La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 7 ottobre 2022

Beaujolais, chiese romaniche

 

Risalendo ad ovest verso le colline che affiancano la valle della Saona il Beaujolais diventa “Verde”. I vigneti lasciano il posto ad ampi prati sui quali mandrie di mucche, mai molto numerose, a volte qualche piccolo gregge, pascolano tranquillamente.
I boschi si fanno più frequenti e, sparsi qua e là, i casolari di campagna punteggiano il paesaggio. Attraversiamo dei paesini addormentati, i negozi sono rari e raramente si incontrano pedoni.
Qualche turista passeggia tra le vie altrimenti deserte.

Seguiamo un percorso che ci porta a scoprire le piccole chiese romaniche, numerose da queste parti.
Alcune sono al centro di minuscoli centri abitati che sembrano aggrapparsi attorno ad esse, altre sono più in disparte, un po’ isolate in mezzo ai prati.
Antichissime, semplici ed essenziali, a volte non più grandi di un'umile cappella, le chiese hanno un fascino particolare. Le belle pietre dorate si scaldano al sole e quel calore contrasta con il fresco dell’interno.
Un silenzio austero come l’arredo del luogo. Nella penombre, solo qualche candela accesa è là come un segno di vita. I campanili sono massicci come torrioni, coperti però da un tetto spiovente e spesso decorato da simboli arcaici.
Il nostro viaggio ci porta da Vauxrenard, dove la chiesa è al centro del paesino ad Avenas dove il tempio è un po’ in disparte, tra il borgo e la strada che scende lungo le pendici della collina.
Dopo qualche chilometro eccoci a Ouroux. La chiesa è più grande e, sul campanile, spicca un’emblematica stella di Davide disegnata con tegole dorate.
Il significato di questo simbolo su una chiesa cristiana è tuttora un mistero. Il campanile risale al XII secolo ed è certamente la parte più antica dell’edificio.

A Saint Mamert la chiesa di Sainte Marie Madeleine è molto bella e situata in una suggestiva posizione panoramica. La parte più antica fu costruita tra il 1095 e il 1105. In passato Saint Mamert era un priorato dipendente dal non lontano monastero benedettino di Cluny.
Sul versante opposto della piccola valle, si erge un’altra chiesa romanica: Saint Jean des Arrêts.
Siamo quasi al confine tra la regione del Rodano e quella della Borgogna. Sembra che il nome sia una deformazione di “Laret” vocabolo che indicava una piccola collina.
Qui vicino passa una delle vie che conducono a Santiago di Compostella. La chiesa di Saint Jean des Arrêts è al centro del paesino omonimo.
Diventata troppo piccola per accogliere gli abitanti, fu ingrandita nel 1826 con la costruzione delle due navate laterali.
Risalendo ancora verso nord, arriviamo a Trades.
Qui la chiesa è stata ricostruita verso il 1850. Sempre in stile romanico, l’aspetto è semplice e armonico anche se (forse perché ne conosciamo la storia) suona un po’ falso. Trades è il paese più settentrionale della regione, anch’esso fu una dipendenza cluniacense.
Il nostro “tour” si conclude a Saint Christophe la montagne. È l’ultima chiesetta visitata. La parte più antica risale al X secolo. È situata in una bella posizione ma non altrettanto bella è la facciata. Nel 1830 la chiesa, degradata, fu restaurata e due navate furono aggiunte alla pianta originale.
L’abside, la parte più antica dell’edificio, domina il paese sottostante a cui, stranamente, la chiesa sembra dare le spalle.

 

martedì 27 settembre 2022

La roccia di Solutré, Francia

 

Appare improvvisamente come un imponente prua che si alzi tra le colline sottostanti. La roccia di Solutré non passa inosservata per chi percorre queste vie del sud della Borgogna.
Siamo a pochi chilometri dalla cittadina di Mâcon, quasi al confine con la regione del Rodano. Tra prati e vigne arriviamo a Solutré-Puilly, un paesino famoso per il suo rinomato vino bianco e, appunto, per la sua “roccia”. A rendere ancora più celebre il sito fu il “pellegrinaggio”, del tutto laico, che François Mitterrand vi effettuò ogni anno, dal 1946 al 1995, in un primo tempo a Pasqua, poi il giorno della Pentecoste.

Solutré è conosciuta già dall’antichità e, a detta degli studiosi, si tratta di un fenomeno geologico molto raro. Quando nell’era Terziaria la deriva dei continenti provocò il sollevamento delle Alpi e la formazione della valle del Rodano, per contraccolpo si sollevarono dei pianori come quello che formò Solutré.
Abitato già più di 50000 anni fa questo luogo fu uno dei centri della cultura paleolitica “Solutreana” appunto, che si sviluppò 20000 anni fa tra la Spagna e il sud della Francia.

Oggi è un luogo molto turistico e quindi spesso abbastanza frequentato ma non per questo meno sorprendente e piacevole.

Si sale per una comoda via, ben segnata e curata che gira attorno alla falesia e permette di arrivare in cima dal lato meno ripido. La passeggiata si snoda tra cespugli di ginestre e prati. Il panorama è molto ameno, man mano che si sale si apre sulla valle sottostante e sul paese di Pouilly.
La cima, a 493 metri è un lastricato di rocce levigate. In basso i filari delle vigne disegnano il paesaggio, e hanno da tempo sostituito le altre culture che a loro volta avevano preso il posto della foresta che copriva questi luoghi. Nei punti più elevati, qualche boschetto anima ancora la campagna. Ad est lo sguardo spazia verso la valle della Saona, lontanissime, tra la foschia, sono le Alpi e il monte Bianco.

Scesi a valle, un cartello ci invita verso un piacevole punto di ristoro dove un bicchiere del famoso vino di Puilly fuissé completa nel modo dovuto la visita.

martedì 13 settembre 2022

Beaujolais, Francia

Per molti la parola Beaujolais evoca immediatamente un vino novello che, a partire dalla mezzanotte del terzo venerdì di novembre, viene versato a fiumi nei calici del mondo intero. Con grandi campagne pubblicitarie, il vinello, spesso di infima qualità, (e di cui si vanta spesso un famigerato gusto di banana) imperversa nei bar francesi ma è richiestissimo anche agli antipodi, dal Giappone all’Australia ed è sicuramente responsabile di epiche emicranie.

In effetti però, il territorio che dà il nome alla bevanda (siamo a nord ovest di Lione), produce anche vino di ottima qualità. Alle due denominazioni più generiche: Beaujolais e Beaujolais-village, meno quotate ma a volte altrettanto gustose, si aggiungono dieci crus che hanno la particolarità di non riportare sull’etichetta la denominazione “Beaujolais” appunto. Sono differenti secondo le zone, più fruttati o più robusti, secondo la composizione del suolo: Brouilly, Côte-de-Brouilly, Chénas, Chiroubles, Fleurie, Juliénas, Moulint à vent, Morgon, Régnié, Saint-Amour.

Siamo quindi tra le vigne di questo territorio che deve il suo nome a Beaujeu, oggi un paese di circa 2000 abitanti ma che fu in passato la capitale di una baronia del regno di Francia. Una regione storica che si affaccia sulla riva destra della Saona e che amministrativamente è compresa quasi interamente nel dipartimento del Rodano. Allontanandosi dal fiume, la regione è prevalentemente collinare e si è soliti suddividerla in due zone differenti: il Beaujolais “rosso”, dove si produce il vino e che è quindi coltivato a vigne, e il Beaujolais “verde”, un po’ più in alto, coperto di pascoli e di boschi.

Vauxrenard et un piccolo comune rurale, non supera i trecento abitanti. Il nucleo abitato è adagiato sul fianco di una collina che forma un anfiteatro affacciato sulla valle sottostante dove scorre un piccolo ruscello La Mauvaise (la cattiva), pare infatti che in caso di forti piogge possa diventare strabordante e pericoloso. Il borgo è raggruppato attorno alla sua chiesa il cui campanile fa brillare al sole le sue tegole colorate. Il paesino sembra deserto, non ci sono negozi e nelle vie gli incontri sono molto rari.

La casa del viticultore che ci accoglie si trova sul fondo della valle, vicino al ruscello. Il nostro ospite, appassionato dalla sua attività, ci fa visitare le vigne (produce Fleurie e Julienas) e che ci spiega il suo lavoro. Sono piante sorprendentemente piccole, non più alte di quaranta centimetri, ognuna non produce che pochi grappoli che, almeno nelle parcelle più vecchie, devono essere raccolti a mano.

Facciamo una lunga passeggiata tra vigne e boschetti. Le stradine sono asfaltate ma incontriamo solo due automobili. Solo il canto degli uccelli e lo scrosciare dell’acqua del ruscello rompono il silenzio.

 


mercoledì 7 settembre 2022

Savino Monterisi, Infinito restare.

Le nuvole che per tutto il giorno hanno coperto e scoperto i crinali esausti della montagna sono un segno inequivocabile. La pioggia è scesa incessante. I campi appena arati e messi a riposo sono un pantano. Solo i cani che porto a scorrazzare lungo il fiume hanno il coraggio di addentrarcisi, salvo per venirne fuori sudici come due spugne. L’autunno è la nostra stagione. È il tempo di chi resta quando, dopo la sbornia estiva, si fanno i conti di chi non è partito, di chi avrà a che fare con le asperità della vita al margine: scarsi servizi, poche persone, freddo intenso – quest’ultimo non necessariamente un male.* Quella che descrive così lievemente Savino Monterisi nel suo ultimo libro Infinito restare è la realtà di un paesino dell’Abruzzo ai piedi del monte Morrone nella valle Peligna ma è una realtà condivisa da molti altri luoghi e non solo di questa regione. Quando improvvisamente, le piazzette e le vie che si erano per qualche settimana rianimate, ritornano ai loro silenzi e quando anche le giornate di sole si fanno più rare. Monterisi è uno di quelli, ancora pochi, che ha deciso di restare, malgrado tutto e non per un sacrificio personale ma perché, in definitiva, tra i pro e i contro, sono i primi, almeno per adesso, a prevalere. È un libro che ispira letture diverse, tutte stimolanti e ricche di spunti. Monterisi prosegue il discorso che aveva cominciato nel suo precedente Cronache della restanza, pubblicato nel 2020. Ci racconta il suo legame con la terra natale, la volontà di rinsaldare e di rinnovare questo rapporto fatto di affetti e di relazioni con le persone e i luoghi e irrorato dalla necessità di fare qualcosa, di contribuire ad un futuro possibile per il quale valga la pena di impegnarsi. E queste riflessioni l’autore le fa accompagnandoci tra paesini e montagne, alla scoperta di luoghi affascinanti, tra storia e natura, popolati da personaggi vivi e accattivanti. Poi c’è il racconto vero e proprio, la narrazione che si arricchisce nel ricordo delle tradizioni e nell’autobiografia. Monterisi, che è giornalista ma anche guida ambientale, ha deciso di tornare a vivere in questa regione spopolata dall’emigrazione e ha voluto incontrare quelli che hanno fatto la sua stessa scelta, una scelta che, a parole, ispira simpatia e ammirazione ma che poi deve fare i conti con gli ostacoli e le difficoltà quotidiane che possono minare anche le volontà più risolute. Apparentemente qualcosa sembra muoversi anche tra i paesi dell’entroterra abruzzese, ancora sconosciuti ai più e che hanno cominciato ad accogliere un numero di turisti più alto e magari imprevisto. In questi ultimissimi anni, anche a causa della particolare situazione che abbiamo conosciuto, il tema del “ritorno verso la campagna o la montagna”, verso “i borghi”, ha suscitato un interesse mediatico inconsueto. Paradossalmente, l’Abruzzo ha approfittato delle conseguenze della pandemia per uscire allo scoperto, per farsi conoscere come meta per viaggiatori alla ricerca di Natura e di “autenticità”. Soprattutto nell’estate del 2021 e soprattutto i paesi dell’entroterra montano hanno accolto visitatori provenienti da altre regioni che spesso scoprivano questa parte di Appennino. Savino Monterisi pour non negando l’interesse di questa novità, si interroga – giustamente – sulle prospettive di uno sviluppo turistico che potrebbe, come è già accaduto altrove, sconvolgere irrimediabilmente un ecosistema così fragile e delicato. Questa sembrerebbe infatti per la regione una nuova partenza, a prima vista meno aggressiva dopo un primo, limitato e poi fallito tentativo di sviluppo industriale. Forse non a caso il libro si apre con un’escursione verso un eremo “introvabile” (ma infine trovato) che domina il sito di “Bussi Officine” ormai tristemente famoso per le sue scorie chimiche clandestine ma anche, ricorda l’autore, per le esemplari lotte operaie. Ma ora i pericoli sono altri: sono le montagne aggredite da impianti sciistici che snaturano l’ambiente e si appropriano di risorse idriche preziose; sono i paesi, luoghi di vita costituiti anche da persone e dalle loro storie che si trasformano in “borghi”, musei immobili di un tempo passato, luoghi fatti di seconde case vuote la maggior parte dell’anno. Il borgo è un paese che non ce l’ha fatta* dice Monterisi con un’efficace formula. Il libro di Savino Monterisi non è però solo una riflessione sul futuro dell’Abruzzo. È anche uno scritto molto personale e intimo. Un interrogarsi sulle proprie scelte e un dialogo con “i vicini”, lo siano essi materialmente o idealmente, con chi come lui, vive giorno dopo giorno in luoghi certamente in disparte rispetto ai “flussi” più importanti della modernità. Ed è un omaggio alla natura di questa regione, rude e affascinante, alle sue montagne, ai boschi, al vento e alla neve che rende eterno il silenzio. Con accenti pavesiani l'autore ci spiega il suo proposito: Infinito restare s’insinua dunque nello spazio vissuto ed è soprattutto un viaggio. Un viaggio dentro e fuori sé stessi. Un viaggio alla scoperta del non conosciuto a portata di mano. Restare non vuol dire stare fermi, ma trovare un approdo, poterci contare, farci base, creare comunità. Un punto di partenza dal quale esplorare il quotidiano e i suoi contorni, il vissuto e l’immaginato. Spingersi oltre il crinale delle montagne perché non c’è ritorno senza partenza. La partenza come inizio, il viaggio sempre verso casa, dalla quale si parte e si torna. In viaggio per conoscere a fondo sé stessi, la propria geografia, scoprirne i limiti e le virtù.

*Savino Monterisi, Infinito restare. Radici edizioni 2022

venerdì 25 giugno 2021

La scoperta della Montagna

Andare in montagna, l’espressione è trasparente, non dà luogo ad equivoci. Immaginiamo subito escursioni, arrampicate o più tranquille scampagnate all’ombra di boschi e picchi rocciosi. Eppure per me questa espressione tutto sommato banale, ha avuto per lungo tempo un senso misterioso e quasi segreto. Da bambino passavo le mie vacanze in un paese a più di milletrecento metri di altezza, in montagna appunto. Abitavamo in una provincia del settentrione dove i miei genitori erano emigrati in cerca di lavoro ma eravamo originari di quel piccolo borgo sulle pendici di un Appennino che là si faceva più rude. Anch’io ero nato in una di quelle case che sembrano aggrappate alla roccia e lì avevo imparato a camminare e a parlare. Niente di più però perché la mia infanzia l’avevo passata lontano da quei paesaggi che, forse per questo erano diventati per me un po’ mitici. I ricordi erano pochi, piuttosto racconti ascoltati di aneddoti e di piccole avventure quotidiane. A poco a poco, quell’universo così diverso dalle pianure nebbiose del nord Italia si era trasformato in un luogo sognato, un mondo da conoscere e da esplorare. Il primo viaggio consapevole lo ricordo fatto con mio padre che era tornato laggiù per votare ad un’elezione comunale. Più tardi, quasi adolescente, presi l’abitudine di passare laggiù tutte le vacanze estive. I miei genitori mi affidavano ad un compaesano che faceva lo stesso viaggio e, dopo lunghe ore su un treno notturno, seguite da un ultimo percorso in pullman arrivavo accolto da nonni e zii che si occupavano di me. Naturalmente non c’era nessuno per farmi visitare la regione anzi, le mie escursioni si limitavano al paese e ai suoi dintorni. Spesso vedevo gente che partiva in macchina o a piedi, per risalire i pendii che facevano da sfondo al borgo. Fu allora che cominciai a sentire quell’espressione: “Andiamo in montagna”. Ma come, pensavo, dove siamo qui, siamo forse al mare? In effetti da queste parti per andare “in montagna” bisogna oltrepassare il valico di Capo la Serra o, a piedi quello del Vado della Montagna. Si arriva così sull’altipiano di Campo Imperatore. La “montagna” intesa in questo senso, è un po’ il corrispettivo dell’alpeggio sulle Alpi appunto. Per anni ho sentito parlare di questo luogo immaginandolo, senza mai vederlo. La prima volta che lo scoprii fu grazie ad una vicina di casa. Suo marito e suo figlio erano pastori e, naturalmente, durante l’estate, il loro gregge approfittava delle praterie di quel vasto altipiano. Quell’anno, come da tradizione, la rassegna ovina riuniva pastori e greggi all’inizio del mese di agosto. La signora propose ai miei nonni di lasciare che mi unissi alla sua famiglia che aveva previsto una scampagnata. Partii con il figlio dunque ma prestissimo, quando era ancora notte. Una zia si era alzata per prepararmi la colazione ma io ero talmente impaziente che mangiai poco e in fretta. Del breve viaggio fino all’altipiano non ricordo molto, era ancora buio, i paesaggi erano ancora nascosti, faceva freddo. Ricordo però che, arrivati sul Campo, lasciammo la strada asfaltata per inoltrarci lungo una mulattiera per raggiungere lo stazzo. Chi conosce Campo Imperatore sa che, senza punti di riferimento visivi, le distanze sono ingannevoli, quello che sembra un prato si estende in effetto per chilometri. L’alba cominciava a schiarire il cielo e a poco a poco apparivano le montagne che delimitano l’altipiano. Vicino allo stazzo una capanna assai rustica serviva di riparo ai pastori. Gli odori erano intensi, resi ancora più dall’aria fredda del mattino. Mi misi in un angolo mentre gli uomini si affaccendavano per mungere le pecore. In un grande calderone il latte era messo a scaldare mentre uno dei pastori lo mescolava con un lungo attrezzo in legno. I cani aspettavano tranquillamente, chi sdraiato lì vicino, chi curiosando tra l’erba. L’aria, ancora fredda, si faceva sempre più chiara fino a quando, all’improvviso, un raggio di sole spuntò dietro il crinale dei monti. D’un tratto i caldi colori illuminarono uomini, animali e cose. Un momento davvero magico, irripetibile. Vedere quello spettacolo per la prima volta fu un avvenimento indimenticabile. Più tardi raggiungemmo il luogo di raduno delle greggi, un mercatino animava la manifestazione e, dall’alto di un palco, i discorsi di rito si susseguivano. Infine andammo sotto la pineta per fare merenda con altre persone, amici e parenti. Senz’altro una bella giornata i cui dettagli però scomparvero ben presto dalla mia memoria, occultati da quel momento incantato vissuto una volta per sempre.