venerdì 13 dicembre 2019
Castel del Monte, ricordo di una nevicata.
Penso
che, per me come per molti, sia impossibile, risalendo con il pensiero verso
gli anni dell’infanzia, d’identificare un momento preciso in cui situare i
primi fatti realmente vissuti e che, avendo resistito alle vicissitudini e alle
peripezie della vita sono ancora oggi presenti nella nostra memoria. Più
andiamo indietro nel tempo, più ci inoltriamo in un’età nella quale
l’esperienza personale – l’evento realmente conosciuto - si amalgama e si
stempera nel racconto udito da altri e che, a poco a poco, abbiamo ricostruito
nella nostra mente fino ad assumerlo come frutto di una testimonianza viva che
ci appartiene.
Così
è della prima casa in cui ho abitato della quale non ho molti ricordi. Anzi,
sicuramente sono ricordi di seconda mano, di storie raccontatemi da altri più
che vissute.
Sono
nato in un giorno di autunno ormai inoltrato e ho passato nel paese d’origine
solo tre inverni. I miei genitori avevano affittato una modesta abitazione in
quello che ancora oggi si chiama “Rione Orientale”. È un nome che mi è sempre
piaciuto; fa pensare ad un mondo lontano e un po’ favoloso ma è anche un po’
incongruente associato com’è alla montagna rude su cui era stato costruito.
Ancora
oggi i luoghi non sono cambiati; si entra nel paese antico passando sotto
l’arco di San Rocco, addossato alla chiesa omonima. La casa è poco lontano,
dopo una stradina che, lasciata la piazzetta scende verso il centro del borgo.
È in cima ad una scalinata esterna che dal basso verso l’alto si allargava
verso due porte, una vicina all’altra. Noi stavamo a sinistra e la porta
accanto era quella di una donna che io ricordo anziana ma che probabilmente non
lo era. I miei genitori si erano installati lì dopo il loro matrimonio ed era
in quella casa che io ero nato.
Mio
padre che fino ad allora si era accontentato di mestieri poco proficui, era
stato costretto, dopo la mia nascita a cercare un lavoro più redditizio e, come
molti altri, era partito per una regione del nord dove a quei tempi le
fabbriche cominciavano ad assumere abbastanza facilmente.
Io
ero restato con mia madre, nell’attesa di una sistemazione meno precaria e di
un ricongiungimento programmato. La vita scorreva tranquillamente, mia madre
aiutava le sua che aveva una piccola attività, faticosa e, anch’essa, poco
redditizia. Quando usciva per andare da lei o per fare qualche commissione mi
lasciava solo e, per evitare che facessi capricci e farmi capire che non dovevo
allontanarmi, mi dava un incarico di grande responsabilità dicendomi di fare la
guardia alla casa e di non fare entrare nessuno. Così quando una volta la
vicina mi chiese di prendere un po’ di brace dalla stufa per accendere il suo
fuoco io, perentorio, le impedii di entrare cosciente dell’incarico ricevuto:
nessuno era nessuno. Naturalmente quando la donna raccontò la storia a mia
madre ci furono commenti ironici nei miei confronti e io, vedendo i sorrisi
complici delle due donne, non ero proprio convinto di potermi ritenermi
orgoglioso per aver rispettato il mio difficile incarico, cosciente di non aver
capito qualcosa che si era tramato alle mie spalle.
Ogni
tanto toccava a me “andare a fare la spesa”. Mia madre mi affidava il
portamonete con qualche spicciolo e io mi recavo in una delle due macellerie
che, vicino alla piazzetta erano una di fronte all’altra. Naturalmente non
sapevo contare e dopo aver chiesto quello che mi era stato detto, davo il
portamonete alla padrona della bottega che prendeva i soldi corrispondenti. Io
ero fiero di questi piccoli-grandi incarichi a tal punto che un giorno,
incontrata nel negozio una zia, non la salutai nemmeno, tutto preso dal mio
dovere. Naturalmente quest’ultima si offese e mia madre dovette poi scusarsi
per il mio comportamento.
Il
secondo inverno passato lassù fu particolarmente nevoso.
Eravamo,
mi pare, verso fine dicembre, la neve era cominciata a scendere silenziosamente
durante la notte e la mattina copriva già ogni cosa. Solo l’impronta di qualche
passo rompeva l’uniformità del manto bianco e lasciava apparire le pietre
arrotondate dell’antico selciato. Uno zio, il fratello di mia madre, era
passato velocemente per assicurarsi che tutto andasse bene e poi era andato
nella sua bottega che era poco lontana. Affacciato alla porta, guardavo
affascinato quel paesaggio bianco per me nuovo ed intrigante. Più tardi il
vento si levò e dovetti rinunciare velocemente a quello spettacolo, richiamato
da mia madre che giustamente voleva preservare il caldo della stufa.
Per
tutta la giornata la bufera continuò impetuosa, la neve si incollava ai vetri
della finestra lasciando la stanza quasi nel buio. Andammo a dormire molto
presto, non erano tempi di televisione e la radio stentava ad arrivare fin
lassù.
Il
mattino seguente la bufera era cessata ma la neve continuava a cadere. Mia
madre, che voleva andare a fare qualche spesa, aprì la porta e si accorse
stupita che la scalinata era quasi completamente coperta, uscire era
impossibile.
La
genitrice non si perse d’animo. Non avevamo molte riserve ma di farina ce n’era
abbastanza. Chembrenne (fare la pasta
a mano) fu dunque la soluzione che le venne facilmente et ovviamente in mente.
Passammo
così due giorni, completamente isolati e senza notizie del mondo esterno. Il
terzo giorno finalmente spuntò il sole. Aprimmo la porta. L’aria era tersa e il
cielo brillava di uno splendido blu, ancora più acceso dal contrasto con lo
spesso manto bianco che copriva ogni cosa. La scalinata era completamente
coperta e la neve arrivava quasi alla soglia della nostra casa. Era impossibile
attraversare quello spazio.
Fu
lo zio a venire da noi. Sentimmo bussare alla porta e lo vedemmo, sorridente e
felice, con ai piedi un paio di sci, con i quali aveva attraversato il paese ed
era arrivato fino all’uscio superando agevolmente e senza sforzo il dislivello
che in tempi normali era il piano inferiore.
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