La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 30 gennaio 2011

Campo Imperatore

È un luogo che è stato, per tempi immemorabili, fonte di ricchezza, grazie agli immensi pascoli che permettono l'allevamento di greggi. Per questo anche ricche famiglie nobili come i Piccolomini o i Medici di Firenze, attivi nel commercio della lana, avevano qui dei possedimenti.
Dalla Costa Zorlana sulle pendici del Bolza, verso il colle del monte Paradiso e le rocce del Monte Prena
Il secolare sistema della transumanza riempiva in estate i prati con decine di migliaia di pecore, pecore che in autunno venivano spostate, lungo i tratturi, fino al più caldo Tavoliere di Puglia.
Il Monte Scindarella mentre le nuvole nascondono il Corno Grande
D'inverno, a causa della neve, Campo Imperatore è ancora oggi spesso inaccessibile, se si esclude la zona più vicina al Corno Grande, raggiungibile dalla funivia che parte da Fonte Cerreto. Ma, per essere precisi, la stazione di arrivo della teleferica, situata sulla sella tra il monte Portella e lo Scindarella è già al di fuori dell'altopiano che si apre più in basso.
Il fiume di ghiaia della Fornaca e il Monte Camicia
Il territorio del Piccolo Tibet d'Abruzzo (la celebre definizione è di Fosco Maraini) appartiene ai comuni del versante meridionale del Gran Sasso, da L'Aquila a Castel del Monte, passando da Barisciano, Santo Stefano, Calascio. Ma anche i paesi che non sono limitrofi Come Carapelle Calvisio o Castelvecchio posseggono qui striscie di territorio che tagliano la piana verso le vette più alte.
La parte orientale di Campo Imperatore dalla sella del Tremoggia. In primo piano la strada di Fonte Vetica
Chiuso a nord da Brancastello, Prena, Camicia e a sud dal Monte di Paganica, dal Monte Cristo e dal Bolza, l'uniformità di Campo Imperatore è interrotta da colli che si staccano arrotondati e da distese ghiaiose che, a primavera, si trasformano in torrenti capaci di scavare profondi canyon.
 Lo sguardo non riesce ad apprezzare correttamente le distanze, mancano i punti di riferimento, ed anche i suoni sono portati dal vento in modo sorprendente. Nella parte più larga il campo, ad un'altezza media di 1800 metri circa, supera i 15 chilometri, mentre la distanza minima tra le creste della catena orientale del Gran Sasso e i limiti meridionali è di circa 5 chilometri.
Le pinete di rimboschimento, sui bordi dell'altipopiano sono gli unici luoghi boscosi. Solo qualche isolatissimo e striminzito alberello resiste nella piana alle durissime condizioni climatiche.
Monte Tremoggia e Monte Camicia con la pineta di rimboschimento
Le tradizione vuole che il nome di Campo Imperatore sia un omaggio a Federico II. In questo senso si trovano altre varianti: Campo dell'Imperatore, Campo Imperiale, Pian d'Emparatore, Compradore...
Verso Monte Guardiola e la Montagnola. La strada per Vado di Sole taglia in diagonale la montagna
 Francesco De Marchi, nella cronaca della sua famosa prima ascensione sul Corno Grande, chiama l'altopiano Campo Radduro:
Poi per levante e ponente vi è una pianura nominata Campo Radduro nella sommità d’altissimi monti, la quale è lunga dodici miglia, e in alcun luoco larga due miglia, et nel più stretto è un miglio e mezo, dove son Fonti d’acque buonissime e laghetti fatti dalla dette Fonti.
Le praterie davanti alle rocce del Prena
 In tra l’altre vi è la Fonte di S.to Stefano, e quella della Massina che ann’acqua assai e buonissima. In questa pianura vi vengano gran quantità di Bestiame à pascolare, massime pecore. Dico che passano sessanta o sett’anta mila pecore che qui vengano à pascolare. Cominciano ad entrare il dì di San Giovanni, e vi stanno per tutto luglio, poi bisogna partire per lo gran Freddo che vi fa. Questa pianura trà altissimi monti fa un bellissimo vedere. Quando i pastori vi sono con gli animali à pascolare par d’esser’uno esercito grossissimo à vedere tante capanne e tante tende, massime la sera quando tutte anno acceso i Fuochi; poi à vedere le mora di pecore, capre, cavalle, vacche, e buovi, dico che è cosa rarissima da vedere si come si puol considerare nel disegno. 

Monte Capo la Serra e Monte Bolza chiudono a sud il Campo
Ma forse, più prosaicamente, il nome è semplicamente una deformazione dal dialettale campo impretato, così detto per la sua conformazione, pieno di pietre, prètə appunto.

sabato 22 gennaio 2011

Michelangelo Frammartino: Le quattro volte

Ecco un film che, nella mente di chi lo guarda, non scompare con il riaccendersi delle luci. Continua a produrre il suo effetto: è ripensato, riassimilato, riassorbito.
Cercare un aggettivo per definirlo pare azzardato; tra tutti poi si impone quello di poetico. Ma questa volta bisognerebbe dissociare il termine dal luogo comune in cui di solito si tende a rinchiuderlo. Qui la poesia c'è veramente, nel senso etimologico della parola, dal greco poièo creazione, invenzione; niente a che vedere con un preteso romanticismo di immagini edulcorate o di narrazione edificante.
È difficile etichettare Le quattro volte. Un'opera che, a prima vista, si situa tra il documentario etnografico e un'inconsueta prova narrativa ma che, in definitiva, sorprende per la sua originalità inclassificabile.
Lo spunto di partenza è in un concetto filosofico di Pitagora: in ogni essere ci sono quattro essenze distinte -minerale, vegetale, animale e umana- che si succedono per completare il ciclo di un'esistenza.
Il film è il tentativo di trasformare in immagini questo concetto, seguendo la vita di quattro protagonisti successivi: il vecchio pastore, il capretto, l'albero, il carbone.
E a questo proposito, qualcuno ha parlato di impronta pitagorica anche della forma filmica, volendo sottolinearne il carattere prearistotelico (estraneo cioè ai concetti di codificazione della drammaturgia classica attribuiti ad Aristotele).
Michelangelo Frammartino filma una Calabria dei nostri giorni, ma in realtà sono pochi, e tutto sommato secondari, gli elementi che permettono di situare la storia in uno spazio cronologico definito. È indubbiamente un mondo arcaico, ma mai ritratto con sufficienza razionalistica, nemmeno nelle sue credenze più primitive. Anzi, la narrazione lascia sempre lo spazio ad una possibile verità dissonante. Un esempio: il vecchio pastore malato si cura con la polvere raccolta in chiesa, (superstizione, siamo spinti a pensare) ma poi la sua morte coincide (casualmente?) con l'interruzione della «cura». Il raziocinio non è quindi che uno dei mezzi che permettono di dar conto dell'esistente.
In definitiva però, più che ancestrale la realtà del film è semplicemente atemporale. E nemmeno la presenza dei pochi oggetti che legano gli avvenimenti al presente (il camioncino, la sega a motore...) riesce ad annullare questa sensazione. L'autore conosce bene i luoghi che filma; la sua famiglia è originaria di quella regione, ma egli vive a Milano e questa lontananza-opposizione lo ha forse aiutato ad ottenere una sensazione evidente di straniamento.
Il film, in quattro parti, segue dunque i quattro momenti del ciclo vitale della Natura. È la storia di un soffio vitale, uno spirito invisibile che passa attraverso quattro involucri prima di riacquistare l'aspetto che per i pitagorici ha l'anima: quello di polvere.
Per raccontare questo flusso esistenziale Michelangelo Frammartino attua scelte stilistiche che sono sì radicali ma prive di ogni inutile estetismo. Al contrario, esse sono sempre giustificate e al servizio di un'idea ben precisa.
Il risultato è sorprendente.

In cosa consiste dunque la poesia di Le quattro volte? È possibile fissare i termini di un linguaggio cinematografico capaci di dare all'aggettivo poetico tutto il suo senso?
È una questione che Pasolini si era già posto in un saggio del 1965. Il cinema è una forma di espressione artistica molto più recente rispetto alla letteratura e non si costruisce come quest'ultima su una base possesso comune di tutti i parlanti, non ha cioè il carattere naturale, disponibile a tutti, della lingua.
È possibile in un film, si chiede Pasolini, definire un linguaggio poetico in contapposizione -o piuttosto a fianco- di un linguaggio prosaico come si fa per un testo letterario? In effetti quello che differenzia, in uno scritto, la poesia dalla prosa non è (solo) la forma stilistica e di impaginazione ma anche il lessico e la sintassi in una discriminante che è quasi sempre chiarissima. Pasolini è poeta e uomo di cinema, conosce e pratica i due linguaggi, può verificare personalmente le sue ipotesi.
Il suo saggio suggerisce qualche idea utile per spiegare l'efficacia di alcune delle scelte stilistiche che Michelangelo Frammartino mette in opera ne Le quattro volte.
La cinepresa, per esempio, è quasi sempre fissa.
Frammartino spiega che per lui la macchina da presa fissa è soprattutto segno di un atteggiamento morale: lo spettatore ha una possibilità di scelta su quello che osserva, non è l'obiettivo ad imporglierlo. Perchè l'immagine serve non tanto per quello che dice ma per lo spazio che lascia a colui che la guarda, spazio per pensare ciò che è al di là, più importante di quello che è mostrato.
Anche Pasolini aveva analizzato questo procedimento parlando di inquadrature ossessive che, al pari di altri dispositivi stilistici «fanno sentire la macchina da presa» e contribuiscono a trasformare il linguaggio narrativo in linguaggio poetico.
I personaggi entrano nel quadro (inteso proprio come dipinto), compiono un'azione poi ne escono e il quadro riprende il suo aspetto iniziale. Il mondo rappresentato in questo dipinto non è solo tela di fondo per personaggi-protagonisti che agiscono al suo interno ma ha un valore a sé stante, primordiale. Per Pasolini sono i personaggi che adattano se stessi alle regole di quella bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza.
Frammartino usa questa tecnica con una variante: lo stesso quadro riappare identico, in momenti differenti del film, legando così tra di loro le quattro parti e dunque «le quattro essenze vitali». Così è per esempio per l'immagine dai tetti, nella quale appare poi il vecchio pastore che va a vendere il latte. Il pastore e in secondo piano, invece in primo piano è un comignolo. Il vento fa ruotare quest'ultimo e il movimento attira l'attenzione dello spettatore. È un dettaglio che colpisce, lo si assimila, senza sapere però che ruolo attribuirgli. Il senso apparirà nell'ultima scena del film: l'inquadratura è la stessa ma ad entrare nella scena non è più il pastore ma il fumo del carbone che brucia e che esce dal comignolo. Il fumo diventa quindi protagonista dell'azione in un momento chiave della storia: l'anima che ha compiuto le quattro mutazioni ridiventa polvere. E questa immagine ci riporta anche alla polvere che, in una scena precedete, appare in controluce nella chiesa, e che sembra a prima vista non avere altro ruolo che quello di un effetto estetico. A posteriori essa assume un senso narrativo perchè associata al fumo del carbone. E altrove è un segno sonoro a legare due episodi (il carbonaio batte con la pala sulla catasta di legna e lo stesso suono lo si sente quando il vecchio pastore porta le capre al pascolo).
Le quattro storie delle quattro vite si succedono quindi concatenandosi, non solo nel racconto ma anche nella sintassi scenaristica.
Quella umana perde la sua superiorità rispetto alle altre. La macchina da presa non segue lo schema formale classico che vuole l'uomo al centro dell'inquadratura. Il cinema, dice Frammartino, ha costruito la sua grammatica partendo dalla centralità della presenza umana. Anche il sistema delle inquadrature ha come scala di valori la figura umana: primo piano, piano americano... Qui invece il regista adatta il punto di vista ai quattro stati, senza supremazie. Spesso il piano è largo e l'azione si svolge in una zona periferica. L'animale, il minerale e il vegetale hanno diritto alla stessa considerazione dell'umano.
E ciò emerge anche da un'altra scelta significativa: l'assenza di musica e soprattutto di dialogo. Il film non è muto ma le voci sono inintelligibili contribuendo così a un'uniformazione dei valori: la voce dell'uomo non ha un'importanza superiore all'abbaiare del cane o al belare del capretto e nemmeno al rumore del carbone o dell'albero.
La tecnica del linguaggio cinematografico è quindi sfruttata dal regista con intelligenza al servizio del suo progetto.
Ma evidentemente limitarsi all'osservazione di questo aspetto del lavoro significherebbe discorrere di un esercizio, certo di bravura, ma tutto sommato sterile. Il carattere essenziale del film, ciò che fa funzionare il dispositivo è evidentemente nell'idea di partenza e nella capacità che ha Frammartino di condividerla. Perchè il resto sono tutte considerazioni che verranno solo in un secondo tempo, quando si vorrà cercare di spiegare il fascino del film. Durante la proiezione, trasportati verso un tempo mitico, si è attratti dallo scorrere lento delle immagini, dalla loro bellezza non estetizzante, dal loro gioco di corrispondenze e di rimandi. Solo uno spettatore distratto o frettoloso potrà rimanere insensibile.
Qualcuno uscendo dal cinema dice: se si possono fare film così c'è ancora speranza.

sabato 15 gennaio 2011

Castel del monte

Poco a poco, questo sorprendente borgo di pietra, arroccato su un colle la cui roccia sembra fare tutt'uno con gli spigoli delle case, si è trasformato in museo. Gli abitanti, malgrado l'affetto e il loro stretto legame a quei sassi,  inesorabilmente hanno dovuto abbandonarlo, partendo, ormai da tempo, nel nord dell'Italia o all'estero per cercare di che vivere.
Il paese si rianima nei mesi estivi o durante le feste di fine anno e resta quasi deserto per il resto del tempo. 
Anche molti dei residenti vivono in realtà a valle o sulla costa e non tornano che per il fine settimana.

Solo qualche famiglia resiste, e qualche pensionato, ancora un anno, ancora un inverno, prima di decidersi per la casa di riposo, il ricovero, che accoglie ormai la maggior parte degli abitanti.
Le case si riempiono nel mese di agosto. Si riaprono porte si salutano i vicini con le frasi di rito: Quando sei tornato? Fino a quando resti?
 Ma anche in queste occasioni la vita collettiva degli abitanti si svolge ormai fuori dal centro storico, nel paese nuovo. Qualche manifestazione culturale occupa ancora, di tanto in tanto, nei mesi estivi, le vecchie stradine e le piazzette ma sono eccezioni. Mercato, negozi, bar, sono tutti nella parte più recente del borgo. E una nuova « zona artigianale » ha allontanato ancora un po' le botteghe.
Negli anni Sessanta hanno chiuso le porte i sartori che spesso più che fare vestiti nuovi rivoltavano i vecchi per clienti dalle magre risorse. Alcuni sono partiti in cerca di fortuna, chi in America chi in Francia, altri hanno terminato la loro carriera e sono andati in pensione senza trovare successori. Hanno chiuso anche i rari negozi per trasferirsi nella parte nuova.
Non passa più Maria la bannetóra, con la sua trombetta di ottone tutta ammaccata. Annunciava gli avvisi del comune ma pure l'arrivo del pescivendolo o dell'orefice di Bussi che teneva una permanenza periodica, ricercato in occasione di battesimi o sposalizi. Maria si fermava ai crocicchi, lanciava tre squilli e declamava nell'italiano più bello. Ma poi una testa spuntava ad una porta o ad una finestra: Mari' Que e ditte? 
E Maria imperturbabile ripeteva in dialetto l'annuncio.

I due ciabattini sono stati gli ultimi a resiste- re nei loro vecchi locali. C'era sempre una scarpa da risuolare o un tacco da sosti- tuire ma non certo sufficienti per un negozio più grande e più nuovo. Poi l'età si è fatta sentire anche per loro e l'antico villaggio ha perso le ultime botteghe.

Oggi due impavidi ristoratori hanno aperto i loro locali nel borgo. Ma la concorrenza è rude e per il viaggiatore distratto è più facile fermarsi sulla strada nuova piuttosto che cercare una tavola accogliente tra sporti e scalinate.

sabato 8 gennaio 2011

Mario Rigoni Stern

 Il 17 giugno 2008 ai funerali di Mario Rigoni Stern, nella chiesetta al centro dell'altopiano di Asiago, c'erano solo una decina di persone. Non perché lo scrittore fosse stato dimenticato ma perché volle morire così com'era vissuto, lontano dai clamori, schivo ai riconoscimenti pubblici e legato fino all'ultimo alle sue montagne.
Rigoni Stern, dice il luogo comune, diventa scrittore per necessità più che per vocazione.
In effetti quando nel 1945 torna sull'altopiano, dopo la disastrosa campagna di Russia e dopo due anni di lager in Germania, ha con sé i fogli che aveva riempito durante la prigionia. Forse era stata anche la scrittura a permettergli di sopravvivere nel campo di concentramento e così, dopo qualche anno, trasforma i suoi appunti in libro. Decide di rendere pubblica la sua esperienza in una cronaca che sia testimonianza storica e omaggio a coloro che non sono tornati. Grazie a Elio Vittorini, sarà pubblicato nel 1953 da Einaudi.
Ma per Rigoni Stern questo libro non è che una parentesi. Il suo lavoro è all'ufficio catastale di Asiago, dove la sua attività di impiegato continuerà fino al 1970.
D'altronde non si può dire che Vittornini lo avesse invogliato a continuare nella scrittura. In effetti era stato per Rigoni critico severo e pare che gli avesse fatto riscrivere più volte il racconto della ritirata di Russia. Si era ancora in epoca neorealista ed i codici letterari erano abbastanza rigidi. L'esigenza espressa era quella di una letteratura che fosse testimonianza carica di valore etico e morale e soprattutto forgiata nella volontà di superare il lirismo troppo sentimentale.
Certo, etica e morale sono al centro della prosa di Rigoni Stern è non è sicuramente questo il limite dello scrittore. Ė però il punto di vista: partecipe, solidale e implicato che lo differenzia dal lasciare parlare i fatti della scuola neorealista.
E forse Vittorini aveva ragione quando diceva che Rigoni Stern non è un vero scrittore perché non è un inventore di storie. In effetti sembra proprio che egli possa scrivere solo su cose viste o conosciute. E poi magari non rispetta nemmeno la tecnica letteraria né i canoni codificati, perché ha studiato solo fino alla terza avviamento.
Eppure Rigoni Stern riprende a scrivere. Il sergente nella neve ha avuto un certo successo e lui ha scoperto (o riscoperto) quel gusto di raccontare, un po' come si faceva un tempo in questi paesi tramandando oralmente racconti del passato. Dopo quasi dieci anni di silenzio pubblica un nuovo libro: Il bosco degli Urogalli, e poi continua, con una certa regolarità, fino agli ultimi anni di vita.
La sua formazione letteraria l'aveva fatta prima di tutto sui libri della piccola biblioteca che il padre gli aveva lasciato. C'erano soprattutto i grandi autori russi: Puškin Tolstoj Gorki, Cechov. Il suo linguaggio si fa ricco e raffinato. A volte non disdegna il termine scientifico che però è sempre usato senza pedanteria. Rigoni Stern si crea uno stile originale, fatto di semplicità e profondità. Ed è forse proprio la sua formazione di autodidatta a permettergli una ricchezza linguistica capace di evitare ogni manierismo.
Ma non può parlare che della sua vita.
Tornerà quindi a raccontare la sua esperienza di soldato come in Quota Albania, o in Ritorno sul Don ma anche a narrare storie di personaggi che sente vicini come Tönle Bintarn in Storia di Tönle, contadino, pastore e contabbandiere vissuto nel Veneto degli inizi del XX secolo e coinvolto suo malgrado nei grandi avvenimenti dell'epoca.
E poi la sua vita sono anche, e sempre di più, le montagne, i boschi, gli animali che lo circondano.
Sull'altipiano di Asiago vive in una casa che ha lui stesso costruito. Attorno, anno dopo anno, raccoglie e pianta alberi di specie diverse che accoglie come persone di famiglia:
Era autunno e un giorno, camminando con moi figlio maggiore, raccolsi il primo albero per portarlo vicino a casa: un pino silvestre alto pochi centimetri che a stento era nato tra i sassi; lo misi a dimora con il medesimo orientamento di dove era venuto alla luce.
Spesso i due temi, guerra e natura, si intrecciano, quando un luogo o una circostanza ricordano fatti dolorosi. Perché queste terre sono ancora oggi segnate dalla guerra: Qui poco lontano, cento metri, ci sono ancora i ruderi dei ripari, dei camminamenti e i segni di infinite esplosioni di Bombe d'ogni calibro[...] Dalla terra appena smossa uscivano pezzi di granate, palle di piombo, cartucce. Anche ossa.
Rigoni Stern sa però ritrovare nel mondo che lo circonda, e malgrado la Storia, un ottimismo nell'uomo ma soprattutto nella natura capace di resistere e di sopravvivere nonostante tutto. Osserva ed esperimenta personalmente una simbiosi necessaria ma fragile e delicata tra gli elementi che costituiscono lo spazio naturale in cui vive. Ne sente e ne fa sentire l'importanza, con uno sguardo che è ancora pieno di speranza e di fiducia. Come quando racconta della passera scopaiola che invece di migrare è restata nei dintorni di casa sua. L'animale è forse malato e vola con difficoltà. Sembra impossibile che non sia già stato mangiato da un gatto o da qualche altro predatore. Poi Rigoni scopre il mistero. Era il suo cane da caccia a proteggerla: tra le zampe e il petto, si teneva al caldo la passera scopaiola che, sorpresa dalla mia apparizione, mi fissava immobile. Poi volò fuori sfiorandomi il viso. Cimbro, cane da caccia selvatico e appassionato come nessun altro, mosse appena la coda come volesse scusarsi per quella debolezza sentimentale.

sabato 1 gennaio 2011

Castel del Monte: Porta Sant'Ubaldo

La porta Sant'Ubaldo è una delle cinque che, già in epoca medievale, permettevano l'ingresso nel borgo. Si apre nelle massiccie case mura che servivano a proteggere il paese dagli assalitori. A dire il vero gli abitanti non l'hanno mai chiamata così, qui per tutti è la porta de ru cotte. Chissà perché? Vaghe voci della tradizione parlano di un rogo e di qualcuno che morì bruciato ma nessuno ne sa niente di più preciso e le notizie storiche non ne fanno cenno. Da qualche anno sono state riaperte le due finestelle rotonde che servivano probabilmente per sparare sugli eventuali aggressori. Non è che la minaccia sia tornata, è solo un « recupero storico ».
Questa porta proteggeva il paese dal suo lato più debole, quello settentrionale. E le cronache ricordano il 16 luglio del 1501, quando le truppe aquilane fedeli alla Spagna, comandate da Muzio Colonna e Carlo Baglione, arrivando dalla contrada di Natrella saccheggiarono il paese, che era restato dalla parte francese, distruggendo tra l'altro l'archivio comunale. Da tempo dei battenti non c'è più traccia, sono restati solo i pesanti cardini in pietra. Sono ormai dimenticate le porte in legno pesante che il sagrestano della chiesa matrice aveva il compito di aprire all'alba dopo l'Angelus e di chiudere al tramonto all'Ave Maria. 
Forse per evitare le raffiche di tramotana i due archi di questo sporto sono, l'uno rispetto all'altro, ad angolo retto. Ed in effetti spesso il vento forma un mulinello sullo spiazzo ed è sorprendente la differenza tra la turbolenza esterna e la calma che si trova subito dopo aver passato la porta. Nella bella stagione invece il sole del pomeriggio scalda le pietre fino a tardi ed è un invito a fermarsi. In passato la piazzetta era punto di ritrovo e si sosta, soprattutto per le donne del vicinato che si sedevano sul muretto a chiacchierare, magari facendo a maglia un pedalino; il passaggio favoriva gli incontri e faceva sapere chi entrava e chi usciva. Sul lato opposto, a qualche metro di distanza, al cantone più stretto della prima delle case « nuove », c'era la bottega del calzolaio, sempre affaccendato tra chiodi e colle, pronto anche lui a scambiare quattro chiacchiere con i passanti. Nel minuscolo laboratorio senza finestre, la luce del giorno entrava dalla porta sempre aperta. Lo scarso spazio era occupato da un tavolinetto, con l'artigiano seduto da un lato, mentre sull'altro una sedia impagliata aspettava il cliente o l'amico di passaggio. Il resto della stanzetta era ingombro di attrezzi e di pezzi di cuoio che nel caldo del pomeriggio, profumavano l'aria. Nell'orto vicino, da tempo lasciato all'abbandono, un mandorlo era l'obiettivo dei ragazzini che, alla stagione, coglievano i frutti ancora teneri per mangiarli interi. Re mannigligle non avevano nessun gusto, sembrava di mangiare erba legnosa, ma ai bambini pareva una conquista arrampicarsi su quell'albero, indifferenti ai rimproveri del ciabattino che usciva dalla sua bottega per cercare di farli scendere da quell'equilibrio precario. Solo la pioggia poteva farli desistere e allora si rifugiavano sotto lo sporto dove su una grossa roccia incastrata in un angolo, giocavano con sassolini o carte. Dalla piazzetta si sentivano vicinissimi i rumori della valletta sottostante: i cannavini. Un gallo, l'abbaiare di un cane, un gregge di pecore che scendeva dai colli, la sega del falegname, i bambini che giocavano nel cortile dell'asilo, poi improvviso il clacson della corriera proveniente da L'Aquila che annunciava al paese il suo arrivo.