La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



giovedì 2 aprile 2015

Nuova letteratura venuta da altrove

Da qualche anno ormai un vento nuovo soffia sulla letteratura italiana. Lo soffiano scrittori venuti da altrove e che hanno scelto, malgrado tutto, di vivere in questo Paese e di scrivere in italiano.
Le nuova produzione è stata catalogata sotto la definizione di Letteratura Migrante ed ha anche una bella rivista on line http://www.el-ghibli.org/. È -dice la presentazione del sito- il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante.
Il termine è però riduttivo, comodo per cercare una nicchia in libreria ma anche un po' restrittivo, giacché rinchiude questa produzione in un concetto di genere. Perché questi sono scrittori diversi tra loro, nello stile e a volte anche nei propositi. Hanno conquistato uno spazio in libreria ma, prima di tutto, per la qualità e l'originalità della loro scrittura. Già, perché in definitiva si tratta di Letteratura, senza se e senza ma, di letteratura italiana.
Già negli anni 1990 erano uscite le prime opere scritte da autori immigrati in Italia. Erano nate nell'urgenza (e questa caratteristica resterà in parte anche nelle opere più recenti). Urgenza di raccontare, di spiegare, di far capire una realtà che era fino ad allora descritta unicamente da chi non la viveva. Fatti drammatici, come l'omicidio di Jarri Maslo, il giovane sudafricano assassinato a Villa Literno nel 1989 erano serviti da scintilla. In questa prima vague il migrante era più testimone che autore, almeno così pensavano gli editori che consideravano necessario affiancare al narratore uno scrittore “professionista”, capace di mediare un scritto troppo rozzo. Fu così che nacquero opere firmate da binomi: ricordiamo tra tutte Io venditori di elefanti di Pap Kouma e Oreste Pivetta, pubblicata nel 1990. Pap Kouma, di origine senegalese è oggi, tra l'altro, direttore della citata rivista El Ghibli.
Tra coloro che decidono di prendere così la parola ci sono dunque dei veri scrittori. Molti hanno fatto il gesto estremo dell'esilio e hanno ottenuto le cittadinanza italiana. Si tratta di un gesto estremo perché predice un non ritorno, un allontanamento definitivo sempre traumatico dal paese natale. E questo gesto, eminentemente politico ma anche ricco di implicazioni personali, ha avuto come motivazione-corollario l'appropriazione di una lingua che non è quella materna. Ciò non vuol dire rompere i ponti con il passato, tantomeno rinnegare la propria storia. Per dirla con le parole del filosofo francese Gilles Deleuze, è seguire une linea di cresta, in equilibrio tra due mondi, senza rinnegare il primo né adottare ciecamente il secondo, creando uno spazio nuovo che non è semplicemente una sintesi dei due.*
Cheikh Tidiane Gaye è di origine senegalese. Scrive romanzi (l'ultimo, pubblicato da Jaca Books nel 2013 è Prendimi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera), è traduttore in Italiano di Léopold Sédar Senghor ed è anch'egli poeta ormai riconosciuto, un poeta impegnato, anche politicamente. Cheikh Tidiane Gaye si definisce figlio oltre che di Senghor anche di Aimé Césaire da cui ha ripreso il concetto di negritudine. Rifiuta la categoria di poeta migrante. Ha scelto l'Italiano per passione, passione per le opere dei grandi autori del passato, a partire da Dante, fino a Leopardi e a Ungaretti. Cheikh Tidiane Gaye ha letto la poesia civile di Pasolini. Ecco come spiega la sua scelta linguistica: Quando partorisco i miei versi, le parole mi vengono in italiano. Mia madre vive in Senegal e spesso mi fa notare che non parlo più bene il wolof, c’è una mescolanza notevole di parole wolof e italiano. Cosa possiamo analizzare partendo da questa costatazione? Mi domando veramente chi sono, chi siamo? Ci stiamo “colonizzando” spontaneamente e/o linguisticamente? Per nulla, credo. A mio parere sono gli effetti dell’interculturalità e della multiculturalità. Ecco la bellezza dell’intercultura, l’unico strumento idoneo per “universalizzare” l’umanità e che permette di poterci arricchire l’un l’altro.
Sotto il titolo Rime abbracciate sono raccolte le sue ultime poesie, pubblicate insieme a quelle della poetessa Maria Gabriella Romani Kouacou, in edizione bilingue (Italiano/Francese) dall'editore L'Harmattan nel 2012.
Tra le voci più interessanti di questa nuova letteratura emerge anche quella di Kossi Kombla-Ebri. Nato nel Togo, dopo aver cominciato i suoi studi in Francia, è arrivato in Italia nel 1974 dove ha studiato medicina laureandosi all'università di Bologna. Attualmente vive e lavora in Lombardia.
Ricca e varia e la sua bibliografia: dal racconto al romanzo. Kombla-Ebri è anche l'inventore di un neologismo imbarazzismi che ha scelto come titolo per una raccolta di piccole storie di fatti quotidiani, che mettono in luce situazioni di razzismo ordinario, volontario o inconsapevole.
Per Kombla-Ebri scrivere in Italiano è un'evidenza. È la lingua delle persone che incontra e con cui parla ed è a loro che si rivolge con i suoi scritti. E da loro che vuole farsi capire. Migrare -spiega Kossi Kombla-Ebri- significa lasciare tre madri: quella corporale, la madre terra e la lingua madre. A differenza del Francese, lingua dei colonizzatori, verso l'Italiano non c'è rancore anche se abbandonare la propria lingua non è mai un passo agevole: ci si installa in una doppia assenza, dal paese natale e dal paese che ci accoglie. Aggiunge Kombla-Ebri, con un'immagine ricca di senso: L'emigrazione è come spostare un'anima da un corpo ad un altro.
Spesso chi sceglie di scrivere in una lingua diversa da quella natale non l'assume però nel suo filone ortodosso, si colloca invece in una dimensione minore della lingua. Non una lingua minore, ma che resta sui bordi, come in atto di resistenza; perché non è macchina di potere ma linea di fuga*. Quando si è al margine -dice Kossi Kombla-Ebri- si ha una visione più aperta del mondo, mentre se si è al centro non si vede ciò che è alle spalle.
La letteratura migrante ha sempre un ruolo costruttivo, quasi taumaturgico. Essa deve vincere la nostalgia, la saudade. Come nel pensiero presocratico dove l'Essere non esiste per sé ma nella sua relazione con gli altri.
Ecco quindi che nel contemporaneo di una società umana che sembra richiudersi, in cui l'altro è sinonimo di pericolo, queste voci sono necessarie, salutari, aprono una finestra sul mondo, permettono di cancellare stereotipi e pregiudizi. Che la lingua italiana, bistrattata tra premier autority e altri tic anglofoni serva da vettore in questo processo è un fatto estremamente positivo.

*Gérard Briche
Cheikh Tidiane Gaye: Vita
La vita è una strada
è una strada che accoglie il sole e la luna
la vita è blu
la vita è bianca
la vita è rossa
la vita ha più di due ali
vola, vola nei cieli blu
grigi
la vita non ha colore.

Essa è una duna di sabbia
che nasconde le nostre scritture
le nostre opere
i nostri sogni
e il nostro respiro.

La vita è una parola
la parola può diventare un’arpa per l’anima
ogni parola può essere una luna

la vita è:
il linguaggio che l’orologio non cont
eggia.

mercoledì 18 marzo 2015

Edgard Lee Masters: Antologia di Spoon River

Ci sono dei libri che non lasciano indifferenti. Nel bene o nel male, colpiscono il lettore, affascinano o irritano, senza mezze misure. È forse il caso dell'Antologia di Spoon River. Per alcuni capolavoro della letteratura americana, la cui poesia è seconda solo a quella di Walt Withman, per altri libro per adolescenti, dallo schema troppo banale e dai temi sempliciotti.

E si discute anche sull'implicito contenuto ideologico dell'opera. Messaggio rivoluzionario che attacca il perbenismo della società borghese oppure sguardo paternalista sulle classi più povere legate ad un destino scritto dal determinismo sociale?
Edgard Lee Masters è l'autore di molti libri: romanzi, drammi teatrali, raccolte di poesie. Oggi però lo scrittore americano è ricordato per una sola opera: L'Antologia di Spoon River.

Nel cimitero di un villaggio immaginario, lungo la riva del fiume Spoon, gli epitaffi sulle tombe raccontano nella sua essenza la vita e le vicissitudini di coloro che furono gli abitanti del paese e che si ritrovano ora, uno accanto all'altro sotto un palmo di terra sulla collina.

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom, e Charley,

il debole di volontà, il forte di braccia e il buffone,

l'ubriacone, l'attaccabrighe?

Tutti, tutti dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,

uno bruciato in miniera,

uno ucciso in una rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Sembra, un pizzico di leggenda serve sempre, che l'idea della poesia funeraria fosse venuta a Masters dalla lettura, nel 1911 dell'Antologia Palatina suggeritagli da William Marion Reedy, direttore di un giornale di Saint Louis a cui Masters collaborava. Tre anni dopo, rievocando, in un incontro con la madre, le persone conosciute in infanzia, quando la famiglia viveva a Lewistown e a Petersburg nell'Illinois, ebbe l'ispirazione per la scrittura dei primi epitaffi, pubblicati dallo stesso Reedy sul suo giornale e firmati da Masters con uno pseudonimo.
Il successo fu immediato e convinse lo scrittore ad ampliare il suo lavoro che uscì poi in volume nel 1915 con 244 epitaffi più l'introduzione: La collina.
Si dice che Masters cogliesse ogni occasione per scrivere i suoi epitaffi e non manca la storiella della poesia composta sul conto del ristorante. Forse questa produzione così rapida fu meno approfondita nei temi e nella forma. È almeno questa la tesi di Cesare Pavese, uno dei primi lettori italiani del poeta americano: […] i confini tra canto e racconto non sono sempre facilmente tracciabili, e più di un'epigrafe appare come un affrettato appunto di romanziere, anziché il tormentato scavo lirico che è in realtà.
L'Antologia è un'assemblea che riunisce tutti i ceti e gli innumerevoli caratteri della piccola società costituitasi nei pressi del fiume Spoon. Dall'operaio al ricco borghese, dal barbone al medico, ognuno racconta la sua vita, ormai finita.
Alcuni versi dell'Antologia sono ormai entrati nel linguaggio corrente. Una filosofia proverbiale un po' docile:

Da giovane le mie ali erano forti e instancabili

ma non conoscevo le montagne.

Da vecchio conoscevo le montagne

ma le mie ali stanche non potevano tener dietro alla visione.

Il genio è saggezza e gioventù.

Ma altri passaggi sono più profondi e ricchi. È, la fine delle speranze, degli affetti e dei rancori. Abbandonati con l'esistenza terrena aspettative ed illusioni, ognuno si esprime con sincerità, senza sotterfugi né secondi fini.
La critica contro una società il cui la legge del profitto sta dominando il mondo lascia trasparire spesso un sentimento di nostalgia per un mondo agreste che sembra destinato a scomparire.Masters ha una profonda capacità di analisi per le azioni e lo spirito umano, il suo mestiere d'origine – era avvocato- non è forse estraneo a quest'abilità.
I personaggi raccontano se stessi, spesso svelano, con un ultimo messaggio, un segreto nascosto per tutta la vita. A volte dialogano con gli altri, si rispondono o danno una versione diversa dello stesso avvenimento. Sono storie spesso violente di soprusi e di sangue. C'è poi chi rifiuta l'epitaffio scritto sul marmo e si scaglia contro chi l'ha scritto.

È il caso di Cassius Hueffer

Sulla mia pietra hanno inciso le parole:

La sua vita fu generosa e gli elementi così commisti

che la natura potrebbe levarsi e dire al mondo intero:

questi fu un uomo.”

Coloro che mi conobbero sorridono

leggendo questa vuota retorica.

Il mio epitaffio doveva essere:

La vita non fu generosa con lui

e gli elementi così commisti

che fece guerra alla vita e ne fu ucciso.”

Da vivo ho dovuto soccombere alle malelingue,

ora che sono morto mi tocca sopportare un epitaffio

scolpito da uno sciocco.

Fernanda Pivano fu la prima a tradurre in italiano l'Antologia di Spoon river che Cesare Pavese le aveva fatto conoscere. Erano ancora gli anni del fascismo e per i giovani italiani queste poesie venivano davvero da un altro mondo.
Erano giovani, dice la Pivano sempre più insofferenti di un'alterazione di valori umani inutilmente travestiti di eroismo e mascherati di magniloquenza. Questi versi diventarono per loro una specie di sintesi di una civiltà che in quel momento rappresentava per molti di loro la possibilità di una vita “libera” almeno nel senso individuale; e offrirono l'esempio di un linguaggio limpido, di un contenuto chiaro e universalmente valido, di un tono e di un'impostazione moderni.

Nel 1971 Fabrizio De André pubblicò un album Non al denaro, non all'amore né al cielo nel quale, assieme a Giuseppe Bentivoglio, rivisitò nove tra le poesie di Edgard Lee Master. Il disco, che ebbe un certo successo, contribuì alla riscoperta del libro che, negli anni Settanta sarà una delle raccolte di poesie più lette in Italia.
 
Edgard Lee Masters: Antologia di Spoon River Rizzoli Traduzione di Alberto Rossatti

sabato 28 febbraio 2015

Herman Melville: Moby Dick tra Pavese e Giono

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa, - non importa esattamente quanti, - avendo poco o punto denaro nella mia borsa e nulla di particolare che mi trattenesse a terra, pensai di andarmene navigando un poco in giro a vedere la parte del mondo coperta dalle acque. È questo un modo che uso per scacciare l'umor nero e per regolare la circolazione. Quando m'accorgo che mi si va formando una piega arcigna intorno alla bocca; quando nel mio animo v'è un umido piovigginoso novembre, quando mi vedo involontariamente sostare davanti ai negozi di casse da morto e mettermi in coda ad ogni funerale in cui mi imbatto, e specialmente quando l'ipocondria prende un tale sopravvento su di me, che io debba ricorrere ad un forte principio morale per impedirmi di scendere deliberatamente in strada per far regolarmente volar via dalla testa della gente il cappello; allora giudico che sia gran tempo di andar per mare quanto più presto possibile. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola.*
È uno degli incipit plus famosi della letteratura. Famoso a giusto titolo, e magnifico, con quella entrata così secca e concisa, in due parole. Un narratore che in realtà non si presenta, non ci dice chi è ma solo come vuole essere chiamato. E il riferimento biblico immediatamente ci trasporta nell'universo del mito e dei simboli: Ismaele, è il figlio illegittimo di Abramo, colui che troverà da solo la forza per sopravvivere nel deserto. Poi, dopo questa stoccata, l'attacco si srotola con il succedersi di onde portate dal ripetersi del quando in anafora. Sembra già di essere in alto mare. Una musicalità straordinaria; difficile dirne qualcosa di originale tanto gli studiosi ne hanno scandagliato la prosa, si corre il rischio, è evidente, di scadere nella banalità del commento.
Moby Dick è un libro mondo, dai molteplici livelli di lettura. Ognuno può scegliere il proprio: romanzo d'avventura, riflessione metafisica, analisi psicologica dell'animo umano… Ma ogni volta il lettore attento, preso nelle vicende del Pequod, si renderà conto che il libro non è solo questo.

Leggete Melville, -ci consiglia Cesare Pavese- che non si vergogna di cominciare Moby Dick, il poema della vita barbara, con otto pagine di citazioni, e di andare innanzi discutendo, citando ancora, facendo il letterato, e vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e più uomo.
Ed in effetti Melville non ha paura di cominciare con una pagina sull'etimologia della parola whale, con una serie di estratti, raccolti da un sostituto sostituto bibliotecario, di sospendere la narrazione per inserire un trattato di cetologia; di intercalare passaggi di scrittura teatrale.
Dice Agostino Lombardo, -che è stato uno dei maggiori studiosi italiani della letteratura anglosassone-, nella sua prefazione all'edizione De Agostini dell'opera: Riesce persino difficile usare il termine romanzo, perché Moby Dyck si carica di elementi di narrativa e tragedia, poema in prosa e oratoria, allegoria dell'uomo alla ricerca di se stresso ed esplorazione del mistero.
Pavese è stato il primo traduttore italiano di Moby Dick. Erano gli anni del fascismo autarchico, interessarsi alla letteratura americana era di per sé un atto rivoluzionario. E negli stessi anni Trenta lo scrittore Jean Giono fa un simile lavoro in francese. Pavese e Giono, entrambi poeti della Collina, le Langhe per il primo, quelle della Provenza per il secondo. I due scrittori sono affascinati dall'epopea della balena bianca, la leggono e traducono nello stesso periodo. E in entrambi il paesaggio collinare diventa metafora dei mari ondeggianti, dei grandi spazi, dei mondi lontani. Giono scriverà anche un libro: “Pour saluer Melville” omaggio empatico allo lo scrittore americano:
La traduzione di Moby Dick di Herman Melville […], cominciata il 16 novembre 1936 è stata terminata il 10 dicembre 1939. Ma ben prima di cominciare questo lavoro, per almeno cinque o sei anni, il libro è stato il mio compagno forestiero. Lo portavo regolarmente con me nei miei giri sulle colline. Così in momenti in cui spesso abbordavo le grandi solitudini, ondulate come il mare ma immobili, bastava che mi sedessi, la schiena contro il tronco di un pino, che tirassi fuori dalla tasca il libro che già sciabordava per sentire gonfiarsi sotto di me e attorno la molteplice vita dei mari. Quante volte, sul mio capo, ho sentito fischiare il cordame, la terra muoversi sotto i miei piedi come le assi di una baleniera, il tronco del pino gemere e ondulare contro la mia schiena come un albero di nave, pesante di vele sventolanti. Alzando gli occhi dalla pagina, mi è sovente sembrato che Moby Dick soffiasse laggiù davanti, al di là della schiuma degli ulivi, nel ribollire delle grandi querce.***
In Pavese la relazione al mare è più complessa. Esso è presente, ma più immaginato che reale, un altrove mitico, al di là dell'ultima collina, dove i treni arrivano nei porti e le navi fanno continuare il viaggio. Perché per lui quello marino è nella realtà un universo se non ostile, desolato, come quello di Brancaleone Calabro dov'era stato in confino: Il mare, già antipatico d'estate, d'inverno poi è innominabile: alla sera tutto giallo di sabbia smossa; al largo, d'un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli altri.** Ed ancora in una lettera ad Augusto Monti: Lei sa come odi il mare; mi piace nuotare però mi serviva molto meglio il Po. Ma a parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odore di pesce.**
Ma quando come in Melville il mare è impeto e tempesta, quando le onde sono come colline, il discorso cambia. La lotta epica del capitano Ahab e del suo equipaggio assume i toni di un mito che sorge dal mondo antico, atemporale e grandioso. Mito che ispira anche il Pavese poeta. In una delle sue poesie più belle: I mari del sud, troviamo una scena che ricorda da vicino la storia della balena bianca.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.


*Herman Melville Moby Dick Traduzione di Renato Ferrari Ed; De Agostini
**Citato da Muriel Gallot Pavese: paese e paesaggio.
***Jean Giono Pour saluer Melville Ed. Gallimard





giovedì 1 gennaio 2015

Antonio Gramsci: Odio il capodanno

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
Avanti!, edizione torinese, 1 gennaio 1916

lunedì 29 dicembre 2014

Francesco Giuliani: Diario della guerra 1915-18

Nel centenario dello scoppio della guerra 1914-1918, anche in Italia, nazione che entrò nel conflitto l'anno seguente, si sono moltiplicate le pubblicazioni e le iniziative per ricordare, in modo più o meno pertinente, quel catastrofico avvenimento.
Sono scomparsi ormai tutti i testimoni della carneficina. L'ultimo reduce italo-francese, Lazzaro Ponticelli è morto nel 2008 alla veneranda età di 110 anni, rifiutando, con un ultimo atto di intelligenza e di coerenza, i funerali solenni (gli stavano preparando un posto al Pantheon) che la Francia voleva attribuirgli: Non è giusto che spettino solo all'ultimo sopravvissuto, facendo un affronto a tutti gli altri che sono morti senza avere gli onori che meritavano. Non si è fatto nulla per loro, anche un piccolo gesto sarebbe stato sufficiente. Così Ponticelli, che, durante la seconda guerra mondiale, aveva partecipato anche alla Resistenza, a dato uno schiaffo morale ai maestri della retorica ufficiale. E, a questo proposito, non è inutile sottolineare, in un'epoca di rigurgiti nazionalisti e di xenofobia dilagante, il fatto che l'ultimo soldato poilu (così erano chiamati i fanti francesi) è stato un immigrato.
Restano quindi, per raccontare il primo conflitto dell'era moderna gli scritti di memorialistica e di letteratura. Tra le iniziative più interessanti, possiamo ricordare la diffusione su Radio3 della lettura di alcuni tra i testi più importanti che hanno come argomento la cosiddetta “Grande guerra”. Un anno sull'altipiano, lucido e spietato resoconto dell'esperienza personale di Emilio Lussu, il magnifico e drammatico racconto La paura di Federico De Roberto, Addio alle armi di Ernest Hemingway, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.
Tutti questi scritti, lontanissimi dalla retorica guerriera, raccontano, pur con stili e approcci differenti, un universo di sofferenza e di desolazione. Denunciano l'incompetenza, l'ottusità e il cinismo di chi considerava la truppa come carne da macello, prendendo decisioni sconsiderate e mortifere, raccontano i barlumi di umanità che, malgrado il contesto, riescono a persistere tra i soldati nelle trincee.
Spesso però, ed è il caso per i titoli citati, il testimone è, se non uno scrittore di professione, un esponente del ceto agiato e colto, ed anche se il testo, come nel caso di Lussu, nasce dall'urgenza di smascherare la retorica della storia ufficiale, lo sguardo sulla moltitudine in gran parte contadina di quel popolo costretto a battersi per ragioni a lui oscure, resta, seppur comprensivo e benevolo, intriso di paternalismo.
È quindi importante ascoltare la voce di chi, pur amante della cultura, non era nato nella classe degli istruiti e che scrivendo aveva ancora i piedi nella terra di poveri campi coltivati con fatica e appoggiava il bastone sull'erba dei pascoli di montagna.
Si tratta di Francesco Giuliani, il poeta pastore abruzzese che, partito per il fronte del Carso nel 1915, tornò definitivamente sulle sue montagne natali solo nel 1919.
Su tre quaderni di scuola Francesco Giuliani ha raccontato la sua esperienza nelle trincee. Si tratta di un diario, del tutto personale, nel quale il primo bisogno imperioso è quello di attenersi al vero, anche a scapito dello stile letterario. Essenziale è raccontare i fatti, le piccole e grandi storie di quell'epopea, ricordare gli uomini conosciuti, coloro capaci di gesti eroici o di bassezze. Perché in un momento così estremo com'è la guerra, la natura umana è messa a nudo, svela ed evidenzia gli artifici e i sotterfugi. Ma, nonostante tutto, anche se il primo scopo è di dire il vero, per Francesco Giuliani la scrittura è un atto importante anche nella forma. La cura con cui teneva i suoi quaderni, la calligrafia precisa e diligente ne sono un sintomo. Colui che diceva di non voler essere un pastoraccio incolto, studiava, anche se da autodidatta, i classici della letteratura. Amava la poesia e quando scriveva pensava ai suoi modelli, soprattutto a Dante che citava con passione; non a caso il testo del suo diario alterna parti in prosa e parti in endecasillabi.
Lo scritto che ne risulta è il racconto delle sue vicissitudini e dei suoi sentimenti ma è anche una riflessione, un esame della condizione umana in un contesto tanto particolare, un'analisi delle responsabilità di chi provocò quella situazione drammatica.


Lasciaste qui la vita innanzi sera
Giovani baldi, coraggiosi e forti,
Per voi io piango in questa notte nera.


Eravate le più belle coorti
Nuove alla pugna e scevre di livore,
Ora qui siete un gran campo di morti.


Voi m'infondete in cor pena e timore
Che forse un giorno vi potrò seguire
Se della pugna ancor dura il furore.


E qui veniste bei fiori a morire
E dato non vi fu il perché sapere
Che si spengano un dì gli sdegni e l'ire.


Fummo menati a trar dei giorni amari
In questo inferno di tormenti e pene
Disperando tornar nei patri lari.


Descritte non fur mai simili scene
Di tante strage e di cotanto orrore
Che non c'è da veder facce serene.


E qui non vive un cor senza timore
Perché è questo della morte il regno
Delle pene tremende e del dolore


Placar non si potrà mai tanto sdegno
Contro chi volle questa guerra immane
Che lascia ovunque delle stragi il segno.


Francesco Giuliani scrive per se stesso ma, forse fin dall'inizio, voleva che la sua storia trovasse altri lettori. Quest'idea si rafforza soprattutto dopo che nel 1961 l'etnologa Annabella Rossi fa conoscere il lavoro del poeta pastore e pubblica alcuni estratti del Diario nella rivista Il Contemporaneo, valutando e suggerendo una pubblicazione integrale dell'opera. Ci fu poi, nel 1992, un'altra parziale pubblicazione nell'antologia di scritti di Giuliani Se ascoltar vi piace, curata da Maurizio Gentile qui ma l'edizione completa del testo dovrà aspettare ancora una decina di anni.

Infatti quest'ultimo progetto vedrà la luce solo nel 2001 grazie al sostanziale contributo della Regione Abruzzo, dell'Amministrazione Comunale di Castel del Monte e dei familiari dell'autore.
L'edizione critica, curata da Paolo Muzi, è completata dalla raccolta di lettere che il pastore aveva inviato dal fronte alla moglie Cesidia. L'epistolario era stato copiato dallo stesso su due altri quaderni, edulcorato dai saluti ai familiari, segno della volontà di farne una componente della sua opera letteraria. Le lettere, scritte evidentemente “a caldo” serviranno più tardi da base, insieme agli appunti presi su un quaderno al fronte, per la stesura del Diario, composto (il periodo preciso è sconosciuto) probabilmente a partire dagli anni Cinquanta. E la lettura delle lettere, parallela a quella del diario permette anche una messa in prospettiva del testo di quest'ultimo, arricchendolo di riflessioni teoriche pertinenti e ben definite, sottolineando la precisa coscienza morale di Francesco Giuliani:
Sono contento che si fanno poche istruzioni, e perché io le credo inutili mi riescono sempre incresciose. Io non sono dotato di spirito guerriero, non amo la vita comoda, ma tranquilla, e per questo non voglio che mi si insegni come si fa ad assalire una trincea e nemmeno a puntare il fucile, quando il bersaglio da colpire è un uomo.
Fino a che vi saranno uomini ambiziosi e da tanto a tener vivo l'odio tra i popoli, ed altri occupati soltanto a creare mezzi di distruzione, l'umanità intera non avrà mai pace*.
Parole che oggi suonano profetiche e di un'attualità cocente.

*Lettera del 20 marzo 1916

giovedì 25 dicembre 2014

Bertold Brecht: Tebe dalle sette porte


Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi. 

Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui? 

Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? 

Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?

Tante vicende.
Tante domande.

martedì 4 novembre 2014

O Gorizia tu sei maledetta

 Riprendo e mi associo al post pubblicato dal blog Vento largo qui :
La più bella e autentica canzone di trincea. Non si conosce l'autore, probabilmente non c'è. Nacque spontaneamente fra i soldati stanchi di un macello insensato. Cantarla in pubblico ancora negli anni '60 comportava la denuncia per vilipendio delle Forze Armate. Oggi, chissà? Questo è il nostro 4 novembre.

O Gorizia tu sei maledetta


La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì

Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir

Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì

Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor

Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
E rovina della gioventù

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.