La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 1 giugno 2019

Castel del Monte

Quando venni a Castel del Monte per la prima volta avevo cinque anni. Abitavamo in un paese del nord dell'Italia dove mio padre lavorava in una fonderia. Era un lavoro duro e faticoso e lui, che non era mai stato molto robusto, era a quell'epoca magro come un chiodo.
Tornava nel suo paese d'origine ogni volta che c'erano le elezioni comunali, per votare ma anche per aiutare i suoi compagni di partito durante la campagna elettorale.
I suoi genitori e i suoi fratelli erano cattolici praticanti e avevano sempre votato per la Democrazia Cristiana; lui era un po' la pecora nera e la sua adesione al Partito Comunista aveva provocato, e continuava a provocare, qualche malumore. Così il ritrovarsi in queste occasioni era sempre, per lui e la sua famiglia, un misto di gioia e di stizza.
Quella volta aveva deciso di portarmi con sé e io scoprivo, con curiosità ma anche con una certa apprensione, luoghi e volti che non conoscevo.
In realtà in quel borgo c'ero nato, in una casa del "rione orientale", nome misterioso che faceva pensare a un mondo di favole. Me ne restava qualche immagine ma sicuramente era il risultato dei racconti dei miei genitori e non dei miei ricordi perché in realtà quando avevamo lasciato il paese non avevo ancora compiuto due anni.
Arrivammo nel pomeriggio, dopo un lungo viaggio in treno di cui non ricordo granché. Solo forse l'immagine del mare, lungo la ferrovia, che scoprii in quell'occasione.
Dopo aver risalito, un po' arrancando, le pendici delle montagne, la corriera ci aveva lasciato sulla piazza, davanti ad una fila di anziani seduti sugli scalini di un bel palazzotto, uno a fianco all'altro, come in attesa di uno spettacolo.
Il cambiamento di temperatura mi aveva colpito, l'aria era fresca e le nuvole basse incupivano la giornata. Ci addentrammo nel paese passando sotto uno delle porte medievali. Si stavano rifacendo le canalizzazioni e le vie erano in cantiere. Fu allora che si sostituirono le antiche pietre arrotondate dell'acciottolato con quelle squadrate e scure di porfido che vediamo ancora oggi.
Nell'antica casa familiare il camino era acceso e scoppiettante e la nonna stava seduta accanto al fuoco. La scarsa luce del pomeriggio grigio entrava con fatica e solo la fiamma dava un po' di colore all'ambiente.
Ero intimidito da persone che in realtà non conoscevo se non attraverso il resoconto delle lettere che arrivavano di tanto in tanto fino a noi lassù nel nord e soprattutto dei pacchi, protetti da una tela cucita fermamente, contenenti salsiccie e formaggio e che segnavano ogni anno l'avvento delle feste natalizie.
Una zia aveva preparato delle farfalline che mangiammo nel loro brodo di gallina - mi si spiegò in quell'occasione che era il piatto ideale per chi aveva viaggiato - e bevvi anche mezzo bicchiere di vino ( all'epoca penso fosse abbastanza normale). Poi mio padre uscì, probabilmente per ritrovare i suoi compagni e io restai con quelle persone quasi sconosciute, esplorando con curiosità quell'antica casa piena di ripostigli e di stanzette adibite a differenti usi: la legnaia, la cantina, la dispensa...
I rari passanti, tutti conosciuti dalla nonna, si affacciavano alla porta per un saluto, il più delle volte declinando l'invito per la tazza di caffé e chiedento informazioni sulla mia presenza.
Passò poi un contadino con un mulo: portava il latte che attingeva in un mastello che la bestia aveva al fianco distribuendolo casa per casa.
La sera scese tranquillamente, a quei tempi la televisione non era ancora arrivata e anche le onde della radio passavano con fatica le spesse mura di quell'abitazione. Andai quindi a dormire, un po' annoiato ma anche speranzoso nelle scoperte che avrei fatto il giorno seguente. Il letto era accogliente e caldo, una zia aveva appena ritirato uno strano attrezzo che avevo preso per una slitta e che serviva per accogliere un bracere messo sotto le coperte. Il fruscio delle foglie di pannocchia che riempivano il saccone sotto il materasso di lana e, più probabilmente, la fatica del viaggio mi conciliarono un sonno quasi immeditato.

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