venerdì 15 marzo 2019
Erri De Luca, Il giro dell'oca
Ho un corpo e sono stato al
gioco di viverci dentro. Che gioco? Il gioco dell’oca. Si tira un
dado e ci si sposta in un circuito a spirale.
Erri
De Luca centellina i suoi libri, anno dopo anno. Sono spesso esili
volumi, non per questo meno profondi. Storie di personaggi che hanno
vissuto e che osservano il mondo un po’ discosti ma sempre con
acutezza; sullo sfondo, scorci di un'esperienza autobiografica che si
fa luce, discreta, tra le righe. Un tratto autobiografico
rivendicato. Egli si dice scettico davanti alla definizione di
“autore”, di fronte ai “diritti d'autore” che pure gli danno
di che vivere: C'è un
malinteso, un'impostura da parte mia. Ma non ho voglia di chiarirla.
Si presenta piuttosto come redattore di storie vissute, viste o
sentite e che poi racconta, reinventando parole già dette. Non
sono mie, appartengono alla vita e al vocabolario, io le metto
insieme. Mi spetta il diritto di assemblaggio. Non
è un caso – dice - se i suoi libri sono scritti in prima persona,
la terza, quella che farebbe di lui uno scrittore, sarebbe troppo
distante, straniera. E poi, in definitiva, preferisce considerarsi
lettore piuttosto che scrittore. Non c’è miglior appagamento che
tra le pagine di Dostoevskij.
Erri
De Luca è uomo dalle molte vite. Nessuna però sembra aver mai
rinnegato le precedenti. Militante politico, operaio, muratore,
alpinista, umanitario nell’ex Jugoslavia, ognuna è legata alle
altre, ne è la causa o la conseguenza. Ormai il giovane
rivoluzionario ha assunto la fisionomia e la posa del vecchio saggio,
anche se molto probabilmente rifiuterebbe l’epiteto. I
tempi sono cambiati, sono lontani gli anni della battaglia fisica,
della lotta collettiva per cambiare la società: gli anni Settanta,
non di piombo ma anni
di rame, raccontati in
uno scritto omonimo, anni di connessione
e di comunicazione tra gli esseri umani.
Ma, ci sembra, non ci sono in lui né rimpianti né rimorsi. Una
sconfitta vissuta in prima persona, quando i picchetti davanti alla
Fiat Mirafiori annunciavano l’ultimo
avamposto prima del deserto degli anni Ottanta,
ma non l’abbandono di una riflessione e di una partecipazione che
non si sono mai smentite, fino a confronti recenti con i tribunali.
I
suoi libri sono snelli ma non per questo i testi in essi racchiusi
sono gracili; al contrario, ogni frase, ogni parola pesa, appare
scritta nella pietra, scavata con forza e sottratta a tutto quello
che è accessorio. A volte
emerge come sentenza, aforisma che impregna lo spirito del lettore,
più spesso l'espressione si fa poesia che sembra secca nella
scansione paratattica ma che ha la sua musicalità, quella di una
prosodia che fluisce e scorre.
Nell’ultimo
testo pubblicato “Il giro dell’oca”, questa carica poetica è
ben presente, inonda il racconto e lo impregna, aprendo al lettore
larghi spazi di riflessione ben al di là dell’esplicito.
La
nota autobiografica si fa qui più precisa che in passato, “non un
bilancio ma una ricerca interiore” ci segnala la nota dell’editore.
Il
narratore evoca un figlio mai avuto, lo fa emergere e crescere dal
passato. Come un singolare Geppetto, lo intaglia, gli dà forma e
poi, a poco a poco, la parola. Leggevo
il libro dove un uomo anziano inventa un figlio. È un falegname e se
lo fa di legno. Gli piaceva l’idea di farsi dire babbo. Il
monologo si trasforma in dialogo. Un tenue dialogo con questo figlio
di poche parole. È il momento per raccontare una
vita scivolata, fare
riaffiorare ricordi di infanzia, brandelli di esistenza che sono
diventati momenti forti, che hanno, a poco a poco, riempito il
quotidiano. Ed è anche l’occasione per confrontare le proprie
convinzioni con l’altro, di precisarle: le scelte politiche, l’interesse per le questioni metafisiche di un ateo che legge un
passo della Bibbia ad ogni risveglio e che ha voluto studiare quei
testi sacri nella loro lingua di origine.
E
proprio la lingua infine, è elemento centrale per Erri De Luca, che
pensa, parla e scrive tra Napoli e L’Europa e a cui il suo figlio
interlocutore immaginario rimprovera di passare dalla
mistica del vocabolario a quella della geografia.
Egli che ribadisce più volte il ruolo della lingua materna, il
Napoletano, con coi spera di dire addio al mondo, risponde con una
frase scovata tra Dante e Proust: se fossi costretto all’esilio –
dice - , non sarei
esule, perché porto con me la lingua italiana che mi fa abitare
ovunque.
Erri
De Luca, Il giro
dell’oca Feltrinelli
2018
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