martedì 30 aprile 2013
Nikolaj Gogol': Le Anime morte
È
un libro che è stato, almeno in italiano, tradotto e ritradotto.
L'ultima prova è del 2009 ed è opera di Paolo Nori per Feltrinelli.
Io
ho la versione di Agostino Villa, pubblicata nel 1953 da Mondadori.
L'ho riletta recentemente e devo dire che mi è sembrata una
traduzione un po' desueta. È strano come si abbia l'impressione di
leggere una lingua un po' polverosa che a volte diventa ostica in
termini che, senza dubbio furono popolari, ma che oggi pochi
utilizzano. Non lodo la mia ignoranza ma che cosa sono i calzoni
di bambagino, e perché uno dei
servi comprati è soprannominato Non perdona a trògoli?
E che cos'è un capo scarico?
Ma, scanso alle pignolerie,
veniamo al fatto.
Uno
strano personaggio arriva nella città di N. modesto capoluogo di
governatorato. Né grasso né magro, né alto né basso, né bello né
brutto, Pavel Ivanovic Cicikov ha l'aspetto di un banale gentiluomo
in viaggio con due dei suoi servi a bordo di un modesto calesse.
Un
viaggio senza meta, nella Russia del XIX secolo, diventa pretesto per
lo scrittore per osservare e analizzare situazioni e peronaggi
disparati, insoliti o banali; per rappresentare infine il semplice
scorrere della vita.
Le
Anime morte fu quasi interamente
scritto da Gogol durante il suo soggiorno a Roma tra il 1837 e il
1839. Sul modello della Divina Commedia,
il progetto dello scrittore era di comporre non un romanzo ma ciò
che lui chiamava un poema
in tre parti, descrivendo gli aspetti morali della società
dell'epoca, dai più bassi ai più elevati. Solo la prima parte fu
conclusa. Il libro non sarà mai terminato. Tornato a Roma nel 1845,
Gogol continuò la scrittura della seconda parte del romanzo (quella
che avrebbe dovuto corrispondere al Purgatorio)
ma, sempre più ossessionato da un'infatuazione religiosa, bruciò
poi le pagine scritte, lasciando incompiuta l'opera.
Le
anime morte di cui si
parla sono quei contadini, servi della gleba, morti tra un censimento
e l'altro e per i quali i possidenti dovevano continuare a pagare il
testatico al governo fino all'aggiornamento del censimento
successivo. L'idea di Cicikov era di comperare per pochi soldi queste
anime a dei proprietari ben contenti di sbarazzarsi di un carico
inutile, per realizzare così un patrimonio fittivo da poter
ipotecare, incassare un prestito e poi sparire dalla circolazione. Il
progetto sembra facile ma innesca una serie di quiproquo
e di reazioni a catena che finiscono per mettere nei guai Pavel
Ivanovic.
I
critici si sono divisi nell'analisi del romanzo. Per alcuni si tratta
di un quadro realista della Russia dell'epoca. Una società arcaica
nella quale i servi, legati alla terra e al possidente, erano
considerati alla stregua degli altri animali domestici, venduti,
comprati e sfruttati. Un mondo in cui l'aristocrazia e la burocrazia
zarista dominavano senza intralci un popolo che viveva nella miseria.
Quadro di critica sociale dunque, rigoroso atto di accusa contro un
sistema profondamente iniquo.
Sotto
il titolo Le Anime morte bisognava quindi riconoscere non i
servi deceduti ma i gretti personaggi della buona società, incapaci
di umanità.
Per
altri, la chiave di lettura del romanzo è piuttosto nella volontà
satirica che porta alla caricatura, all'accentuazione delle linee di
carattere, spinte fino al grottesco.
In
realtà Gogol era lontano dalla volontà di cambiamento strutturale
della società russa che pure a quel tempo cominciava a esprimersi
negli ambienti più avanzati. Non vedeva la necessità di modificare
il sistema sociale. Era piuttosto un conservatore che considerava le
tare individuali: grettezza, avarizia, ambizione, responsabili della
miseria in cui viveva il popolo. I necessari cambiamenti dovevano
essere per lui la conseguenza di una rigenerazione morale più che
politica.
Resta
il fatto che questo libro, senz'altro il più significativo della sua
pur notevole opera, è forse l'affresco più riuscito della società
russa del XIX secolo. Morto a 43 anni, Gogol sarà considerato dai
suoi successori come il padre di una nuova letteratura russa. I
grandi autori che continueranno a scrivere dopo la sua morte Dostojevski, Tolstoi, Turgenev
(che fece un mese di carcere e due anni di esilio per un necrologio
dedicato a Gogol e pubblicato malgrado il divieto della censura)
riconosceranno in lui un maestro e un esempio.
Scritto
nella lontananza, Le Anime morte è soprattutto un omaggio
alla terra russa anche -e soprattutto- quando il paesaggio si fa, per
contappunto, italiano.
Terra
di Russia, terra di Russia! Io ti vedo; dalla mia incantevole,
meravigliosa lontananza, io ti vedo. Tutto è povero in te,
disordinato, inospitale; non rallegrano, non atterriscono lo sguardo
gli arditi miracoli della natura, coronati dagli arditi miracoli
dell'arte: le città con gli alti castelli dalle mille finestre,
radicati sui dirupi; le pittoresche piante ed edere radicate sulle
case, fra lo scroscio e l'etreno vaporio delle cascate. Non si
rovescia indietro la testa a guardare il sovrapporsi senza fine,
nelle altezze, dei blocchi di pietra; non brillano attraverso gli
oscuri archi gettati uno sull'altro, rivestiti di tralci di viti,
d'edere e di milioni e milioni di rose selvatiche, non brillano in
lontananza gli eterni profili dei monti radiosi, alzati agli
argentei, limpidi cieli. Tutto è aperto, desolato e uniforme in te;
come piccoli punti, come piccoli segni, visibili appena, spiccano tra
le distese le piatte tue città: nulla che accarezzi o che affascini
lo sguardo. Ma che inaccessibile forza è dunque questa che attira a
te? Perché riecheggia e di continuo risuona al'orecchio,
malinconica, come si diffonde su tutta l'ampiezza tua, da mare a mare
la tua canzone? Che c'è in essa, in codesta canzone? Che cosa chiama
così, e singhiozza e afferra il cuore? Che suoni son questi che
morbosamente si insinuano e penetrano nell'anima, e s'attorcigliano
al moi cuore? Terra di Russia! Che cosa vuoi dunque da me? Quale
inaccessibile legame esiste tra noi? Che hai da guardarmi così e
perché tutto quello che c'è in te si rivolge a me con quest'occhi
pieni di aspettazione?... E ancora pieno di stupore, rimango immoto,
e già sul capo ho l'ombra di una nube minacciosa, gravida di piogge
incombenti, e il pensiero ammutolisce dinnanzi alla tua vastità
illimitata? Forse qui, forse in te sorgerà uno sconfinato pensiero,
giacché tu stessa sei senza fine? Non potrebbe avere qui l'avvento
un eroe gigante, giacché c'è spazio abbastanza perché si sviluppi
e si muova? E minacciosamente mi abbraccia la possente vastità,
riverbandosi con terribile forza nel profondo del moi essere; d'una
potenza arcana s'illuminano i miei occhi... Oh, sfolgorante,
fascinosa, ignota al mondo sconfinatezza! Terra di Russia!...*
*Traduzione
di Agostino Villa
lunedì 22 aprile 2013
Grotta di Sant'Angelo a Palombaro (Chieti)
Sulle
pendici orientali della Maiella, non lontano da Fara San Martino,
Palombaro è su un colle a circa 500 metri di altezza. Siamo nella
comunità montana della Maielletta. È nel territorio di questo
comune che si trova la grotta di Sant'Angelo, un misterioso e
sorprendente luogo di culto, situato in un'ampia apertura nella
roccia della montagna. Dalla frazione di Cantagufo parte una
mulattiera che sale verso il monte poi un sentiero permette di
arrivare, in una decina di minuti, alla grotta, nascosta nel bosco di
faggi.
La
grotta non è molto profonda e l'ampia apertura permette alla luce
del giorno di arrivare fino ai resti in muratura situati nel fondo.
Non resta molto di ciò che ha l'apparenza dell'abside di una chiesa.
Una stretta finestra ad arco si apre verso la valle mentre nella
parte superiore è un'elegante decorazione di piccole arcate.
Dell'origine
e del significato di questi ruderi non si sa praticamente nulla. Una
sola citazione in una bolla papale del XIII secolo che, nell'elenco
dei possedimenti del monastero di San Martino, cita la chiesa di
Sant'Angelo a Palombaro. Sembra che nell'antichità vi si venerasse
Bona, dea della fertilità. È Sant'Agata che, con l'arrivo del
cristianesimo, ha sostituito nella cultura popolare la dea Bona come
protettrice della fertilità proteggendo le donne dal serpente che
vorrebbe rubare loro il latte. Le grandi vasche scavate nella roccia
e situate nella parte anteriore servivano forse a raccogliere acque
miracolose. Per molto tempo la grotta è servita da stalla per i
pastori del paese a cui il comune la affittava. Negli anni trenta del
Ventesimo secolo fu ripulita e riaperta al culto.
mercoledì 3 aprile 2013
Carlo Levi, Cesare Pavese e il confino

Per
la sua militanza antifascista (nel 1931 aveva aderito al movimento
Giustizia e libertà)
è condannato al confino in Lucania, dove resterà un anno tra il
1935 e il 1936.
A
Torino Carlo Levi aveva conosciuto tra gli altri anche Cesare Pavese,
di qualche anno più giovane. Pavese si interessa e si appassiona
alla letteratura e alla poesia soprattutto grazie all'insegnamento di
Augusto Monti, suo professore di liceo, seguace anche lui di Pietro
Gobetti e convinto degli importanti e necessari legami tra
letteratura e etica.
Come
Levi, Pavese frequenta i gruppi antifascisti della città, ma il suo
impegno non sarà mai strettamente militante. Fatto sta che, durante
una perquisizione del suo domicilio, la polizia trova una lettera di
Altiero Spinelli, a quel tempo in carcere a Roma, lettera peraltro
non destinata a lui ma alla donna dalla voce rauca Tina
Pizzardo, con la quale Pavese aveva una complicata relazione. Ciò
basta per far scattare l'accusa di antifascismo. Pavese è inviato,
come Levi al confino ma a Brancaleone calabro, dove rimarrà un anno.
Carlo
Levi e Cesare Pavese sono quindi, malgrado loro, nell'Italia
meridionale, praticamente nello stesso periodo e vivono, lontano da
Torino, un'esperienza analoga. Entrambi scriveranno un libro,
ispirato da questa vicenda: per Levi sarà Cristo si è fermato a
Eboli, per Pavese Il carcere.
È
sorprendente allora il modo così differente che hanno i due
scrittori piemontesi di raccontare il loro viaggio in un'Italia che
era loro praticamente sconosciuta. Carlo Levi scrive il suo romanzo
all'inizio del 1944, mentre si trova a Firenze è la guerra sembra
non voler finire mai. Nel suo libro parla della sua esperienza, ma
soprattutto delle cose che ha visto. Descrive una società per molti
aspetti arcaica e feudale. Mentre in tutta l'Italia si festeggia
l'Impero (il 1935 è l'anno della guerra in Etiopia) e i ricchi
notabili pavoneggiano, il popolo analfabeta vive nella miseria e
stenta a sopravvivere tra fame e malattie, lontano dalla «civiltà»
fermatasi ad Eboli, ultimo avamposto prima di quel mondo dimenticato
da Dio. E di fronte all'abbandono, i contadini di Aliano hanno
cercato altrove una soluzione per i propri mali. Levi scopre
l'importanza della magia e del rito che non snobba come semplici
superstizioni ma che osserva con interesse, come un aspetto di quella
civiltà contadina che la modenità stava facendo scomparire. Carlo
Levi, riconosciuto come medico dai poveri abitanti del posto, entra
nelle catapecchie del paese per esercitare una professione che aveva
ormai abbandonato. È accolto con riconoscenza, apprezzato per la sua
umanità, qualità che mancava ai dottori del paese, descritti come
incompetenti ciarlatani. A poco a poco un legame molto forte, fatto
di compassione ma anche di simpatia e infine di affetto, lo lega alla
gente di Aliano.
Il
libro di Carlo Levi non è solo un romanzo. L'autore osserva il mondo
che lo circonda con l'occhio di un antropologo attento, scruta,
analizza, riflette. La sua opera diventerà un punto di riferimento
per quegli studiosi che si occuperanno con nuovo interesse alla
cultura contadina del meridione.
Siamo
anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime,
nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e
città, civiltà precristiana e civiltà non piú cristiana, stanno
di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la
sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e
quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo
dissidio secolare, giunto ora alla sua piú intensa acutezza, e non
soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non
si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli
della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale
si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e
quello del secolo scorso non sarà l’ultimo. Finché Roma governerà
Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e
tirannica
Tutt'altra
disposizione è quella di Cesare Pavese.
Il
suo racconto del soggiorno in Calabria è sicuramente meno
autobiografico di quello di Carlo Levi, lascia maggior spazio alla
fantasia e all'invenzione; un paragone troppo formale sarebbe quindi
improprio. Resta però un'impressione di minore apertura al mondo,
anzi di uno sguardo che piuttosto di allargarsi verso l'universo che
lo circonda, si volge verso il ripiegamento e l'introspezione. I
personaggi che ruotano attorno alla figura di Stefano, il confinato,
sono osservati sempre con distacco. Manca l'empatia che appare nel
libro di Levi. Le loro azioni e le loro parole sono sempre riportate
verso Stefano che resta personaggio chiave e, in qualche modo l'unico
che ha una vera profondità. È nella solitudine che il protagonista
trova la condizione che più lo appaga e sembra avere quasi un
sentimento di sollievo quando Giannino, l'unica persona a cui si era
legato, va in prigione. E rifiuta di incontrare l'altro
confinato,chiudendo simbolicamente ogni velleità di impegno
politico. Solo i personaggi femminili assumono un certo rilievo: la
donna lasciata al nord, la proprietaria della casa in cui abita, la
giovane Concia simbolo di selvaggia vitalità. Ma i rapporti non sono
facili, la comunicazione non riesce ad innescarsi.
Nessuno
si fa casa di una cella, e Stefano si sentiva sempre intorno le
pareti invisibili. A volte, giocando alle carte nell'osteria, fra i
visi cordiali o inerti di quegli uomini, Stefano si vedeva solo e
precario, dolorosamente isolato, tra quella gente provvisoria, dalle
sue pareti invisibili. Il maresciallo che chiudeva un occhio e lo
lasciava frequentare l'osteria, non sapeva che Stefano, a ogni
ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua
vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui
come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe
tornato a casa.
Ma
Il carcere, a differenza di Cristo si è fermato a Eboli
non è che un romanzo, se Carlo Levi parla alla prima persona,
Stefano non è Cesare, non del tutto almeno.
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giovedì 21 marzo 2013
Castel del Monte e il telefono
Gli
anni Sessanta erano ancora, per gli abitanti di Castel del Monte,
l'epoca delle lettere. Si restava in contatto con parenti e amici
lontani scrivendo modeste paginette di prosa, sudata ma sincera. Si
davano e si ricevevano così le notizie importanti, gli auguri per le
feste ma anche i semplici racconti della vita quotidiana di chi era
restato e di chi, lontano, raccontava un mondo diverso e la nostalgia
per il paese lasciato. Erano utili allora le nozioni imparate nei
pochi anni passati sui banchi di scuola con maestri ancora presenti
nei ricordi, chi con ammirazione o con affetto, chi con timore per le
bacchettate ricevute e che ancora facevano male nella memoria.
Nel
borgo i possessori di una linea telefonica si contavano sulla dita di
una mano. E non c'erano nemmeno le cabine telefoniche, peraltro oggi
in via di disparizione.
Nel retro del palazzo comunale, una stanzetta ospitava il posto telefonico pubblico. Coloro che dal resto dell'Italia (o del mondo) volevano comunicare con un familiare o un amico abitante a Castel del Monte, chiamavano una prima volta, dando appuntamento. L'impiegata mandava qualcuno ad avvertire il corrispondente e quest'ultimo si presentava all'ora stabilita per essere messo in comunicazione. Il macchinario era di quelli che si vedono solo nei vecchi film: una sorta di scatolone in cui inserire le spinette secondo la linea voluta.
Di solito si arrivava in anticipo (non si sa mai) e si aspettava lo squillo, a volte chiacchierando tranquillamente con la centralinista, a volte con apprensione, quando la chiamata era inattesa, non se ne sapevano le ragioni e si temeva una brutta notizia.
Tempi che sembrano ormai lontanissimi. Il posto telefonico comunale fu un giorno sostituito da una cabina pubblica in una delle osterie del paese: Otto scatti! sentenziava imperiosamente l'oste quando, conclusa la telefonata lo si interpellava per pagare, continuando con il suo strofinaccio ad asciugare i bicchieri o a scacciare le mosche.
Poi arrivarono le cabine sulla piazza.
Oggi, nell'epoca dei cellulari, non è raro vedere persone, con il telefono incollato all'orecchio, andare da uno spiazzo ad una terrazza, alla ricerca di un collegamento spesso fluttuante: prende?, non prende!!
mercoledì 13 marzo 2013
Demetrio Paolin : La seconda persona
Le
vie rimangono le stesse. Guardi corso Unione, qui ci si ricorda del
tempo che fu, quando tutto era più chiaro. Il torto era torto, il
giusto pure: il tempo di corso Unione finì a ottobre, tanti anni fa.
La gente sfilava per le strade silenziosa e a tutti sembrò come se
il tempo si chiudesse e nient'altro fosse possibile, dopo. E invece
siamo ancora qui e siamo reduci...
Il 14 ottobre 1980 qualche migliaio di quadri intermedi Fiat scese in piazza e organizzò un corteo. I «colletti bianchi» protestavano contro i picchetti operai che, da più di un mese, bloccavano le fabbriche della famiglia Agnelli.
Tutto
era cominciato il 31 luglio dello stesso anno, Cesare Rominti,
amministratore delegato del gruppo Fiat, aveva assunto i pieni poteri
e intrapreso una guerra aperta contro i sindacati che esprimevano
ancora qualche velleità di opposizione alla sua strategia aziendale.
Il 5 settembre, 24000 dipendenti erano stati messi in cassa
integrazione e, una settimana dopo, la direzione aveva annunciato più
di 14000 licenziamenti.
Tutti
coloro che, durante le lotte degli anni Settanta avevano promosso o
partecipato attivamente alle iniziative del movimento operaio,
facevano parte della lista dei licenziati.In risposta, il consiglio di fabbrica proclamò lo sciopero a oltranza. Cominciò un durissimo mese di lotta.
Poi, il 14 ottobre, ci fu il raduno, davanti al Teatro Nuovo, di «quelli che volevano lavorare». Fu una manifestazione silenziosa, di gente che non era abituata a sfilare in cortei. Erano fieri di lavorare per la grande fabbrica e, anche in pensione, fieri lo restavano, fino alla morte, quando il loro annuncio necrologico non dimenticava il dato essenziale della loro esistenza: «anziano Fiat». Quella volta, convocati in piazza dalla telefonata del capo, vennero in molti, chi per convinzione, chi per obbedienza o per timore. Per anni avevano rispettato e riverito il padrone e i suoi rappresentanti. Poi avevano chinato ancora la testa ma questa volta di fronte a chi li trattava da crumiri, a chi li insultava quando, davanti ai picchetti che bloccavano i cancelli, tentavano di entrare per riprendere il lavoro. E questo non lo accettavano.
Nel giorno di ottobre si ritrovarono, all'inizio un po' spauriti poi, quando il numero cominciò ad aumentare, rassicurati, riconoscendo nello sguardo degli altri i propri stessi sentimenti. Il corteo attraversò la città, grigio come il cielo di quell'autunno. Silenzioso e triste: un lungo funerale.
La sera, i mass media avevano già deciso chi fossero i vincitori dello scontro. La manifestazione dei quadri diventò «la marcia dei 40000» ed è così che sarà ricordata in futuro. Luigi Arisio, leader del movimento, fino ad allora oscuro travet, avrà l'onore delle prime pagine dei giornali. Sarà in seguito ringraziato da Susanna Agnelli, sorella del padrone-presidente, e senatrice repubblicana, con un posto di deputato nelle file del suo stesso partito.
Il 17 ottobre i sindacati firmarono l'accordo proposto dalla direzione.
Fu la fine dello sciopero alla Fiat (la fine di tutti gli scioperi alla Fiat), la fine del movimento sindacale, delle lotte del movimento operaio degli anni Settanta.
Cominciariono gli anni del craxismo e degli yuppies, delle televisioni berlusconiane e, come disse qualcuno, dell'edonismo reganiano. Al decennio dell'azione collettiva seguì quello del ritorno al privato e dell'individualismo.
Oggi il Lingotto, sede storica della Fiat, è diventato un grande centro commerciale.
A Mirafiori, lo stabilimento dove lavoravano più di cinquantamila persone, i pochi operai restanti si aggirano in immensi spazi deserti.
È qui che arrivano Damiano e Luca dopo aver attraversato la città. Il padre dei due fratelli ha lasciato la madre del primo per andare a vivere con quella del secondo. Muore di cancro. I due si ritrovano percorrendo le strade rettilinee di Torino, la città dove si da del tu alle strade (corso Massimo, corso Vittorio, via Madama). Noleggiano due biciclette, due graziella e decidono di percorrere il perimetro dell'immensa fabbrica in cui il padre aveva lavorato e nella quale aveva militato. Fabbrica nella città e fabbrica-città. Fabbrica prigione.
In un dittico che si dispiega come un monologo interiore, Demetrio Paolin si immerge nella fine del XX secolo attraverso immagini che catalizzano nel simbolo momenti chiave di un mondo che si sgretola e si trasforma. La narrazione non è mai cronaca, si ramifica, prende sentieri di traverso, si ferma, guarda indietro, trova un bigliardino in fondo al bar e il libro sussidiario delle scuole. Luigi Tenco si suicida al festival di Sanremo, là dove la banalità irride sempre le velleità di intelligenza. Suoni e musica che entrano nella fabbrica di parrucche, luogo ambiguo in cui il corpo diventa oggetto. I racconti mescolano Storia, memoria e finzione in una narrazione limpida e intensa, ricca di riflessioni che, quasi senza averne l'aria, prendono la forma di profonda meditazione.
Transeuropa Edizioni
sabato 2 marzo 2013
Arrivo a Castel del Monte
Da
Villa Santa Lucia degli Abruzzi la strada sale per una decina di
chilometri verso Castel del Monte attraversando un paesaggio di
boschi e di colli. Sulla destra la montagna di eleva rapidamente,
coperta da boscaglia. A sinistra i colli sono più dolcemente
arrotondati, anch'essi coperti di boschi. A tratti appare davanti lo
sperone roccioso di monte Bolza, già visibile molto più in basso,
dalla strada che attraversa la valle del Tirino. Tra i due paesi
l'unico edificio è quello di un'azienda zootecnica, nessun altra
abitazione. La strada, con decine di curve, è sempre in salita, a
volte più decisa, con qualche stretto tornante. Castel del Monte,
fino ad allora sempre nascosto, appare all'improvviso dopo un'ampio
giro attorno ad un ennesimo colle. Il paese si presenta in modo
perentorio, stagliandosi imperioso, quasi gonfiando il petto:
sorprende il viaggiatore.
Arrivando
dalla strada provinciale che sale da Barisciano invece il paese
appare da lontano. Dopo aver attraversato in tutta la sua estensione
l'abitato di Calascio, si sale con una curva fino ad uno spiazzo,
sorta di modesto valico montano. Sulla sinistra inizia la strada che
si inerpica verso le rocca sovrastante. La provinciale continua verso
destra, scendendo brevemente nella valle, il cosiddetto «campo»
ngàmbë. Castel del Monte si mostra e si espone. Nella parte
più bassa dell'abitato la chiesa della Madonna del Suffragio
dispiega la sua vela quadrata. Le sue finestre ovali e il grande
portale appaiono come un viso di persona che esprima sorpresa o
stupore di fronte a chissà quale evento.
Ad occidente, poco distante
ma ben isolato è il cimitero: le nostre radici come lo precisa la
lapide posta dall'amministrazione comunale qualche anno fa. Le tombe
sono in discesa, rivolte verso la valle. Nella parte più bassa,
l'edificio dei loculi chiude il lato meridionale del luogo. A fianco
del vecchio cimitero è ora una sorta di palazzina dallo stile
alquanto moderno, costruita per accogliere i nuovi ospiti. Un bel
balcone si apre al primo piano sul panorama sottostante.
Prima
di salire fin quassù la strada attraversa, quasi pianeggiante la
piana di San Marco, luogo di antichi insediamenti e di cruente
battaglie. Da qui il paese sembra incastonato a mezza costa, il colle
su cui è posato si confonde con la serra di monti che sta alle sue
spalle.
Chi ritorna dopo una lunga assenza ha il tempo di
familiarizzarsi con il profilo delle case di pietra, sovrastate dalla
torre, un tempo di guardia, oggi campanaria (piuttosto, tornerà ad
esserlo quando si ripareranno i danni del terremoto del 2009). Per i
castellani, partiti, per amore o per forza, ai quattro angoli del
mondo, svoltare l'ultima curva di Calascio è sempre un momento
particolare. Momento in cui non si ancora arrivati, la meta, di cui
tanto si è parlato e a cui si è tanto pensato durante il viaggio,
appare infine, ancora lontana ma concreta. Per sei chilometri ci si
proietta mentalmente in quella cartolina che però è ben reale. Cosa
si farà appena arrivati?, Chi si incontrerà?, Fa freddo? (spesso),
Fa caldo? Chissà che cosa è cambiato? Chissà chi è già tornato?
mercoledì 13 febbraio 2013
Gran Sasso: Valle Caterina
Ecco
un appunto inattuale, una passeggiata estiva raccontata nel febbraio
gelato.
Mese
d'agosto. Un'atmosfera prealpina in questo angolo del massiccio del
Gran Sasso.
Le alte cime chiudono, possenti, il panorama al di là
della conca di Campo Imperatore ma qui le creste sono più
arrotondate, solo il monte Meta ripropone una, pur modesta, piramide
rocciosa.
I prati sono di un bel verde e la pineta copre, con un tono
più cupo la china del colle.
Vicino,
più vasta, la faggeta brilla di mille sfumature e si distende verso
la valle sottostante.
Un
vento tiepido, venuto dal mare risale le colline del versante
pescarese, facendo cantare gli alberi. La luce dell'estate penetra a
tratti i fitti rami con chiazze di giallo tra le più vaste ombre.
Lo
spesso strato di foglie che macera nel sottobosco spande un odore di
humus, mentre al sole, le fioriture attirano sciami di insetti.
Questo
scorcio di montagna appare meno rude e severo accanto al massiccio
roccioso e della piana sterminata che si distende verso ovest.
Angoli
gradevoli e attraenti catturano lo sguardo e invitano ad una pausa;
quando il vento si ferma il cicalare degli uccelli riempie il
silenzio.
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