lunedì 25 gennaio 2016
P.P.Pasolini: Il Vangelo secondo Matteo
È
forse il più bel film di Pasolini, uno dei più bei film in
assoluto.
Il
Vangelo secondo Matteo è un'opera unica; il suo valore va al di là
dell'universo cinematografico. Pier Paolo Pasolini, non era solo
regista ma anche teorico del cinema. Catalogava i film come la
letteratura, dividendoli tra opere di prosa e opere di poesia. Come
in letteratura, il linguaggio cinematografico può, attraverso un
linguaggio specifico alle immagini raccontare o evocare.
I
personaggi entrano, dicono o fanno qualcosa, e poi escono, lasciando
di nuovo il quadro nella sua pura, assoluta significazione di quadro:
cui succede un altro quadro analogo, dove poi i personaggi entrano
ecc. ecc. Sicché il mondo si presenta come regolato da un mito di
pura bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma
adattando se stessi alle regole di quella bellezza, anziché
sconsacrarle con la loro presenza.*
Il
Vangelo secondo Matteo appartiene certamente alla categoria della poesia più intensa e ricca di implicazioni e nello stesso tempo più semplice e umana. Un film unico, proiettato nelle stesse sale che avevano
visto passare i grandi peplum americani con decori e personaggi di
cartapesta e che d'un tratto apparvero artificiali fino al ridicolo.
Pasolini
aveva cercato in Palestina i luoghi della sua storia ma il Medio
Oriente del XX secolo non era più quello di duemila anni prima.
Decise quindi di ritrovare un mondo che, per analogia, potesse
ricreare quello scomparso; lo vide nell'Italia meridionale. E così i
Sassi di Matera diventeranno Gerusalemme e i volti dei paesani lucani
e calabresi, gli umili e offesi, i personaggi della storia
raccontata da Matteo.
Gesù
di Nazareth doveva, nel suo progetto, avere il volto di un poeta e
egli aveva pensato a Evtusenko, Ginsberg o Kerouac. Poi, quasi per
caso conobbe Erique Irazoqui. Il giovane catalano era responsabile di
un sindacato studentesco clandestino e si trovava in Italia alla
ricerca di appoggi per la lotta antifranchista. Incontrò Pasolini
per parlargli della sua causa e si ritrovò a vestire i panni del
Cristo.
«Io
non credo che Gesù sia figlio di Dio, perché non sono un credente,
almeno nella coscienza. Penso invece che la figura di Cristo dovrebbe
avere la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica
radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la
sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso,
conformismo»
Il
Vangelo secondo Matteo è un film di volti e di sguardi, silenzi e
musica. Le frasi, le singole parole si levano da questo sfondo e
emergono con una forza inusuale.
A
più di cinquant'anni dalla sua realizzazione, è un film
indelebilmente attuale.
*P.P.Pasolini: Empirismo
eretico Garzanti 1972
sabato 16 gennaio 2016
Fara San Martino: Vallone di Santo Spirito
Paese
antichissimo, il cui nome ricorda la presenza longobarda nella
regione, Fara San Martino sembra aggrappata alle pendici della
Montagna Madre, imponente e grandiosa.
Fara San Martino in un'incisione di M.C. Esher |
Un'opera
del celebre artista olandese M.C. Esher famoso per le incisioni che
giocano con la logica della prospettiva, e che venne da queste parti
nel 1929, rappresenta il borgo di Fara con la sua montagna.
Il
paese è oggi conosciuto in tutto il mondo per i suoi pastifici. Ma
il luogo merita una visita soprattutto per l'ambiente naturale,
davvero affascinante. E qui infatti che apre il più lungo vallone
della Maiella, quello di Santo Spirito che, con un dislivello di
circa 2300 metri, si sviluppa fino alla cima del Monte Amaro.
La Maiella |
Il
primo tratto, le cosiddette Gole di San Martino, è sicuramente il
più sorprendente; le pareti di roccia sono vicinissime tanto che il
sole non riesce ad arrivare in basso.
Passata
questa porta il paesaggio si allarga ma le pareti verticali si
succedono ancora.
Il borgo di Fara al di là delle falesie |
Dice
una leggenda che fu lo stesso San Martino, ad aprire, a gomitate,
questo varco, per permettere agli abitanti del luogo il passaggio
verso i pascoli e le sorgenti d'acqua sul monte. Le cavità nella
roccia furono proprio causate dai gomiti del benefattore.
Un'altra
leggenda, ancora più antica, racconta che la montagna si separò al
momento della morte di Cristo sulla croce.
Superata
questa “porta” si arriva rapidamente ai resti della la chiesa e
del monastero situati sotto la falesia all'interno del vallone e
riportati alla luce solo da qualche anno.
Il
monastero risale all'XI secolo ma la presenza dei monaci, forse
provenienti dall'abbazia di Montecassino è ancora più antica. Dopo
il declino dell'ordine benedettino che lo aveva costruito e fatto
vivere, il sito fu abbandonato. Sepolto dai detriti alluvionali, è
stato riportato alla luce, una prima volta, alla fine del XIX secolo.
Di nuovo sepolto dalla ghiaia, furono i recentissimi scavi,
cominciati nel 2005 e conclusisi nel 2009 a liberare le mura
dell'antica abbazia.
Purtroppo una bruttissima strada sterrata,
utilizzata in passato per estrarre ghiaia per il porto di Ortona e
poi per liberare il monastero, ha un po' sfigurato il luogo che però
conserva un fascino innegabile.
Ma
sicuramente il monastero di Fara non fu che il più importante tra
gli eremi che costellavano un tempo queste montagne. Qui, come sulle
pendici occidentali e su quelle del Morrone, le numerose grotte,
naturali o scavate dall'uomo, non servivano solo da riparo ai pastori
ma accoglievano decine di anacoreti ritiratisi dal mondo.
In
questo spazio protetto sembra effettivamente di essere fuori dal
mondo degli uomini. Non ci sono ampi panorami ma scorci molto
suggestivi e diversi ad ogni svolta. Organizzata in riserva naturale
all'interno del parco nazionale della Maiella, la zona ha una flora e
una fauna molto varie.
Con un po' di fortuna si potrà magari scorgere un falco pellegrino e, con molta, un'aquila reale.
sabato 9 gennaio 2016
John Fante: Storie di un italoamericano
Nel
1941 quando pubblicò la famosa antologia Americana,
Elio Vittorini fece entrare una folata di aria fresca e
diede uno scossone salutare al panorama culturale italiano, rinchiuso
da un ventennio nello stantio della dittatura e nel provincialismo
retrogrado delle sue vicende letterarie. La
censura fascista bloccò l'edizione e il libro poté uscire l'anno
dopo ma privo di tutte le note dei curatori e
con una prefazione di Emilio Cecchi, letterato ben visto dal regime,
che sembrava sminuirne
il valore. Solo
nel 1968 Americana sarà
ripubblicata
nell'edizione originale.
Hemingway,
Poe, London, Melville, Steinbeck, erano praticamente ignoti in
Italia. La loro scrittura, i loro temi, apparvero come una novità
straordinaria e
fecero scoprire ai lettori un mondo sconosciuto e sorprendente.Il Neorealismo nostrano, che toccò il suo apice nell'immediato dopoguerra, attinse non poco a questo nuovo repertorio letterario.
Tra gli autori pubblicati in quell'ormai mitico libro c'era John Fante, autore, forse più degli altri, completamente sconosciuto in Italia.
Nato a Denver nel 1909 e morto a Los Angeles nel 1983, John Fante è ormai considerato da molti come uno degli scrittori statunitensi più importanti del XX secolo.
Negli anni Trenta del Novecento pubblicò due romanzi che ebbero un notevole successo e che gli diedero, prima di tutto nel suo paese, una fama immediata: Wait Until Spring, Bandini (Aspetta primavera, Bandini) e Ask the Dust (Chiedi alla polvere).
Poi arrivò la guerra, e la malattia (il diabete) e lo scrittore visse una crisi di ispirazione che sarà vinta solo molto tempo dopo, negli anni Settanta, quando pubblicherà The Brotherhood of the Grape (tradotto in italiano prima con il titolo La confraternita del Chianti, in seguito modificato ne La confraternita dell'uva). Fu in quell'occasione che incontrò Charles Bukowski che subito ebbe per lui una stima smisurata.
Fu Bukowski, quando i libri di Fante sembravano ormai sostanzialmente dimenticati anche negli Stati Uniti, a “riscoprirlo” e a riportare alla ribalta i suoi scritti. Bukowski considerava John Fante uno scrittore essenziale e non esitava a definirlo il suo maestro.
Grazie a lui si tornò a parlare delle opere di John Fante, i romanzi precedenti furono ripubblicati e i più recenti letti con più attenzione.
L'universo letterario di Fante è quello dell'ambiente italoamericano che lo scrittore analizza con attenzione, curiosità, partecipazione e ironia.
Il padre di John, Nicola Fante, era nato a Torricella Peligna, in provincia di Chieti, in Abruzzo. La madre era di origine lucana.
Il rapporto con la sua terra di origine e il tratto autobiografico sono gli aspetti essenziali dei suoi scritti.
L'ispirazione dello scrittore si nutre nell'osservazione del microcosmo degli immigrati di prima e di seconda generazione, nelle storie ascoltate che raccontano un'Italia lontana, un mondo sconosciuto arcaico e mitico che John Fante scoprirà direttamente solo nel 1957.
La saga dei Bandini, le peripezie di Nick Molise raccontano le vicende tragicomiche di famiglie di emigrati italiani ma funzionano anche come ritratto sociologico di un mondo tutto sommato poco conosciuto se non attraverso opere abbastanza stereotipate (pensiamo a Mario Puzo).
Figura chiave, archetipo e fonte centrale di ispirazione è, con i suoi pregi e i suoi non pochi difetti, il padre Nicola (Nick) abilissimo muratore, arrivato negli Stati Uniti passando dall'Argentina.
Nei personaggi di Fante c'è evoluzione del rapporto tra i protagonisti di quelle vicende e le due patrie, quella d'origine e quella adottiva.
Di nome faceva Arturo ma avrebbe preferito chiamarsi John. Di cognome faceva Bandini ma lui avrebbe preferito chiamarsi Jones. Suo padre e sua madre erano italiani ma lui avrebbe preferito essere americano. Suo padre faceva il muratore ma lui avrebbe preferito diventare il battitore della squadra di baseball dei Chicago Cubs. Vivevano a Rocklin, Colorado, diecimila abitanti, ma avrebbe preferito vivere a Denver, a cinquanta chilometri di distanza. Aveva la faccia lentigginosa ma avrebbe preferito averla pulita. Frequentava una scuola cattolica ma ne avrebbe preferito una pubblica.¹
C'è il tentativo di integrazione, l'ostilità razzista dei “veri” americani anglosassoni per i quali gli italiani erano tutti wap (termine dispregiativo, forse una deformazione di guappo). C'è poi, nei più giovani – la seconda e la terza generazione – dopo il rigetto della storie paterne, la riscoperta del paese d'origine, riscoperta spesso mitizzata da chi, come John Fante, non vi aveva mai messo piede:
Stava per cambiare la marcia quando una faccia minuta, scura e rugosa, avvolta in uno scialle nero fece capolino dal cancello sul retro. Era nonna Bettina. Per un istante pensai diessere a Torricella Peligna. Vidi il paese dietro di lei, le strade di sassi, le case di pietra che cadevano a pezzi, la chiesa con le vecchie che salivano la gradinata»².
L'Italia di John Fante è un paese misterioso, osservato attraverso lo specchio deformante dei riti e dei costumi di una comunità che tenta di riprodurre i consetudini e le tradizioni lasciate alla partenza. Lo scontro con il nuovo mondo è culturale, religioso, gastronomico. Ma l'italianità, vista all'inizio come un impiccio per chi vuole fondersi rapidamente nel nuovo paese e “diventare americano”, diventa a poco a poco per John Fante ormai definitivamente assimilato, una ricchezza. Soprattutto dopo la morte del padre Nick, la sua scrittura si trasforma, diventa quasi un omaggio a quella prima generazione di emigranti.
¹ John Fante, Aspetta
primavera Bandini
²
J.Fante, Un anno
terribile
http://camminareleggendo.blogspot.fr/2014/04/gualdo-tadino.html
Il suo saggio: John Fante, storie di un italoamericano è stato pubblicato nel 2005.
Oggi a Torricella Peligna Il nome di John Fante fa vivere una associazione che organizza incontri e manifestazioni culturali di grande rilievo per onorare lo scrittore.
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