martedì 29 luglio 2014
Paolo Rumiz: Morimondo
Morimondo
è il titolo di
un libro dello scrittore triestino Paolo Rumiz. Il
racconto di un viaggio lungo il Po, in
uno dei luoghi paradossalmente meno conosciuti d'Italia.
Paradossalmente, perché tutti sanno che cos'è il Po, forse
ne sanno
la lunghezza e le regioni attraversate: le dense e popolose contrade
del cuore economico del paese.
Ma pochi conoscono l'universo che si
nasconde dietro questo grande
monosillabo.
Gli uomini hanno
da tempo voltato le spalle al più lungo
fiume della
penisola. Torino
è l'unica città che sembra accoglierlo, ma anche qui il fiume è
maltrattato. Lungo tutto il percorso, ferrovie,
strade ed
autostrade lo attraversano senza attardarsi, senza considerarlo
nient'altro che un ostacolo, da superare velocemente. Il
corso d'acqua è una discarica per detriti e veleni. Scopriamo
nelle pagine del
libro che non esiste nemmeno una carta
dettagliata sui tratti navigabili e sulle secche e che il
tragitto si farà spesso
in una sorta di aqua
incognita. Maltrattato, sfruttato e
avvelenato, il Po sembra però resistere all'incuria
e all'aggressione della civiltà moderna,
resta uno spazio a parte, singolare e incantatore. Non proprio
un'oasi faunistica né un parco naturale ma
un universo più complesso e multiforme.
Paolo Rumiz, giornalista scrittore e
viaggiatore, ed i
suoi compagni di viaggio, incontrano nel
loro divagare personaggi singolari, a volte
eccentrici ed
anticonformisti quasi malgrado loro. C'è
il traghettatore filosofo, figura di un altro tempo e che ricorda
quello che salva il manzoniano Renzo Tramaglino al di là dell'Adda; c'è
Aldo Manotti, autoproclamatosi Re del
Po,
che
vive in simbiosi con il fiume e che, con tronchi e rami recuperati
sulle rive, realizza sculture magiche e proteiformi. Ma ci sono anche
i gli amici della brigata Folgore
in tenuta paramilitare o i misteriosi pirati
rumeni che navigano di notte a luci spente, di cui molti parlano ma
che nessuno sembra aver visto.
Dalla
mappa uscirono le memorie di mitologiche ostesse e lamenti funebri
simili a quelli greci: odori, suoni, canti, voci, traffici, mestieri
ed eventi che potevano essere del Volga, ma anche del Mississippi;
mirabolanti registri di sconosciuti parroci, maestri e farmacisti di
luoghi mai sentiti, testamenti di vecchi giramondo per i quali il
fiume era stato l’unico amore duraturo
La
spedizione di Rumiz e dei suoi compagni parte in canoa dalle rapide
di Staffarda, là dove le acque del Pian del Re diventano finalmente
percorribili, poi, quando il torrente si allarga e diventa fiume,
abbandona le canoe per i più tradizionali barcé ed
infine, per l'ultimo tratto,
adotta il Gatto Chiorbone,
un originale clipper
con un albero
pieghevole per passare
sotto i ponti.
Il
viaggio ha come unica certezza il punto d'arrivo: la foce del fiume.
Il percorso, che sembra a prima vista obbligato, è invece una
continua scoperta, una perenne invenzione. Lo
spazio del fiume è uno spazio chiuso; gli argini nascondono alla
vista anche i paesi più vicini, segnalati a
volte solo dalla cima di un
campanile che spunta dietro la riva. Gli
abitanti del Po sono uomini e donne che vivono in un mondo a parte,
seppur vicino a quello della
terraferma; le regole
e le abitudini, ma anche i valori, sembrano differenti. Per loro, e
poi per Rumiz, il fiume diventa un personaggio vivente, il nome perde
l'articolo, è semplicemente Po, qualcuno da ascoltare e con cui
dialogare.
Ma
perché questo titolo enigmatico? Morimondo
è il nome di un'abbazia cistercense, situata tra Vigevano e
Abbiategrasso, non lontano dal Ticino, ma
non proprio luogo fluviale. È
qui che Paolo Rumiz aveva visto una misteriosa donna vestita di nero.
Una nera signora, incontrata altre volte nel corso dei suoi viaggi:
in un bazar di Kabul, sulla strada per Vienna, tra le brughiere della
Slovenia. Una donna che
sembra accompagnarlo sulle strade del mondo, sempre pronta a
ricordargli qual è il suo destino, il destino di tutti. Ed
è questa stessa donna che risorge dai ricordi mentre si cerca un
nome per battezzare un
barcé: Poi
mi venne il nome, Morimondo, e ricordai. Venne all’improvviso e non
lo dissi a nessuno. La
donna di Morimondo, che apparirà ancora sulla riva del fiume,
diventa personaggio chiave, invisibile ed
onnipresente, di questa
moderna odissea.
lunedì 28 luglio 2014
John Vaillant: La tigre
Primorje
o Territorio del litorale è il nome della regione della Siberia
orientale stretta tra il mar del Giappone e la Cina. Si trova a più
di 14000 chilometri da Mosca, là dove la ferrovia transiberiana
percorre l'ultimo tratto verso il sud prima di arrivare a
Vladivostok. È una regione in parte montagnosa, ampiamente coperta
da foreste e ricca di risorse naturali. Abitata fin da tempi
ancestrali da popoli indigeni, dai costumi simili a quelli degli
indiani d'America e che per secoli hanno vissuto in simbiosi con la
loro terra. Il territorio, appartenente geograficamente alla
Marciuria cinese, entrò a far parte dell'impero russo nella metà
del XIX secolo e poi, dopo varie vicissitudini, nel 1922 fu
conquistato definitivamente dalle forze bolsceviche.
Per
i pionieri russi l'estremo oriente siberiano ha rappresentato un
mondo nuovo da conquistare, con una graduale colonizzazione simile
per molti versi a quella americana verso il Far west.
Attualmente gli occidentali,
russi soprattutto, ma anche ucraini o bielorussi, rappresentano il
90% della popolazione.Il Territorio del litorale è anche la regione in cui vive ancora la tigre dell'Amur, uno dei più grandi e maestosi mammiferi terrestri. Un animale impressionante, lungo fino a tre metri e che, può, nei capi più imponenti, superare i 300 chili di peso. La caccia intensiva ha ridotto progressivamente il numero di esemplari e l'area occupata da questo felino. Dal secondo dopoguerra la caccia è stata vietata e l'estinzione sembra, almeno per il momento, se non evitata almeno ritardata.
John Vaillant è statunitense e vive in Canada a Vancouver. Scrittore viaggiatore e giornalista indipendente, racconta in questo libro una storia drammatica e affascinante. Il corpo di Vladimir Markov, cacciatore bracconiere viene ritrovato smembrato vicino alla sua capanna nella foresta attorno al villaggio di Sobolonje. Interviene l'Ispettorato tigre con a capo Jurij Trush, incaricato di svolgere l'indagine. Infatti tutto sembra indicare che Markov sia stato divorato da una tigre. La tigre, si dice da queste parti, non attacca l'uomo se non in casi particolari. La brutalità dell'azione lascia pensare ad una vendetta. Perchè dunque l'animale ha scatenato la sua collera su Markov e sul suo cane?
Il libro di John Vaillant comincia come un poliziesco ma in realtà non è un romanzo; le fotografie dei protagonisti ce ne convincono. È una storia vera, risalente al 1997.
Eppure nella narrazione seguiamo l'inchiesta di Jurij Trush come la trama di un giallo. Trush ha un compito molto difficile: fare in modo che la coesistenza tra le tigri e gli uomini si svolga senza incidenti. Difendere le une dagli altri e viceversa. La tigre è una preda pregiata, per la pelliccia ma anche per la carne e le ossa a cui si attribuiscono proprietà curative particolari. Ma è un animale pericolosissimo ed estremamente intelligente, capace di ricordare un torto subìto e di fare di tutto per vendicarlo. La tigre che ha attaccato Vladimir Markov sembra voglia uccidere ancora; Trush deve fermarla e, prima di tutto, scoprire che cosa ha provocato la collera della belva.
Qualcuno ha paragonato questo libro a Moby Dick. In effetti c'è la lotta tra l'uomo e l'animale, lotta che assume caratteri universali; il duello tra l'uomo e una belva che sembra adottare sentimenti e strategie simili a quelli umani: l'odio, la collera, il desiderio di vendetta. Una storia che, come quella della balena bianca, va molto al di là del semplice racconto di cacciatori e prede. Ma questo libro non è un romanzo e Vaillant non ha scritto l'equivalente forestale di Moby Dick come lo afferma una recensione; se non altro, e soprattutto, perché manca nella forma lo slancio poetico della prosa di Melville.
Ma se La tigre non è Moby Dick non è nemmeno solo la storia a cui ho accennato fin qui. Questo libro è molto di più. Vaillant fa delle profonde incursioni in campi diversi: la Geografia, la Storia, l'Antropologia e soprattutto l'Etologia. Il racconto degli avvenimenti drammatici svoltisi sulle rive del fiume Bikin si inserisce in un discorso molto più ampio e vario, tra il romanzo e il saggio. La tigre è un'opera ricca di spunti, intelligente ed accattivante che ci guida alla scoperta di un mondo arcano e misterioso, un universo in cui i rapporti tra uomini e natura sono retti da leggi primordiali e implacabili
Sospesa tra gli alberi, quasi impigliata, pende una falce di luna. Il pallido alone dissemina di ombre la foresta innevata, rendendola ancor più indistinte all'uomo che la sta attraversando e che ora prosegue a intuito, oltre che a vista. È a piedi e da solo, a parte il cane che gli trotta davanti, impaziente di prendere finalmente la via verso casa. Intorno a loro, sopra la boscaglia di sterpi, neri tronchi di quercia, di pino e di pioppo intrecciano nel buio del cielo una lacera volta di rami. Esili betulle, più candide della neve, sprigionano una parvenza di luce, ma è come la pelliccia di un animale in inverno : gelida fuori, scalda solo se stessa. Tutto è silenzio, nel letargo di questo mondo glaciale.
John
Vaillant : La tigre Einaudi 2012. Traduzione di Duccio Sacchi
venerdì 18 luglio 2014
La rocca di Calascio
Una
semplice torre di avvistamento, costruita, si pensa, intorno all'anno
Mille a 1460 metri di quota. In un luogo di grande importanza
strategica, da dove era possibile sorvegliare un ampio territorio e,
in seguito, controllare una delle principali vie di transumanza verso
la Puglia: il tratturo Magno.
I
più antichi documenti citanti la rocca e il suo abitato risalgono
però al XIV secolo, solo un po' più recenti rispetto a quelli che per
primi evocavano l'abitato di Castel del Monte. Per questo si pensa
che i due insediamenti abbiano la stessa origine: l'abbandono o
almeno lo spopolamento, dell'abitato di Marcianisci o piuttosto di un
insediamento successivo già meglio protetto dalle incursioni
barbariche, situato nella piana sottostante di San Marco.
Attorno
al primo torrione a pianta quadrata si costruirono successivamente
quattro altre torri cilindriche, più piccole e collegate da mura con
merlatura ghibellina a coda di rondine.
Ma la Rocca non divenne mai
un vero castello, restando di dimensioni piuttosto limitate anche
quando divenne proprietà di potenti famiglie, i Piccolomini prima, i
Medici poi. Si edificò invece, sul crinale sottostante, un borgo
fortificato, strettamente connesso al torrione. Una piccola chiesa a pianta ottagonale, risalente al XVI secolo si trova un po' isolata dal borgo e dalla fortificazione e completa il sito.
Santa Maria della Pietà |
Calascio con più in alto il borgo di Rocca Calascio e la Rocca |
Quella
che per molti abruzzesi è “la Rocca” per antonomasia, è
certamente uno dei monumenti più sorprendenti e affascinanti della
regione. Scenografia austera e incontaminata, ideale per molti film
girati quassù, sagoma inconfondibile par manifesti turistici ma
anche per un francobollo da cinquanta, ormai preistoriche, lire.
Non
è la costruzione in sé ad attirare l'attenzione. O meglio, la torre
attira sì il viaggiatore che, magari percorrendo una delle strade
dell'ampia valle sottostante, si propone una visita per vedere da
vicino quell'intrigante montagna coronata. In realtà però molte
sono le roccaforti e i castelli ben più complessi e interessanti di
quella semplice e modesta struttura quadrangolare. Nessuno però si
trova in un sito così straordinario e singolare. Quasi un rifugio
alpino; una costruzione umana integrata alla montagna e che ne rileva
la cresta in un ultima parete rocciosa. Le principali montagne della
regione circondano e fanno da sfondo ad un panorama straordinario: Il
Gran Sasso, il Velino, il Sirente, i monti Marsicani, la Maiella.
Ogni ora del giorno e ogni momento dell'anno propongono uno
spettacolo unico e ammaliante. La Rocca davanti al monte Velino |
L'aurora colora la Rocca e la cresta del monte Sirente |
Sullo sfondo, davanti ai ruderi dell'abitato della Rocca, Forca di Penne, valico del Tratturo Magno, a destra le pendici della Maiella |
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