sabato 30 marzo 2019
John Fante, La confraternita dell'uva
Dicono
i critici che John Fante ha riscritto tutta la vita sempre lo stesso
libro. È forse questa la prerogativa dei grandi scrittori che sono
immersi in un mondo che li appassiona, li coinvolge e che in
definitiva dà un senso alla propria esistenza.
Nato
nel 1909 a Denver, Fante è un immigrato di “seconda generazione”.
Entrambi i suoi genitori sono di origine italiana: lucana la madre,
Mary Capolungo e abruzzese il padre Nicola che era nato alle pendici
della Maiella, a Torricella Peligna, in provincia di Chieti. Ed è
l'ambiente della diaspora italoamericana che lo scrittore descrive e
racconta, quello della sua famiglia e di una comunità che vive tra
le due sponde dell'oceano, quella americana dalla quale si sente
ancora un po' estranea e l'altra abbandonata, di un'Italia rivissuta
e reinventata come un mondo mitizzato.
Fante
non è certo tenero con i suoi e soprattutto con suo padre. I
conflitti tra genitore e figlio sono un momento centrale e ricorrente
nelle sue storie. Malgrado ciò, è evidente il legame e l'affetto
che egli prova per tutti i suoi personaggi e soprattutto per quelli
che ritraggono i suoi genitori.
Il
primo romanzo di John Fante, “La strada per Los Angeles, scritto
tra il 1934 e il 1936, sarà pubblicato solo nel 1985 ma i due
seguenti: “Aspetta primavera, Bandini” e “Chiedi alla polvere”
avranno un notevole successo. Seguirà un periodo piuttosto lungo
durante il quale lo scrittore interromperà la creazione narrativa
per riprenderla solo nel 1952 con la pubblicazione di “Una vita
piena”.
In
realtà però, il riconoscimento letterario arriverà molto tardi e
Fante dovrà, per racimolare un reddito più sostanziale, scrivere a
malincuore sceneggiature per Hollywood, un ripiego per lui che era
arrivato alla scrittura ammirando Dostoevskij.
A
lungo è stato considerato, nel panorama letterario americano, come
uno scrittore secondario, meno importante e quasi marginale rispetto
ai grandi nomi del Novecento.
Fu
Charles Bukowski nel 1978, entusiasta dopo aver scoperto il lavoro di
Fante, (nel 1977 era uscito “La confraternita dell'uva”) a fare
di tutto per fare ripubblicare i romanzi precedenti e a permettere di
riconsiderare al suo giusto valore lo scrittore italoamericano.
“La
confraternita dell'uva” è ancora una volta una storia di famiglia
e in gran parte, della sua famiglia. Il personaggio narrante è Henry
Molise, scrittore affermato sulla cinquantina che vive a Los Angeles
con la moglie Harriet. I due figli ormai grandi abitano già altrove.
Henry è nato in una famiglia di italoamericani a San Elmo. Un giorno
riceve una telefonata da uno dei suoi fratelli: i genitori, più che
settantenni, hanno deciso di divorziare, o meglio è la madre,
malgrado sia fervente cattolica e un po' bigotta, a voler scacciare il marito
accusandolo di adulterio. Henry decide di partire per cercare di
appianare le divergenze. “La confraternita dell'uva” è la storia
di questo viaggio nei luoghi dell'infanzia, luoghi da cui il
protagonista era fuggito, per evitare la vita che il padre muratore
aveva previsto per lui.
L'età
non ha certo migliorato il carattere del padre Nicholas, testardo e
ubriacone, giocatore inveterato di poker, (perde sempre e dilapida i
soldi guadagnati) ma anche appassionato muratore che ama mostrare le
sue opere passeggiando per la cittadina. Che nessuno dei suoi figli
avesse voluto continuare il suo mestiere era per lui una delusione
cocente.
“Era
un montanaro degli Abruzzi, un osso duro, attaccabrighe, piccoletto,
un metro e sessantacinque, largo come una porta, nato in una regione
dell'Italia in cui la povertà era spettacolare come i ghiacciai, in
cui tutti i bambini che superavano l'età di cinque anni vivevano
fino a novantacinque. Mio padre e mia zia Pepina, che a ottant'anni
abitava a Denver, erano i due soli sopravvissuti di tredici figli.
Mio padre doveva la sua resistenza al suo modo di vita. Pane e
cipolle, si vantava spesso, pane e cipolle: un uomo non ha bisogno di
nient'altro.”
Tutt'altro
sono i pranzetti preparati dalla madre, capaci di esaltare lo spirito
poetico del protagonista:
“La
cucina, il vero regno di mia madre, l'antro caldo della strega
buona sprofondato nella terra desolata della solitudine, con pentole
piene di dolci intingoli che ribollivano sul fuoco, una caverna di
erbe magiche, rosmarino e timo e salvia e origano, balsami di loto
che recavano sanità ai lunatici, pace ai tormentati, letizia ai
disperati. Un piccolo mondo venti-per-venti: l'altare erano i
fornelli, il cerchio magico una tovaglia a quadretti dove i figli si
nutrivano, quei vecchi bambini richiamati ai propri inizi, col sapore
del latte di mamma che ancora ne pervadeva i ricordi, e il suo
profumo nelle narici, gli occhi luccicanti, e il mondo cattivo che si
perdeva in lontananza mentre la vecchia madre-strega proteggeva la
sua covata dai lupi di fuori.”
Venuto
per riappacificare i genitori, Henry Molise scopre che non ce n'era
bisogno e si ritrova coinvolto nelle peripezie del padre, tra i suoi
compagni di bevute al “Caffè Roma” (la confraternita del
titolo), tra le vigne di Angelo Musso, riverito produttore di vino,
fino al cantiere di un affumicatoio che, ultima opera di Nicholas
Molise, crollerà al primo temporale.
Così
come i muri dell'affumicatoio crollerà Nicholas Molise, malato di
diabete, per un coma etilico da cui non si salverà.
Finale
malinconico e premonitore. Il romanzo si conclude con il funerale di
Nicholas e nemmeno il pranzo preparato dalla madre riuscirà a
risollevare totalmente Henry che comincia a preoccuparsi
dell'ereditarietà della malattia: John Fante morirà di diabete
l'otto maggio 1983.
Alle
pendici della Maiella, Torricella
Peligna, in provincia di Chieti, organizza ogni anno un appassionante
festival letterario dedicato a John Fante: http://www.johnfante.org/
John Fante, La confraternita dell'uva, Einaudi
venerdì 15 marzo 2019
Erri De Luca, Il giro dell'oca
Ho un corpo e sono stato al
gioco di viverci dentro. Che gioco? Il gioco dell’oca. Si tira un
dado e ci si sposta in un circuito a spirale.
Erri
De Luca centellina i suoi libri, anno dopo anno. Sono spesso esili
volumi, non per questo meno profondi. Storie di personaggi che hanno
vissuto e che osservano il mondo un po’ discosti ma sempre con
acutezza; sullo sfondo, scorci di un'esperienza autobiografica che si
fa luce, discreta, tra le righe. Un tratto autobiografico
rivendicato. Egli si dice scettico davanti alla definizione di
“autore”, di fronte ai “diritti d'autore” che pure gli danno
di che vivere: C'è un
malinteso, un'impostura da parte mia. Ma non ho voglia di chiarirla.
Si presenta piuttosto come redattore di storie vissute, viste o
sentite e che poi racconta, reinventando parole già dette. Non
sono mie, appartengono alla vita e al vocabolario, io le metto
insieme. Mi spetta il diritto di assemblaggio. Non
è un caso – dice - se i suoi libri sono scritti in prima persona,
la terza, quella che farebbe di lui uno scrittore, sarebbe troppo
distante, straniera. E poi, in definitiva, preferisce considerarsi
lettore piuttosto che scrittore. Non c’è miglior appagamento che
tra le pagine di Dostoevskij.
Erri
De Luca è uomo dalle molte vite. Nessuna però sembra aver mai
rinnegato le precedenti. Militante politico, operaio, muratore,
alpinista, umanitario nell’ex Jugoslavia, ognuna è legata alle
altre, ne è la causa o la conseguenza. Ormai il giovane
rivoluzionario ha assunto la fisionomia e la posa del vecchio saggio,
anche se molto probabilmente rifiuterebbe l’epiteto. I
tempi sono cambiati, sono lontani gli anni della battaglia fisica,
della lotta collettiva per cambiare la società: gli anni Settanta,
non di piombo ma anni
di rame, raccontati in
uno scritto omonimo, anni di connessione
e di comunicazione tra gli esseri umani.
Ma, ci sembra, non ci sono in lui né rimpianti né rimorsi. Una
sconfitta vissuta in prima persona, quando i picchetti davanti alla
Fiat Mirafiori annunciavano l’ultimo
avamposto prima del deserto degli anni Ottanta,
ma non l’abbandono di una riflessione e di una partecipazione che
non si sono mai smentite, fino a confronti recenti con i tribunali.
I
suoi libri sono snelli ma non per questo i testi in essi racchiusi
sono gracili; al contrario, ogni frase, ogni parola pesa, appare
scritta nella pietra, scavata con forza e sottratta a tutto quello
che è accessorio. A volte
emerge come sentenza, aforisma che impregna lo spirito del lettore,
più spesso l'espressione si fa poesia che sembra secca nella
scansione paratattica ma che ha la sua musicalità, quella di una
prosodia che fluisce e scorre.
Nell’ultimo
testo pubblicato “Il giro dell’oca”, questa carica poetica è
ben presente, inonda il racconto e lo impregna, aprendo al lettore
larghi spazi di riflessione ben al di là dell’esplicito.
La
nota autobiografica si fa qui più precisa che in passato, “non un
bilancio ma una ricerca interiore” ci segnala la nota dell’editore.
Il
narratore evoca un figlio mai avuto, lo fa emergere e crescere dal
passato. Come un singolare Geppetto, lo intaglia, gli dà forma e
poi, a poco a poco, la parola. Leggevo
il libro dove un uomo anziano inventa un figlio. È un falegname e se
lo fa di legno. Gli piaceva l’idea di farsi dire babbo. Il
monologo si trasforma in dialogo. Un tenue dialogo con questo figlio
di poche parole. È il momento per raccontare una
vita scivolata, fare
riaffiorare ricordi di infanzia, brandelli di esistenza che sono
diventati momenti forti, che hanno, a poco a poco, riempito il
quotidiano. Ed è anche l’occasione per confrontare le proprie
convinzioni con l’altro, di precisarle: le scelte politiche, l’interesse per le questioni metafisiche di un ateo che legge un
passo della Bibbia ad ogni risveglio e che ha voluto studiare quei
testi sacri nella loro lingua di origine.
E
proprio la lingua infine, è elemento centrale per Erri De Luca, che
pensa, parla e scrive tra Napoli e L’Europa e a cui il suo figlio
interlocutore immaginario rimprovera di passare dalla
mistica del vocabolario a quella della geografia.
Egli che ribadisce più volte il ruolo della lingua materna, il
Napoletano, con coi spera di dire addio al mondo, risponde con una
frase scovata tra Dante e Proust: se fossi costretto all’esilio –
dice - , non sarei
esule, perché porto con me la lingua italiana che mi fa abitare
ovunque.
Erri
De Luca, Il giro
dell’oca Feltrinelli
2018
Iscriviti a:
Post (Atom)