentire qualche compaesano abitante all'estero e
in vacanza chiedere incuriosito: Ma
la festa dell'Unità non si fa più?
Per
molti connazionali in effetti, il ritorno al borgo per le vacanze
estive era, ed è tuttora,
segnato da una serie di avvenimenti culturali
che scandiscono
il calendario delle giornate estive: la rassegna ovina di Campo
Imperatore, la festa di San Donato, la scampagnata di Ferragosto, la
festa della classe
e, da qualche anno, la “Notte delle streghe”.
Tra
queste manifestazioni si inseriva la Festa
dell'Unità,
un tassello, forse un po' anomalo ma non troppo, nella successione di
appuntamenti estivi.
Anomalo
perché era
forse l'unico
non
unanimemente accolto nel panorama delle iniziative pubbliche.
Quando, sempre più raramente, si parla di politica, soprattutto
per coloro che abitano all'estero, appare
la necessità di capire quali siano
gli schieramenti in campo e di associarli a schemi conosciuti che più
o meno corrispondano.
Così,
semplificando all'estremo (ma forse non a torto) fino
a qualche anno fa si
distinguevano le due fazioni: comunisti e democristiani, sinistra e
destra, anticlericali e bigotti. E soprattutto i più giovani, nati
all'estero
e un po' sperduti nelle sottigliezze arcane del panorama ideologico
nostrano, erano sconcertati quando il quadro manicheo non
corrispondeva più alle attese.
Certo
in un paesino in cui tutti si conoscono, il dibattito politico può
rapidamente sviare in un battibecco tra i seguaci di Peppone e quelli
di Don Camillo e la
schermaglia può avere
conseguenze paradossali.
Fu
il caso per
esempio nel
1980 quando alle elezioni comunali, dopo anni di opposizione, una
lista di sinistra, organizzata attorno alla sezione comunista
riuscì ad imporsi e a fare eleggere alla carica di sindaco Mario
Basile, principale animatore di un gruppo di giovani intraprendenti e
motivati, che
aveva saputo scuotere l'arcaica e sonnolenta sezione e
che resterà poi
in carica per i successivi 24 anni.
Per
il campo avverso la batosta fu rude e inattesa a tal punto che gli
sconfitti decisero -arma letale- di boicottare la festa patronale di
San Donato, ritirandosi dalla deputazione
incaricata dell'organizzazione dell'evento.
La risposta non si fece attendere. Era impossibile infatti per
l'amministrazione neoeletta bollare, con un segnale che sarebbe
apparso incomprensibile a molti, il nuovo corso e macchiare con un
simbolo così inaudito – il vuoto incolmabile lasciato dalla
secolare festa - le rosee prospettive future. Ed ecco quindi i
militanti comunisti, abbandonate per l'occasione le bandiere rosse e,
imbracciati i monumentali sacri stendardi, occuparsi con buona lena
del programma di animazione delle festività in onore del santo
protettore accompagnando la statua nelle due canoniche processioni
tra la chiesa matrice e quella eponima.
L'implicazione
dell'amministrazione di sinistra non si smentirà negli anni seguenti
anche quando la parte avversa tornerà a più miti consigli
riprendendo le redini delle celebrazioni. La partecipazione alla
processione religiosa, comunemente accettata dalla maggioranza della
popolazione, avrà però delle insospettate conseguenze oltralpe,
mettendo nell'imbarazzo il sindaco comunista di Somain, la cittadina
francese gemellata con Castel del Monte. Una cartolina raffigurante
il santo seguito dai due sindaci verrà utilizzata da un oppositore
per denigrare l'incongruo atteggiamento filo clericale del maire
comunista.
Tra
gli
eventi
chiave dell'estate
castellana si
inseriva quindi
la
Festa dell'Unità,
organizzata anch'essa,
ma con più congruenza dalla
locale sezione del Partito Comunista. Un momento certo festivo ma non
sprovvisto di iniziative culturali e di dibattito un po' a
controcorrente tra processioni e le messe.
Sulla
piazza principale o nella “zona sportiva” le tradizionali
grigliate accompagnavano spettacoli più o meno “impegnati”, come
si diceva allora. Punto nevralgico di coordinamento era la Casa
del popolo,
sede di partito ma anche centro di ritrovo e di incontro.
Il
destino della Casa del popolo fu
forse l'ultimo sussulto vitale e organico (come direbbe Gramsci) del
popolo di sinistra castellano. La sfida lanciata
tra i castellani e
dettata
da contingenze locative era chiara:
dare una sede definitiva
e stabile al Circolo.
Fu
una
mobilitazione all'altezza della posta in gioco. Nelle
città del nord Italia ma anche all'estero, i compaesani
simpatizzanti e militanti, giovani e meno giovani, furono sollecitati
e risposero volentieri
partecipando alla colletta che permise l'acquisizione della nuova
(ultima) sede dell'istituzione.
Ma
poi il Partito Comunista scomparve, la Cosa
si
trasformò in quercia, poi in ulivo del quale non resteranno che
cinque foglie. Terminata la spinta
propulsiva
dell'amministrazione di sinistra, anche la Casa
del popolo
perse il suo ruolo
di cellula politica. Continuerà a funzionare ancora qualche anno,
come circolo ARCI, tenuto aperto da qualche volenteroso pensionato.
Oggi
il
locale è
ancora aperto in occasioni particolari, come sede di esposizioni.
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