La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 22 gennaio 2011

Michelangelo Frammartino: Le quattro volte

Ecco un film che, nella mente di chi lo guarda, non scompare con il riaccendersi delle luci. Continua a produrre il suo effetto: è ripensato, riassimilato, riassorbito.
Cercare un aggettivo per definirlo pare azzardato; tra tutti poi si impone quello di poetico. Ma questa volta bisognerebbe dissociare il termine dal luogo comune in cui di solito si tende a rinchiuderlo. Qui la poesia c'è veramente, nel senso etimologico della parola, dal greco poièo creazione, invenzione; niente a che vedere con un preteso romanticismo di immagini edulcorate o di narrazione edificante.
È difficile etichettare Le quattro volte. Un'opera che, a prima vista, si situa tra il documentario etnografico e un'inconsueta prova narrativa ma che, in definitiva, sorprende per la sua originalità inclassificabile.
Lo spunto di partenza è in un concetto filosofico di Pitagora: in ogni essere ci sono quattro essenze distinte -minerale, vegetale, animale e umana- che si succedono per completare il ciclo di un'esistenza.
Il film è il tentativo di trasformare in immagini questo concetto, seguendo la vita di quattro protagonisti successivi: il vecchio pastore, il capretto, l'albero, il carbone.
E a questo proposito, qualcuno ha parlato di impronta pitagorica anche della forma filmica, volendo sottolinearne il carattere prearistotelico (estraneo cioè ai concetti di codificazione della drammaturgia classica attribuiti ad Aristotele).
Michelangelo Frammartino filma una Calabria dei nostri giorni, ma in realtà sono pochi, e tutto sommato secondari, gli elementi che permettono di situare la storia in uno spazio cronologico definito. È indubbiamente un mondo arcaico, ma mai ritratto con sufficienza razionalistica, nemmeno nelle sue credenze più primitive. Anzi, la narrazione lascia sempre lo spazio ad una possibile verità dissonante. Un esempio: il vecchio pastore malato si cura con la polvere raccolta in chiesa, (superstizione, siamo spinti a pensare) ma poi la sua morte coincide (casualmente?) con l'interruzione della «cura». Il raziocinio non è quindi che uno dei mezzi che permettono di dar conto dell'esistente.
In definitiva però, più che ancestrale la realtà del film è semplicemente atemporale. E nemmeno la presenza dei pochi oggetti che legano gli avvenimenti al presente (il camioncino, la sega a motore...) riesce ad annullare questa sensazione. L'autore conosce bene i luoghi che filma; la sua famiglia è originaria di quella regione, ma egli vive a Milano e questa lontananza-opposizione lo ha forse aiutato ad ottenere una sensazione evidente di straniamento.
Il film, in quattro parti, segue dunque i quattro momenti del ciclo vitale della Natura. È la storia di un soffio vitale, uno spirito invisibile che passa attraverso quattro involucri prima di riacquistare l'aspetto che per i pitagorici ha l'anima: quello di polvere.
Per raccontare questo flusso esistenziale Michelangelo Frammartino attua scelte stilistiche che sono sì radicali ma prive di ogni inutile estetismo. Al contrario, esse sono sempre giustificate e al servizio di un'idea ben precisa.
Il risultato è sorprendente.

In cosa consiste dunque la poesia di Le quattro volte? È possibile fissare i termini di un linguaggio cinematografico capaci di dare all'aggettivo poetico tutto il suo senso?
È una questione che Pasolini si era già posto in un saggio del 1965. Il cinema è una forma di espressione artistica molto più recente rispetto alla letteratura e non si costruisce come quest'ultima su una base possesso comune di tutti i parlanti, non ha cioè il carattere naturale, disponibile a tutti, della lingua.
È possibile in un film, si chiede Pasolini, definire un linguaggio poetico in contapposizione -o piuttosto a fianco- di un linguaggio prosaico come si fa per un testo letterario? In effetti quello che differenzia, in uno scritto, la poesia dalla prosa non è (solo) la forma stilistica e di impaginazione ma anche il lessico e la sintassi in una discriminante che è quasi sempre chiarissima. Pasolini è poeta e uomo di cinema, conosce e pratica i due linguaggi, può verificare personalmente le sue ipotesi.
Il suo saggio suggerisce qualche idea utile per spiegare l'efficacia di alcune delle scelte stilistiche che Michelangelo Frammartino mette in opera ne Le quattro volte.
La cinepresa, per esempio, è quasi sempre fissa.
Frammartino spiega che per lui la macchina da presa fissa è soprattutto segno di un atteggiamento morale: lo spettatore ha una possibilità di scelta su quello che osserva, non è l'obiettivo ad imporglierlo. Perchè l'immagine serve non tanto per quello che dice ma per lo spazio che lascia a colui che la guarda, spazio per pensare ciò che è al di là, più importante di quello che è mostrato.
Anche Pasolini aveva analizzato questo procedimento parlando di inquadrature ossessive che, al pari di altri dispositivi stilistici «fanno sentire la macchina da presa» e contribuiscono a trasformare il linguaggio narrativo in linguaggio poetico.
I personaggi entrano nel quadro (inteso proprio come dipinto), compiono un'azione poi ne escono e il quadro riprende il suo aspetto iniziale. Il mondo rappresentato in questo dipinto non è solo tela di fondo per personaggi-protagonisti che agiscono al suo interno ma ha un valore a sé stante, primordiale. Per Pasolini sono i personaggi che adattano se stessi alle regole di quella bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza.
Frammartino usa questa tecnica con una variante: lo stesso quadro riappare identico, in momenti differenti del film, legando così tra di loro le quattro parti e dunque «le quattro essenze vitali». Così è per esempio per l'immagine dai tetti, nella quale appare poi il vecchio pastore che va a vendere il latte. Il pastore e in secondo piano, invece in primo piano è un comignolo. Il vento fa ruotare quest'ultimo e il movimento attira l'attenzione dello spettatore. È un dettaglio che colpisce, lo si assimila, senza sapere però che ruolo attribuirgli. Il senso apparirà nell'ultima scena del film: l'inquadratura è la stessa ma ad entrare nella scena non è più il pastore ma il fumo del carbone che brucia e che esce dal comignolo. Il fumo diventa quindi protagonista dell'azione in un momento chiave della storia: l'anima che ha compiuto le quattro mutazioni ridiventa polvere. E questa immagine ci riporta anche alla polvere che, in una scena precedete, appare in controluce nella chiesa, e che sembra a prima vista non avere altro ruolo che quello di un effetto estetico. A posteriori essa assume un senso narrativo perchè associata al fumo del carbone. E altrove è un segno sonoro a legare due episodi (il carbonaio batte con la pala sulla catasta di legna e lo stesso suono lo si sente quando il vecchio pastore porta le capre al pascolo).
Le quattro storie delle quattro vite si succedono quindi concatenandosi, non solo nel racconto ma anche nella sintassi scenaristica.
Quella umana perde la sua superiorità rispetto alle altre. La macchina da presa non segue lo schema formale classico che vuole l'uomo al centro dell'inquadratura. Il cinema, dice Frammartino, ha costruito la sua grammatica partendo dalla centralità della presenza umana. Anche il sistema delle inquadrature ha come scala di valori la figura umana: primo piano, piano americano... Qui invece il regista adatta il punto di vista ai quattro stati, senza supremazie. Spesso il piano è largo e l'azione si svolge in una zona periferica. L'animale, il minerale e il vegetale hanno diritto alla stessa considerazione dell'umano.
E ciò emerge anche da un'altra scelta significativa: l'assenza di musica e soprattutto di dialogo. Il film non è muto ma le voci sono inintelligibili contribuendo così a un'uniformazione dei valori: la voce dell'uomo non ha un'importanza superiore all'abbaiare del cane o al belare del capretto e nemmeno al rumore del carbone o dell'albero.
La tecnica del linguaggio cinematografico è quindi sfruttata dal regista con intelligenza al servizio del suo progetto.
Ma evidentemente limitarsi all'osservazione di questo aspetto del lavoro significherebbe discorrere di un esercizio, certo di bravura, ma tutto sommato sterile. Il carattere essenziale del film, ciò che fa funzionare il dispositivo è evidentemente nell'idea di partenza e nella capacità che ha Frammartino di condividerla. Perchè il resto sono tutte considerazioni che verranno solo in un secondo tempo, quando si vorrà cercare di spiegare il fascino del film. Durante la proiezione, trasportati verso un tempo mitico, si è attratti dallo scorrere lento delle immagini, dalla loro bellezza non estetizzante, dal loro gioco di corrispondenze e di rimandi. Solo uno spettatore distratto o frettoloso potrà rimanere insensibile.
Qualcuno uscendo dal cinema dice: se si possono fare film così c'è ancora speranza.

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