La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



martedì 27 settembre 2022

La roccia di Solutré, Francia

 

Appare improvvisamente come un imponente prua che si alzi tra le colline sottostanti. La roccia di Solutré non passa inosservata per chi percorre queste vie del sud della Borgogna.
Siamo a pochi chilometri dalla cittadina di Mâcon, quasi al confine con la regione del Rodano. Tra prati e vigne arriviamo a Solutré-Puilly, un paesino famoso per il suo rinomato vino bianco e, appunto, per la sua “roccia”. A rendere ancora più celebre il sito fu il “pellegrinaggio”, del tutto laico, che François Mitterrand vi effettuò ogni anno, dal 1946 al 1995, in un primo tempo a Pasqua, poi il giorno della Pentecoste.

Solutré è conosciuta già dall’antichità e, a detta degli studiosi, si tratta di un fenomeno geologico molto raro. Quando nell’era Terziaria la deriva dei continenti provocò il sollevamento delle Alpi e la formazione della valle del Rodano, per contraccolpo si sollevarono dei pianori come quello che formò Solutré.
Abitato già più di 50000 anni fa questo luogo fu uno dei centri della cultura paleolitica “Solutreana” appunto, che si sviluppò 20000 anni fa tra la Spagna e il sud della Francia.

Oggi è un luogo molto turistico e quindi spesso abbastanza frequentato ma non per questo meno sorprendente e piacevole.

Si sale per una comoda via, ben segnata e curata che gira attorno alla falesia e permette di arrivare in cima dal lato meno ripido. La passeggiata si snoda tra cespugli di ginestre e prati. Il panorama è molto ameno, man mano che si sale si apre sulla valle sottostante e sul paese di Pouilly.
La cima, a 493 metri è un lastricato di rocce levigate. In basso i filari delle vigne disegnano il paesaggio, e hanno da tempo sostituito le altre culture che a loro volta avevano preso il posto della foresta che copriva questi luoghi. Nei punti più elevati, qualche boschetto anima ancora la campagna. Ad est lo sguardo spazia verso la valle della Saona, lontanissime, tra la foschia, sono le Alpi e il monte Bianco.

Scesi a valle, un cartello ci invita verso un piacevole punto di ristoro dove un bicchiere del famoso vino di Puilly fuissé completa nel modo dovuto la visita.

martedì 13 settembre 2022

Beaujolais, Francia

Per molti la parola Beaujolais evoca immediatamente un vino novello che, a partire dalla mezzanotte del terzo venerdì di novembre, viene versato a fiumi nei calici del mondo intero. Con grandi campagne pubblicitarie, il vinello, spesso di infima qualità, (e di cui si vanta spesso un famigerato gusto di banana) imperversa nei bar francesi ma è richiestissimo anche agli antipodi, dal Giappone all’Australia ed è sicuramente responsabile di epiche emicranie.

In effetti però, il territorio che dà il nome alla bevanda (siamo a nord ovest di Lione), produce anche vino di ottima qualità. Alle due denominazioni più generiche: Beaujolais e Beaujolais-village, meno quotate ma a volte altrettanto gustose, si aggiungono dieci crus che hanno la particolarità di non riportare sull’etichetta la denominazione “Beaujolais” appunto. Sono differenti secondo le zone, più fruttati o più robusti, secondo la composizione del suolo: Brouilly, Côte-de-Brouilly, Chénas, Chiroubles, Fleurie, Juliénas, Moulint à vent, Morgon, Régnié, Saint-Amour.

Siamo quindi tra le vigne di questo territorio che deve il suo nome a Beaujeu, oggi un paese di circa 2000 abitanti ma che fu in passato la capitale di una baronia del regno di Francia. Una regione storica che si affaccia sulla riva destra della Saona e che amministrativamente è compresa quasi interamente nel dipartimento del Rodano. Allontanandosi dal fiume, la regione è prevalentemente collinare e si è soliti suddividerla in due zone differenti: il Beaujolais “rosso”, dove si produce il vino e che è quindi coltivato a vigne, e il Beaujolais “verde”, un po’ più in alto, coperto di pascoli e di boschi.

Vauxrenard et un piccolo comune rurale, non supera i trecento abitanti. Il nucleo abitato è adagiato sul fianco di una collina che forma un anfiteatro affacciato sulla valle sottostante dove scorre un piccolo ruscello La Mauvaise (la cattiva), pare infatti che in caso di forti piogge possa diventare strabordante e pericoloso. Il borgo è raggruppato attorno alla sua chiesa il cui campanile fa brillare al sole le sue tegole colorate. Il paesino sembra deserto, non ci sono negozi e nelle vie gli incontri sono molto rari.

La casa del viticultore che ci accoglie si trova sul fondo della valle, vicino al ruscello. Il nostro ospite, appassionato dalla sua attività, ci fa visitare le vigne (produce Fleurie e Julienas) e che ci spiega il suo lavoro. Sono piante sorprendentemente piccole, non più alte di quaranta centimetri, ognuna non produce che pochi grappoli che, almeno nelle parcelle più vecchie, devono essere raccolti a mano.

Facciamo una lunga passeggiata tra vigne e boschetti. Le stradine sono asfaltate ma incontriamo solo due automobili. Solo il canto degli uccelli e lo scrosciare dell’acqua del ruscello rompono il silenzio.

 


mercoledì 7 settembre 2022

Savino Monterisi, Infinito restare.

Le nuvole che per tutto il giorno hanno coperto e scoperto i crinali esausti della montagna sono un segno inequivocabile. La pioggia è scesa incessante. I campi appena arati e messi a riposo sono un pantano. Solo i cani che porto a scorrazzare lungo il fiume hanno il coraggio di addentrarcisi, salvo per venirne fuori sudici come due spugne. L’autunno è la nostra stagione. È il tempo di chi resta quando, dopo la sbornia estiva, si fanno i conti di chi non è partito, di chi avrà a che fare con le asperità della vita al margine: scarsi servizi, poche persone, freddo intenso – quest’ultimo non necessariamente un male.* Quella che descrive così lievemente Savino Monterisi nel suo ultimo libro Infinito restare è la realtà di un paesino dell’Abruzzo ai piedi del monte Morrone nella valle Peligna ma è una realtà condivisa da molti altri luoghi e non solo di questa regione. Quando improvvisamente, le piazzette e le vie che si erano per qualche settimana rianimate, ritornano ai loro silenzi e quando anche le giornate di sole si fanno più rare. Monterisi è uno di quelli, ancora pochi, che ha deciso di restare, malgrado tutto e non per un sacrificio personale ma perché, in definitiva, tra i pro e i contro, sono i primi, almeno per adesso, a prevalere. È un libro che ispira letture diverse, tutte stimolanti e ricche di spunti. Monterisi prosegue il discorso che aveva cominciato nel suo precedente Cronache della restanza, pubblicato nel 2020. Ci racconta il suo legame con la terra natale, la volontà di rinsaldare e di rinnovare questo rapporto fatto di affetti e di relazioni con le persone e i luoghi e irrorato dalla necessità di fare qualcosa, di contribuire ad un futuro possibile per il quale valga la pena di impegnarsi. E queste riflessioni l’autore le fa accompagnandoci tra paesini e montagne, alla scoperta di luoghi affascinanti, tra storia e natura, popolati da personaggi vivi e accattivanti. Poi c’è il racconto vero e proprio, la narrazione che si arricchisce nel ricordo delle tradizioni e nell’autobiografia. Monterisi, che è giornalista ma anche guida ambientale, ha deciso di tornare a vivere in questa regione spopolata dall’emigrazione e ha voluto incontrare quelli che hanno fatto la sua stessa scelta, una scelta che, a parole, ispira simpatia e ammirazione ma che poi deve fare i conti con gli ostacoli e le difficoltà quotidiane che possono minare anche le volontà più risolute. Apparentemente qualcosa sembra muoversi anche tra i paesi dell’entroterra abruzzese, ancora sconosciuti ai più e che hanno cominciato ad accogliere un numero di turisti più alto e magari imprevisto. In questi ultimissimi anni, anche a causa della particolare situazione che abbiamo conosciuto, il tema del “ritorno verso la campagna o la montagna”, verso “i borghi”, ha suscitato un interesse mediatico inconsueto. Paradossalmente, l’Abruzzo ha approfittato delle conseguenze della pandemia per uscire allo scoperto, per farsi conoscere come meta per viaggiatori alla ricerca di Natura e di “autenticità”. Soprattutto nell’estate del 2021 e soprattutto i paesi dell’entroterra montano hanno accolto visitatori provenienti da altre regioni che spesso scoprivano questa parte di Appennino. Savino Monterisi pour non negando l’interesse di questa novità, si interroga – giustamente – sulle prospettive di uno sviluppo turistico che potrebbe, come è già accaduto altrove, sconvolgere irrimediabilmente un ecosistema così fragile e delicato. Questa sembrerebbe infatti per la regione una nuova partenza, a prima vista meno aggressiva dopo un primo, limitato e poi fallito tentativo di sviluppo industriale. Forse non a caso il libro si apre con un’escursione verso un eremo “introvabile” (ma infine trovato) che domina il sito di “Bussi Officine” ormai tristemente famoso per le sue scorie chimiche clandestine ma anche, ricorda l’autore, per le esemplari lotte operaie. Ma ora i pericoli sono altri: sono le montagne aggredite da impianti sciistici che snaturano l’ambiente e si appropriano di risorse idriche preziose; sono i paesi, luoghi di vita costituiti anche da persone e dalle loro storie che si trasformano in “borghi”, musei immobili di un tempo passato, luoghi fatti di seconde case vuote la maggior parte dell’anno. Il borgo è un paese che non ce l’ha fatta* dice Monterisi con un’efficace formula. Il libro di Savino Monterisi non è però solo una riflessione sul futuro dell’Abruzzo. È anche uno scritto molto personale e intimo. Un interrogarsi sulle proprie scelte e un dialogo con “i vicini”, lo siano essi materialmente o idealmente, con chi come lui, vive giorno dopo giorno in luoghi certamente in disparte rispetto ai “flussi” più importanti della modernità. Ed è un omaggio alla natura di questa regione, rude e affascinante, alle sue montagne, ai boschi, al vento e alla neve che rende eterno il silenzio. Con accenti pavesiani l'autore ci spiega il suo proposito: Infinito restare s’insinua dunque nello spazio vissuto ed è soprattutto un viaggio. Un viaggio dentro e fuori sé stessi. Un viaggio alla scoperta del non conosciuto a portata di mano. Restare non vuol dire stare fermi, ma trovare un approdo, poterci contare, farci base, creare comunità. Un punto di partenza dal quale esplorare il quotidiano e i suoi contorni, il vissuto e l’immaginato. Spingersi oltre il crinale delle montagne perché non c’è ritorno senza partenza. La partenza come inizio, il viaggio sempre verso casa, dalla quale si parte e si torna. In viaggio per conoscere a fondo sé stessi, la propria geografia, scoprirne i limiti e le virtù.

*Savino Monterisi, Infinito restare. Radici edizioni 2022