lunedì 30 dicembre 2019
Alberto Caeiro, Il guardiano di greggi
Non
ho mai sorvegliato greggi
Ma
è come se lo facessi
Il
mio animo è simile a un pastore,
Conosce
il vento e il sole
E
va, mano nella mano, con le stagioni,
Seguendo
la propria strada, l’occhio aperto.
Tutta
la pace di una Natura spopolata
Accanto
a me viene a sedere.
Ma
sono triste, come un tramonto è triste
Nella
nostra immaginazione,
Quando
il tempo sconfina, al fondo del piano
E
che si sente la notte entrata
Come
una farfalla dalla finestra.
Ma
è appagamento la mia tristezza
Perché
essa è naturale e giusta
Ed
è quello che deve essere nell’animo
Quando
pensa che esiste
E
che delle mani colgono fiori a sua insaputa.
D’un
semplice rumore di campanacci
Al
di là della curva del cammino
I
miei pensieri acquistano gaiezza.
Il
mio solo rimpianto è di saperli contenti
Perché
se non lo sapessi
Invece
di essere contenti e tristi
Sarebbero
gioiosi e contenti.
Pensare
è scomodo come camminare sotto la pioggia
Quando
il vento è più forte e sembra che la pioggia aumenti.
venerdì 13 dicembre 2019
Castel del Monte, ricordo di una nevicata.
Penso
che, per me come per molti, sia impossibile, risalendo con il pensiero verso
gli anni dell’infanzia, d’identificare un momento preciso in cui situare i
primi fatti realmente vissuti e che, avendo resistito alle vicissitudini e alle
peripezie della vita sono ancora oggi presenti nella nostra memoria. Più
andiamo indietro nel tempo, più ci inoltriamo in un’età nella quale
l’esperienza personale – l’evento realmente conosciuto - si amalgama e si
stempera nel racconto udito da altri e che, a poco a poco, abbiamo ricostruito
nella nostra mente fino ad assumerlo come frutto di una testimonianza viva che
ci appartiene.
Così
è della prima casa in cui ho abitato della quale non ho molti ricordi. Anzi,
sicuramente sono ricordi di seconda mano, di storie raccontatemi da altri più
che vissute.
Sono
nato in un giorno di autunno ormai inoltrato e ho passato nel paese d’origine
solo tre inverni. I miei genitori avevano affittato una modesta abitazione in
quello che ancora oggi si chiama “Rione Orientale”. È un nome che mi è sempre
piaciuto; fa pensare ad un mondo lontano e un po’ favoloso ma è anche un po’
incongruente associato com’è alla montagna rude su cui era stato costruito.
Ancora
oggi i luoghi non sono cambiati; si entra nel paese antico passando sotto
l’arco di San Rocco, addossato alla chiesa omonima. La casa è poco lontano,
dopo una stradina che, lasciata la piazzetta scende verso il centro del borgo.
È in cima ad una scalinata esterna che dal basso verso l’alto si allargava
verso due porte, una vicina all’altra. Noi stavamo a sinistra e la porta
accanto era quella di una donna che io ricordo anziana ma che probabilmente non
lo era. I miei genitori si erano installati lì dopo il loro matrimonio ed era
in quella casa che io ero nato.
Mio
padre che fino ad allora si era accontentato di mestieri poco proficui, era
stato costretto, dopo la mia nascita a cercare un lavoro più redditizio e, come
molti altri, era partito per una regione del nord dove a quei tempi le
fabbriche cominciavano ad assumere abbastanza facilmente.
Io
ero restato con mia madre, nell’attesa di una sistemazione meno precaria e di
un ricongiungimento programmato. La vita scorreva tranquillamente, mia madre
aiutava le sua che aveva una piccola attività, faticosa e, anch’essa, poco
redditizia. Quando usciva per andare da lei o per fare qualche commissione mi
lasciava solo e, per evitare che facessi capricci e farmi capire che non dovevo
allontanarmi, mi dava un incarico di grande responsabilità dicendomi di fare la
guardia alla casa e di non fare entrare nessuno. Così quando una volta la
vicina mi chiese di prendere un po’ di brace dalla stufa per accendere il suo
fuoco io, perentorio, le impedii di entrare cosciente dell’incarico ricevuto:
nessuno era nessuno. Naturalmente quando la donna raccontò la storia a mia
madre ci furono commenti ironici nei miei confronti e io, vedendo i sorrisi
complici delle due donne, non ero proprio convinto di potermi ritenermi
orgoglioso per aver rispettato il mio difficile incarico, cosciente di non aver
capito qualcosa che si era tramato alle mie spalle.
Ogni
tanto toccava a me “andare a fare la spesa”. Mia madre mi affidava il
portamonete con qualche spicciolo e io mi recavo in una delle due macellerie
che, vicino alla piazzetta erano una di fronte all’altra. Naturalmente non
sapevo contare e dopo aver chiesto quello che mi era stato detto, davo il
portamonete alla padrona della bottega che prendeva i soldi corrispondenti. Io
ero fiero di questi piccoli-grandi incarichi a tal punto che un giorno,
incontrata nel negozio una zia, non la salutai nemmeno, tutto preso dal mio
dovere. Naturalmente quest’ultima si offese e mia madre dovette poi scusarsi
per il mio comportamento.
Il
secondo inverno passato lassù fu particolarmente nevoso.
Eravamo,
mi pare, verso fine dicembre, la neve era cominciata a scendere silenziosamente
durante la notte e la mattina copriva già ogni cosa. Solo l’impronta di qualche
passo rompeva l’uniformità del manto bianco e lasciava apparire le pietre
arrotondate dell’antico selciato. Uno zio, il fratello di mia madre, era
passato velocemente per assicurarsi che tutto andasse bene e poi era andato
nella sua bottega che era poco lontana. Affacciato alla porta, guardavo
affascinato quel paesaggio bianco per me nuovo ed intrigante. Più tardi il
vento si levò e dovetti rinunciare velocemente a quello spettacolo, richiamato
da mia madre che giustamente voleva preservare il caldo della stufa.
Per
tutta la giornata la bufera continuò impetuosa, la neve si incollava ai vetri
della finestra lasciando la stanza quasi nel buio. Andammo a dormire molto
presto, non erano tempi di televisione e la radio stentava ad arrivare fin
lassù.
Il
mattino seguente la bufera era cessata ma la neve continuava a cadere. Mia
madre, che voleva andare a fare qualche spesa, aprì la porta e si accorse
stupita che la scalinata era quasi completamente coperta, uscire era
impossibile.
La
genitrice non si perse d’animo. Non avevamo molte riserve ma di farina ce n’era
abbastanza. Chembrenne (fare la pasta
a mano) fu dunque la soluzione che le venne facilmente et ovviamente in mente.
Passammo
così due giorni, completamente isolati e senza notizie del mondo esterno. Il
terzo giorno finalmente spuntò il sole. Aprimmo la porta. L’aria era tersa e il
cielo brillava di uno splendido blu, ancora più acceso dal contrasto con lo
spesso manto bianco che copriva ogni cosa. La scalinata era completamente
coperta e la neve arrivava quasi alla soglia della nostra casa. Era impossibile
attraversare quello spazio.
Fu
lo zio a venire da noi. Sentimmo bussare alla porta e lo vedemmo, sorridente e
felice, con ai piedi un paio di sci, con i quali aveva attraversato il paese ed
era arrivato fino all’uscio superando agevolmente e senza sforzo il dislivello
che in tempi normali era il piano inferiore.
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giovedì 5 dicembre 2019
Gran Sasso d'Italia, Sella di Fontefredda
È in Abruzzo che è nata l’idea
di un movimento wilderness italiano che avesse come scopo la
salvaguardia dei “luoghi selvaggi” ancora presenti nella
penisola.
E
probabilmente non è un caso. Forse suo malgrado – la regione è
stata ed è ancora un po’ snobbata dal turismo di massa – gli
spazi naturali sono qui numerosi e vari. Ma già nel lontano passato
questa terra era considerata come uno spazio selvaggio e inesplorato.
Da sempre essa ha accolto monaci ed eremiti provenienti anche da
altre regioni e che hanno trovato tra le sue montagne e le sue valli,
soprattutto quelle della Majella, luoghi impervi e solitari nei quali
insediarsi.
È
anche vero che l’ambiente montano, e questo vale in modo più
generale, rappresenta un luogo emblematico per chi cerca spazi
preservati e, se non inesplorati, almeno incontaminati. Chi va in
montagna lo fa spesso e soprattutto per ritrovare quel contatto
diretto con la natura che altrove manca.
L’Abruzzo
è una regione relativamente piccola ma ricca di aree preservate e
non è un caso se molti film ambientati in tempi o continenti lontani
hanno questo territorio come tela di fondo.
Il
massiccio del Gran Sasso, per le sue caratteristiche geografiche e
geologiche, è da questo punto di vista un luogo significativo e
affascinante. Attorno all’imponente roccia del Corno Grande, spazi
vari e multiformi appagano la vista. La piana di Campo Imperatore,
così
isolata, anche visivamente da ogni centro abitato, può
riecheggiare epopee medievali o le ampie praterie americane. Certo le
dimensioni non sono equivalenti e, anche adottando la definizione di
“Piccolo Tibet” che Fosco Maraini trovò
con successo per questo altipiano, non possiamo dimenticare che poca
cosa sono i venti chilometri di lunghezza del Campo confrontati ai
2500 chilometri dell’altopiano tibetano. Ma, anche se la presenza
di una strada asfaltata abbastanza comodamente percorribile, toglie
al sito una parte del suo carattere “selvaggio”, per il
camminatore che vi si avventura è facile provare impressioni ed
emozioni di piacevole meraviglia. (vedi qui)
Qui lo “spaesamento” è sicuramente il frutto dalla sensazione di dismisura che si apprezza nel momento in cui un punto di riferimento conosciuto appare sproporzionato rispetto alla vastità dell’ambiente circostante. Questa sensazione è poi accentuata dai suoni, sorprendentemente vicini quando, portati dal vento, che contrastano con la lontananza della loro origine.
Qui lo “spaesamento” è sicuramente il frutto dalla sensazione di dismisura che si apprezza nel momento in cui un punto di riferimento conosciuto appare sproporzionato rispetto alla vastità dell’ambiente circostante. Questa sensazione è poi accentuata dai suoni, sorprendentemente vicini quando, portati dal vento, che contrastano con la lontananza della loro origine.
Altre
zone sono meno estese e meno immediatamente evidenti ma forse proprio
per questo altrettanto o forse, più suggestive. Il vallone d’Angora
(o d’Angri) per esempio, con la sua vegetazione rigogliosa e la sua
avifauna specifica. Di accesso non facilissimo, la forra nasconde
scorci seducenti per i quali il termine “selvaggio” non è certo
un luogo comune. (vedi qui)
Anche
le pendici del versante sud del monte Prena attraggono per il loro
carattere proprio. Qui è spazio roccioso ricco di pinnacoli, rocce
in bilico e di altre sculture naturali a costituire un ambiente
dolomitico, lunare. (vedi qui)
Io
vorrei suggerire un luogo meno immediatamente spettacolare, forse
perché meno impervio e nascosto: la sella di Fontefredda. L’ampio
valico erboso si scopre salendo la costa tra i monti Tremoggia e
Siella. Il sentiero che sbuca dalla pineta di Fonte Vetica, si
inerpica velocemente anche con stretti tornanti, per poi allungarsi
verso un ampio pratone,
sul quale spesso domina il vento. Si arriva così
alla sella. Per la maggior parte degli escursionisti questo è solo
un passaggio, tra i due versanti della catena montuosa o, più
sovente, per affrontare la salita verso il monte Camicia. Verso
occidente è il grande panettone del monte Tremoggia dal lungo
crinale spesso punteggiato
da
numerose stelle alpine, verso oriente il meno imponente monte Siella.
Un ampio vallone precede l’arrivo sulla cresta. Qui il vento è più
impetuoso, risale dalla costa adriatica, spazza l’erba e fischia.
Occorre
fermarsi più di un attimo, lasciare correre lo sguardo dall'erba più
vicina fino alle creste e poi più lontano, là dove gli altri
massicci montuosi della regione chiudono la vista. Ed è questo
andare e venire dello sguardo, tra il concentrarsi sull'immediata
vicinanza e il perdersi verso l'azzurra
lontananza
a riempire lo spirito.
Chiunque
abbia viaggiato in luoghi selvaggi avrà provato qualcosa del genere,
una fugace, cocente percezione del disinteresse del mondo. In piccole
dosi entusiasma. Provata per intero annichila. (Robert
Macfarlane)
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