Scienziato, ittologo, naturalista, archeologo, filosofo, esploratore e soprattutto grande camminatore, Théodore Monod ha attraversato il ventesimo secolo a piedi, coniugando ricerca scientifica e ricerca filosofica. Sempre pronto a difendere i princìpi in cui credeva.
Il viaggiatore delle dune è forse il più conosciuto dei moltissimi libri che Monod ha scritto.
Méharées è il titolo originale. La parola è derivata da méhari che, nei paesi arabi, sta ad indicare un dromedario da corsa. È quindi un po' il corrispondente di cavalcata ma per un cammello; impossibile da tradurre in italiano.
Nel libro Monod racconta, con leggerezza e autoironia, la sua prima esperienza nel Sahara, le tappe, gli incontri, le scoperte, di un viaggio che poi è durato tutta una -lunga- vita.
Nato nel 1902 e morto nel 2000, non ha praticamente mai smesso di percorrere il deserto africano, a dorso di dromedario ma spesso a piedi anzi, volendo sempre camminare il più possibile, per chilometri e chilometri. Almeno due o tre ore di marcia, spesso molte di più. Dopo un buon numero di chilometri, cambio di veicolo: in sella.
Figlio e nipote di pastori protestanti, era destinato a seguire gli studi di teologia che lo avrebbero portato sui passi dei suoi predecessori. Ci racconta che furono forse le numerose visite nei giardini del museo di storia naturale di Parigi, dove, bambino, la madre lo portava spesso, a far nascere in lui la passione per le scienze naturali.
E fu così che Monod rinunciò alla teologia per la ricerca scientifica. Era piuttosto il mondo marino ad interessarlo. Ma poi, nell'oceano Atlantico, a largo della Mauritania, dove si trovava, inviato dai suoi professori, è affascinato dalla distesa di sabbia e pietre che confina con quella d'acqua.
La prima impressione è ambivalente: Sinistro paese. Il primo albero- una piccola acacia- è a quarantacinque chilometri da qui. La terra, pulita, scarnificata fino all'osso, polverizzata al soffio dei secoli, è morta. Il vento, che soffia sulle dune coronate da un leggero velo di polvere, canta un ciclo ormai compiuto e il riposo definitivo di un suolo che non conoscerà più la pioggia.
Un attimo di indecisione, tra l'oceano posseduto e quello desiderato poi finalmente l'autorizzazione gli è data: una carovana si dirige verso il Senegal, sarà la sua partenza per un'escursione infinita.
Abbandona l'oceano marino per l'altro.
Emblematico è il verso di Walt Withman che precede il racconto:"Imbarchiamoci anche noi, anima mia! Con gioia, lanciamoci sui mari senza piste!".
Théodore Monod descrive il paesaggio come uno scienziato: geografo, botanico, geologo, ma mai con pedanteria anzi prendendo un po' in giro l'attitudine saccente degli eruditi; racconta un mondo sconosciuto (negli anni trenta ampie regioni erano ancora inesplorate) e difficile, fatto di tappe interminabili tra punti d'acqua lontanissimi, giornate infuocate e notti di gelo ma lo fa con allegria, a volte quasi con spasso. Il suo è un viaggio nello spazio ma anche nel tempo, alla ricerca dei segni del passato, reperti di popoli scomparsi e di paesaggi preistorici. Cercherà per anni una meteorite alta più di quaranta metri che qualcuno aveva visto dalle parti di Chinguetti, nel Sahara occidentale: Un ufficiale racconta di aver raggiunto, in condizioni romanzesche, in segreto, di notte, accompagnato da un solo individuo (ormai morto purtroppo), il blocco di metallo enorme e misterioso del quale gli indigeni nasconderebbero accuratamente il luogo e anche l'esistenza.
È una vita ridotta all'essenziale, nella quale ogni oggetto deve essere veramente necessario per non diventare un inutile ingombro. E nell'essenziale il viaggiatore ritrova l'essenza della vita; si sbarazza poco a poco delle ultime inutilità consumeriste.
Appena l'oasi, le sue case, la sua vita facile e comoda,- pensate , un letto, del camembert, delle sedie, del pane!- saranno scomparse all'orizzonte, ricomincerà la vita selvaggia, elementare, brutale e spoglia quanto si vuole ma, bisogna riconoscerlo, perfettamente salubre.
Sempre «piacevole», no; sana, sì, e piena di insegnamenti per dei «civilizzati» che hanno finito con il confondere l'accessorio e l'essenziale, e con l'ingombrare la loro esistenza con una folla di elementi artificiali, di bisogni fattizi, di inutilità malsane che essi considerano ingenuamente come l'«indispensabile».
Théodore Monod diventa una sorta di asceta, rinuncia a molte cose ma mai alla curiosità per il mondo, all'osservazione scientifica e nemmeno agli interventi pubblici per difendere i principi in cui credeva: antimilitarista ma anche antinucleare, non violento, vegetariano, contro la vivisezione e la corrida. Ogni anno, ricordava con quattro giorni di digiuno le vittime delle bombe nucleari statunitensi su Hiroshima e Nagasaki.
Firma il manifesto per sostenere i 121 insubordinati durante la guerra d'Algeria.
Benché funzionario dello Stato, persisto a torto o a ragione, nel considerarmi come un uomo libero. D'altronde se ho venduto allo Stato una parte della mia attività cerebrale, non gli ho consegnato il cuore, né l'anima... Ed è rendere servizio a Cesare stesso il sapere a volte, guardandolo negli occhi, dirgli di no. Ciò può spingerlo a riflettere perché anche Cesare ha un'anima.
E quando il presidente Mitterrand nel 1988 lo invita alle celebrazioni per la festa nazionale del 14 luglio, Monod risponde così:
Signor Presidente,
La prego di scusarmi ma non potrò assistere al ricevimento del 14 luglio al quale lei mi ha invitato.
Continuo a sperare vivamente che verrà un giorno in cui la festa nazionale non sarà più solo militare e vedrà sfilare anche i tagliaboschi, i ferrovieri, i minatori, i maestri, gli infermieri, e non più solo gli uomini di guerra.
Nell'attesa di questi tempi nuovi in cui, inoltre, il ritornello del nostro inno nazionale non sarà più sanguinario e razzista, le porgo i miei distinti saluti.