La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 1 gennaio 2011

Castel del Monte: Porta Sant'Ubaldo

La porta Sant'Ubaldo è una delle cinque che, già in epoca medievale, permettevano l'ingresso nel borgo. Si apre nelle massiccie case mura che servivano a proteggere il paese dagli assalitori. A dire il vero gli abitanti non l'hanno mai chiamata così, qui per tutti è la porta de ru cotte. Chissà perché? Vaghe voci della tradizione parlano di un rogo e di qualcuno che morì bruciato ma nessuno ne sa niente di più preciso e le notizie storiche non ne fanno cenno. Da qualche anno sono state riaperte le due finestelle rotonde che servivano probabilmente per sparare sugli eventuali aggressori. Non è che la minaccia sia tornata, è solo un « recupero storico ».
Questa porta proteggeva il paese dal suo lato più debole, quello settentrionale. E le cronache ricordano il 16 luglio del 1501, quando le truppe aquilane fedeli alla Spagna, comandate da Muzio Colonna e Carlo Baglione, arrivando dalla contrada di Natrella saccheggiarono il paese, che era restato dalla parte francese, distruggendo tra l'altro l'archivio comunale. Da tempo dei battenti non c'è più traccia, sono restati solo i pesanti cardini in pietra. Sono ormai dimenticate le porte in legno pesante che il sagrestano della chiesa matrice aveva il compito di aprire all'alba dopo l'Angelus e di chiudere al tramonto all'Ave Maria. 
Forse per evitare le raffiche di tramotana i due archi di questo sporto sono, l'uno rispetto all'altro, ad angolo retto. Ed in effetti spesso il vento forma un mulinello sullo spiazzo ed è sorprendente la differenza tra la turbolenza esterna e la calma che si trova subito dopo aver passato la porta. Nella bella stagione invece il sole del pomeriggio scalda le pietre fino a tardi ed è un invito a fermarsi. In passato la piazzetta era punto di ritrovo e si sosta, soprattutto per le donne del vicinato che si sedevano sul muretto a chiacchierare, magari facendo a maglia un pedalino; il passaggio favoriva gli incontri e faceva sapere chi entrava e chi usciva. Sul lato opposto, a qualche metro di distanza, al cantone più stretto della prima delle case « nuove », c'era la bottega del calzolaio, sempre affaccendato tra chiodi e colle, pronto anche lui a scambiare quattro chiacchiere con i passanti. Nel minuscolo laboratorio senza finestre, la luce del giorno entrava dalla porta sempre aperta. Lo scarso spazio era occupato da un tavolinetto, con l'artigiano seduto da un lato, mentre sull'altro una sedia impagliata aspettava il cliente o l'amico di passaggio. Il resto della stanzetta era ingombro di attrezzi e di pezzi di cuoio che nel caldo del pomeriggio, profumavano l'aria. Nell'orto vicino, da tempo lasciato all'abbandono, un mandorlo era l'obiettivo dei ragazzini che, alla stagione, coglievano i frutti ancora teneri per mangiarli interi. Re mannigligle non avevano nessun gusto, sembrava di mangiare erba legnosa, ma ai bambini pareva una conquista arrampicarsi su quell'albero, indifferenti ai rimproveri del ciabattino che usciva dalla sua bottega per cercare di farli scendere da quell'equilibrio precario. Solo la pioggia poteva farli desistere e allora si rifugiavano sotto lo sporto dove su una grossa roccia incastrata in un angolo, giocavano con sassolini o carte. Dalla piazzetta si sentivano vicinissimi i rumori della valletta sottostante: i cannavini. Un gallo, l'abbaiare di un cane, un gregge di pecore che scendeva dai colli, la sega del falegname, i bambini che giocavano nel cortile dell'asilo, poi improvviso il clacson della corriera proveniente da L'Aquila che annunciava al paese il suo arrivo.




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