La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



martedì 25 febbraio 2014

Mariusz Wilk: Appunti di un lupo

Prendete delle placchette di ferro, dotate di fori per poterle infilare in uno spago e così tirarle fuori più facilmente dal bagno. Se ne siete sprovvisti, prendete delle vecchie serrature, vecchie chiavi o vecchie catene. Potete usare del ferro non corroso, ma certi preferiscono invece della ferraglia arrugginita, e anche le battiture che schizzano sotto il martello del fabbro. Mettete il metallo e le noci di galla pestate grossolanamente, in un recipiente nel quale si formerà l'acido gallico, che potrete usare per otto o dieci anni. Le noci di galla sono delle escrescenze dovute a particolari insetti, che si formano sulle quercie. Sceglietele con cura perché ce ne sono di dure, di verdi e macchiate, di scolorite. Pestate, spruzzate con acqua mischiata a kwas (o succo di cavolo marinato) e mettete da parte al riparo dalla luce, oppure immergete immediatamente il metallo nella soluzione. Versate poi nell'acido ottenuto un decotto di foglie di quercia, di ontano o di frassino. Strappate la corteccia a primavera, appena la linfa sale, e fatela seccare – la corteccia secca da una tinta più scura. Fate bollire fino a evaporazione in un recipiente di rame. Aggiungete del liquido e scaldate a fuoco basso fino ad ispessimento. Passate in un crivello e pressate. Poi passate in un setaccio più fine e pressate. Infine passate in una tela e pressate di nuovo. Versate quindi questo decotto nell'acido. Per ottenere sali ferrugginosi, aggiungete del miele, della birra d'orzo, o del vino, rosso di preferenza. Mettete il recipiente di tchernilo al riparo della luce e mescolate più volte al giorno. Il processo si effettua lentamente: contate tra i dodici e i quattordici giorni. Temperate con un decotto di luppolo per evitare la muffa. Se il tchernilo passa attraverso la carta aggiungete della gomma di ciliegio per indurirlo; se volete che scorra più facilmente sotto la penna, aggiungete dei chiodi di garofano o dello zenzero...
Questa ricetta di inchiostro (tchernilo) è tratta da un libro di ricette del XVI secolo. Gli scribi del monastero non erano autorizzati a prendere in mano una penna prima di aver fabbricato essi stessi il proprio tchernilo.

Mariusz Wilk, giornalista polacco nato nel 1955, fece parte dell'opposizione alla dittutura di Jaruzelski e finì anche in prigione. Nel 1991 si stabilì sulle isole russe di Solovki, nel mar Bianco, all'estremo nord del paese, dove restò sei anni. Per Wilk non si trattava di andare in volontario esilio ma, all'indomani del crollo dell'impero sovietico, di cercare un punto di vista emblematico per osservare e raccontare i cambiamenti della società.
Solovki è stata nel passato la sede di un importante monastero, meta di pellegrinaggio per gli ortodossi russi. Dopo la rivoluzione del 1917 divenne luogo di reclusione, uno dei primi gulag sovietici. In una serie di articoli pubblicati in Francia dalla rivista polacca Kultura, Mariusz Wilk (il suo cognome in polacco vuol dire lupo) ne ha descritto il paesaggio rude e affascinante, l'esistenza e il carattere del migliaio abitanti dalla vita inquieta e caotica.

lunedì 10 febbraio 2014

Luciano Bianciardi: La vita agra

E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno stavolta lui dirà niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so fin da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù.

Erano già gli anni Sessanta, gli anni del miracolo economico e gli italiani sognavano l'utilitaria e il televisore. Le catene di montaggio delle fabbriche del nord correvano sempre più veloci. I contadini e i pastori del sud, abbandonavano già pieni di rimpianto la loro terra e partivano verso il promesso benessere del triangolo industriale. Il paese si trasformava a vista d'occhio; nelle periferie i palazzoni spuntavano come funghi nella notte, costruiti dagli stessi contadini meridionali trasformatisi in manovali. L'Italia agricola e sottosviluppata del dopoguerra vendeva ormai elettrodomestici al mondo intero, ricercati perché economici, grazie ai salari di miseria degli operai: a quel tempo turchi e bengalesi erano i nostri padri.
Tra gli intellettuali poche erano le voci critiche che, come Pasolini, denunciavano una corsa al progresso che era piuttosto corsa al profitto degli uni e all'alienazione degli altri.
E tra le poche, quella di Luciano Bianciardi è stata presto dimenticata. Solo nel 1993, grazie al saggio di Pino Corrias Vita agra di un anarchico, si è riscoperta l'importanza dello scrittore grossetano. Il titolo del saggio di Corrias è un evidente richiamo al romanzo che Bianciardi ha pubblicato nel 1962: La vita agra, riferimento doveroso dato il carattere ampiamente autobiografico di quest'ultimo.
La vita agra è la storia di un intellettuale che lascia la provincia grossetana per andare a Milano con uno scopo ben preciso: vendicare la morte dei 43 minatori di Ribolla, uccisi nel 1954 da un colpo di grisù nella miniera della Montedison. L'idea è di fare esplodere il torracchione, sede della società.
Ma le vita nella metropoli non è facile. Il protagonista deve fare i conti con una società che a poco a poco tenta di inghiottirlo. Si rende conto ben presto che il suo gesto isolato non avrebbe senso, solo una presa di coscienza e un'azione collettiva sarebbero efficaci.
La vita agra, -il titolo è un'evidente contrapposizione alla Dolce vita felliniana, uscita due anni prima- , è un libro vitale e sostanzioso, un testo che resta, a distanza di più di cinquant'anni di grande modernità anzi, a tratti, profetico. È l'espressione piena di un pensiero eretico: Occorre che la gente impari a non collaborare, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.
Ma non e solo il contenuto a fare di questo romanzo un'opera importante. La scrittura di Bianciardi gioca a spiazzare il lettore fin dalla divagazione filologica di un incipit che si dilunga nella rievocazione del quartiere di Brera. Si diverte con sottintesi letterari che mettono a repentaglio le riminiscenze scolastiche del lettore, tra Manzoni (il securo napoleonico del Cinque maggio) e Cassola (si sa come son fatte queste ragazze di Bube), Carducci e Verga: (e sono capaci di mangiare vivo te con tutta la casa del nespolo).
E poi richiami storici più o meno velati come quello di Vittorio Emanuele III: quel gambecorte di un italiano rimasto sul trono cinquant'anni, ma cosa comandava quel poveretto sposato con la montanara pecoraia se a Roma c'era quell'altro, quello tutto nero, a fare e disfare ogni cosa.
E ancora accumulazioni di sinonimi, termini tecnici o dialettali, latinismi...
Bianciardi sembra irridere i manierismi e la ricerca dello Stile; fa l'occhiolino a Gadda, altro scrittore fuori dalle forme, e costruisce un romanzo in cui forma e contenuto operano concretamente nello stesso senso, nella stessa critica radicale al conformismo.
Paradossalmente il successo del libro, le interviste, la fama, furono fatali a Luciano Bianciardi. Lui che quando lavorava da Feltrinelli, era stato licenziato per scarso rendimento è ormai sotto i riflettori della celebrità. La società dei consumi che aveva voluto denunciare è riuscita a fagocitare il libro e il suo autore. Ritiratosi a Rapallo lo scrittore abbandonerà ogni velleità, morendo alcolizzato a soli 49 anni, nel 1971.

mercoledì 1 gennaio 2014

Albert Camus: Taccuini

Si tratta prima di tutto di tacere - sopprimere il pubblico e sapersi giudicare. Equilibrare un'attenta cultura del corpo con un'attenta coscienza del vivere. Abbandonare ogni pretesa e intraprendere una duplice opera di liberazione – dal denaro e dalle proprie vanità e bassezze. Vivere in regola. Due anni non sono troppi in una vita per riflettere su un solo punto. Occorre liquidare ogni stato anteriore e mettere tutte le proprie forze prima di tutto nel non disimparare nulla, poi, pazientemente, nell'imparare.

lunedì 23 dicembre 2013

Cesare Pavese: La luna e i falò

Sono colline le Langhe, ma che sentono già la montagna, soprattutto quando la nebbia ne gela le creste e si accumula nelle valli. I filari di vigna appaiono neri e contorti nella luce ovattata del pomeriggio. Tra le robinie qualche cornacchia svolazza gracchiando e scende quasi a sfiorare l'acqua del Belbo che sembra immobile. Uscendo dal paese di Santo Stefano, si passa sotto la collina di Gaminella una collina come un pianeta*, sulla strada che va verso Canelli. Dall'altro lato del fiume il pendio che risale è quello del Salto con le creste, coi grandi prati che sparivano sulle cime*. In basso, al fianco dello stradone* sul muro della casa in cui nacque, una lapide ricorda Cesare Pavese.
Sono i luoghi di molte pagine dell'opera dello scrittore ma soprattutto sono quelli dell'ultimo romanzo: La luna e i falò, pubblicato nella primavera del 1950, pochi mesi prima della morte.
Pinolo Scaglione, l'amico falegname la cui bottega era poco lontano dalla casa in cui lo scrittore aveva passato l'infanzia, glielo aveva suggerito: perchè non scrivi un libro su questi posti e Pavese gli aveva risposto che ci stava pensando. Così Pinolo diventò il Nuto del romanzo e lo accompagnò ancora una volta, forse l'ultima, sui sentieri e tra i campi, raccontandogli le storie recenti o più antiche -Te ne conto una-* che lo scrittore avrebbe trasformato nel libro.
L'ultimo romanzo di Cesare Pavese fu scritto in qualche mese, tra il settembre e il novembre del 1949 e concluse un periodo di intensa attività narrativa. Nel giugno dell'anno successivo lo scrittore riceveva il premio Strega per La bella estate, ultima apparizione pubblica prima della morte in una stanza d'albergo davanti alla stazione di Torino.
La luna e i falò è epilogo e sintesi dei temi pavesiani. Il dialogo è tra Anguilla, il trovatello tornato, con qualche soldo in tasca, a Santo Stefano dopo aver percorso il mondo e Nuto che invece il suo viaggio lo ha fatto tra i borghi e la fiere: Coi colleghi di banda che istruiva lui sotto una tettoia il sabato sera alla Stazione, arrivavano sulla festa leggeri e spediti; poi per due tre giorni non chiudevano più la bocca né gli occhi via il clarino il bicchiere, via il bicchiere la forchetta, poi di nuovo il clarino, la cornetta, la tromba, poi un'altra mangiata, poi un'altra bevuta e l'assolo, poi la merenda, il cenone, la veglia fino al mattino*.
Ma ora Nuto ha lasciato le feste e il clarino, ha ripreso la bottega del padre e provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo*.
Nuto è uomo che riflette, che conosce i suoi simili e che sa cos'è vivere. Non si è mai tirato indietro, neanche quando la guerra civile è arrivata in quei posti. Per Anguilla è un fratello maggiore, una guida: A me piace parlare con Nuto; adesso siamo uomini e ci conosciamo; ma prima, ai tempi della Mora, del lavoro in cascina, lui che ha tre anni più di me sapeva già fischiare e suonare la chitarra, era cercato e ascoltato, ragionava coi grandi, con noi ragazzi, strizzava l'occhio alle donne*. E l'amico sorprende Anguilla che non è più il ragazzino di un tempo, spiegandogli adesso che la terra bisogna ascoltarla, che c'è del vero nel mito del falò che rigenera i campi.
Questa è nuova - dissi-. Allora credi anche nella luna? La luna -disse Nuto-, bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano*.
Anguilla ha scoperto crescendo che al di là di quelle colline c'è un mondo più grande; che nemmeno il mare è confine. Il piroscafo lo ha portato in America e lui l'ha attraversata, fino alle rive di un altro oceano. Ed è laggiù che ha deciso di tornare indietro: Ero arrivato in capo al mondo, sull'ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne*. Non a casa, perchè la sua casa non sa dove sia, ma nei luoghi dell'infanzia, in quello che appare come un tempo se non felice almeno di speranze e di possibilità: Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le colline di Canelli sono la porta del mondo*.
Ma il mondo visto con gli occhi di un ragazzo è scomparso con l'infanzia. Anguilla se ne accorge quando vede che i noccioli sulla collina di Gaminella sono stati tagliati. Non è che un dettaglio ma che sembra aprirgli gli occhi sulla realtà presente. Il casotto in cui aveva vissuto e ora occupato da gente ancora più misera. Valino, il mezzadro, sfoga la sua rabbia sulle donne e sul figlio. In Cinto, il ragazzino sciancato figlio del mezzadro, vede se stesso bambino: Cos'avrei dato per vedere il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba - adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo*.
Ma la storia finisce nel dramma, e un altro falò distrugge il casotto. Una possibile speranza rimane per Cinto che scampa al massacro e trova in Nuto un padre adottivo. Ad Anguilla non resta che una nuova partenza, un nuovo imbarco. Nella riva, degli uccelli facevano baccano e qualcuno svolava in libertà sulle viti. - Un fico me lo mangio,- dissi,- non fa più danno a nessuno-. Presi il fico, e riconobbi quel sapore*.
L'epilogo del libro è lasciato a Nuto che racconta la storia di Santa, la ragazza della Mora, spia dei fascisti, uccisa dai partigiani. Un altro falò che ha lasciato il segno sulle colline.
Sarà anche l'epilogo dell'opera narrativa di Cesare Pavese. Qualche mese dopo chiuderà il suo diario preannunciando il suicidio, il vizio assurdo che lo aveva accompagnato per troppo tempo: Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.**
*Cesare Pavese: La luna e i falo'
**Cesare Pavese: Il mestiere di vivere 

venerdì 13 dicembre 2013

Antonio Gramsci

Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l'uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell'umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, cosí bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po' di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Antonio Gramsci

domenica 10 novembre 2013

John Steinbeck: Furore (nuova traduzione)

L'anno scorso ho pubblicato un post per raccontare la mia scoperta di Furore di John Steinbeck: qui. Un libro sorprendente, inaudito nell'Italia fascista degli anni quaranta, sia per la forza della narrazione sia per lo stile, lontanissimo dal linguaggio spesso aulico ed evanescente della letteratura nostrana. Strano dicevo, che un'opera del genere fosse riuscita a passare tra le maglie della censura del Min.cul.pop. il famigerato ministero della cultura popolare.
Per più di settant'anni si è continuato a leggere la versione tradotta da Carlo Coardi, (tra l'altro sembra sia uno pseudonimo) pensando che fosse la buona. Essa è sopravvissuta al regime fascista finito da un pezzo. L'Italia è cambiata; certo non sono scomparsi i problemi di censura anche se quest'ultima è ormai più velata e subdola, ma insomma... Eppure il libro di Steinbeck è stato pubblicato e ripubblicato per tutto questo tempo sempre nella stessa versione.
Ecco quindi che la nuova presentazione del libro fatta dall'editore Bompiani, curata da Luigi Sampietro e con la traduzione di Sergio Claudio Perroni arriva come una piccola bomba: in pratica Perroni ci dice che quello che è stato letto fino ad oggi non è il romanzo scritto da John Steinbeck.
È il quotidiano La Repubblica (09/11/2013) che per primo ha diffuso la notizia.
Certo conoscevamo l'espressione consacrata: traduttore, traditore, ma in questo caso sembra che il proverbio debba essere preso alla lettera. Non si tratta solo di qualche parola scelta male o di qualche difetto di stile; tra la versione di Carlo Coardi e quella di Carlo Perroni c'è un fossato. Alla sua uscita, nonostante fosse già stato edulcorato da una mano pudibonda, Furore fu considerato dai suoi detrattori (Prezzolini tra tutti) alla stregua un romanzo pornografico.
La polemica fu aspra tanto che nel 1942 la censura bloccò una seconda edizione del libro che fu ristampato solo nel dopoguerra ma senza modifiche. Gli attuali curatori non hanno corretto soltanto qualche scelta linguistica discutibile, restituendo a Steinbeck il suo vocabolario (anche se tutto sommato, sottolinea Perroni, nel romanzo le parolacce sono pochissime). Carlo Coardi (o chi per lui) aveva stravolto completamente il senso di certe frasi, eliminato le referenze bibliche che avrebbero suscitato il prurito degli ambienti cattolici e soprattutto tagliato completamente passaggi chiave nella narrazione.
È quindi un nuovo romanzo quello che gli italiani non anglofoni hanno oggi a disposizione. Un testo ancora più dirompente, nella cui prosa il soffio epico è permanente, interpella e scuote il lettore.
Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare, io sarò là. Dove c’è uno sbirro che picchia, io sarò là.
Facile capire perché nell'Italia clericofascista del 1940 una frase come questa dovesse sparire.
Ecco quindi che un romanzo, che già nella sua forma edulcorata è stato ammirato da generazioni di lettori, torna alla ribalta, con duplicata potenza. Un ottima notizia ma che ci invita a riflettere ancora una volta sul ruolo del traduttore.

giovedì 24 ottobre 2013

Ennio Flaiano: Tempo di uccidere

Siamo nel 1947, l'Europa uscita dalla guerra comincia una lenta e difficile ricostruzione. L'Italia riscopre la democrazia dopo venti anni di regime totalitario. La prima assemblea eletta democraticamente sta scrivendo i principi della nuova Costituzione con faticosi compromessi tra l'area democristiana, uscita vincitrice dalle prime elezioni libere e quella di sinistra che vorrebbe dare più voce agli ideali di progresso sociale espressi dalla Resistenza.
Gli intellettuali progressisti sono animati dalla volontà di raccontare e di analizzare. Sotto l'impulso della scoperta degli scritti di Antonio Gramsci, il Neorealismo cerca, con non poche contraddizioni, uno sbocco progressista alla produzione culturale nel cinema e nella letteratura.
Anche Italo Calvino, altrove non molto sensibile alla tematica realista, dà alle stampe in quest'anno il suo romanzo della resistenza: Il sentiero dei nidi di ragno. Contemporaneamente Primo Levi, reduce dai campi di sterminio nazisti, racconta la sua drammatica esperienza personale in Se questo è un uomo.
È in questo contesto che, solo qualche mese prima di Calvino e Primo Levi, su un registro completamente differente, Ennio Flaiano pubblica il suo unico romanzo: Tempo di uccidere.
Meglio conosciuto per il suo lavoro di sceneggiatore (quasi tutti i film di Fellini, da La dolce vita a Giulietta degli spiriti ma anche La notte di Antonioni, I soliti ignoti di Monicelli e tanti altri), per il suo lavoro di giornalista e per i suoi efficaci aforismi, Flaiano tralascia per una volta l'ironia e il sarcasmo per una scrittura melanconica e amara.
Affronta un tema che per molti italiani apparteneva ormai ad un passato che avrebbero preferito dimenticare: la guerra d'Abissinia. Tra il 1935 e il 1936, c'era stata l'aggressione all'impero del Negus e sette mesi di combattimenti durante i quali l'esercito italiano non esita ad utilizzare (un terribile primato) le armi chimiche contro le popolazioni civili. Sette mesi dopo i quali il duce può proclamare la rinascita dell'impero sui colli fatali di Roma, con nelle vesti ben troppo larghe di nuovo cesare Vittorio Emanuele II.
Ed è proprio nel febbraio del 1947 che il trattato di Parigi mette fine, anche formalmente, allo stato di guerra con l'Etiopia.
Flaiano è nato nel 1910, la sua giovinezza è segnata dal fascismo. È un'epoca che lo ha marcato e della quale conserverà per il futuro scetticismo e disillusione. Non si occuperà mai direttamente di politica ma tra le due Chiese, la cattolica e la marxista, sceglie la terza via, quella di una visione laica della società e dell'impegno in essa. Quest'ultimo si esprime prevalentemente nel suo lavoro di giornalista, manifestando un rigetto della volgarizzazione della società stessa. Ma anche i film di cui scrive la sceneggiatura, per esempio La dolce vita, hanno sovente quest'impronta disincantata e senza illusioni.
Tempo di uccidere è lontano dalle tematiche realiste. Se vogliamo invece trovare spunti condivisi da altri scrittori dobbiamo probabilmente cercare tra gli esistenzialisti. In questo senso, essenziale è l'elemento della noia, del disadattamento sociale; non siamo lontani da Lo straniero di Camus. Il protagonista del romanzo è un tenente dell'esercito italiano che, soffrendo per un acuto mal di denti, parte con un camion alla ricerca di un dottore. Una serie di vicissitudini, a volte drammatiche, lo guidano in peripezie dalle quali sembra non trovare via di scampo. Gli avvenimenti, mai osservati in modo oggettivo ma sempre attraverso gli occhi del narratore protagonista, si susseguono senza che egli possa, o voglia, reagire. In un paesaggio di cartapesta, il protagonista, quasi un archetipo dell'antieroe, si perde in un mondo nel quale animali, alberi e rocce appaiono come ombre o silhouettes, quasi una scenografia teatrale dalla quale è impossibile districarsi. Due gruppi di personaggi si contrappongono: i militari, tra i quali è il protagonista e che sono tutti definiti dalla loro funzione: il tenente, il maggiore, il contrabbandiere, il dottore... di fronte sono gli etiopi che invece sono chiamati con il loro nome: Mariam, Johannes, Elias..., nomi dall'eco biblico. Centrale è il tema del tempo cronologico, presente lungo tutto il racconto. Al tempo lineare dei colonizzatori si contrappone l'atemporalità degli indigeni; il tenente perde il contatto con la realtà quando regala il suo orologio che si è fermato e prima di donarlo alla giovane etiope, lo fa ripartire ma a caso. Uscendo dal tempo reale, egli entra nel mondo degli africani. In un continuo susseguirsi di sentimenti contraddittori: rimorso, autogiustificazione, collera, paura della punizione, desiderio di espiazione e poi ancora rimorso, il protagonista è incatenato ad un circolo vizioso dal quale non riesce a sottrarsi. La guerra non è presente se non con le sue conseguenze: i cadaveri di uomini e muli, le capanne abbandonate o bruciate, gli impiccati e soprattutto con i suoi effetti sull'animo umano. È così esclusa ogni, seppur ipotetica, velleità eroica.
Lo scontro tra l'esercito dei colonizzatori e gli etiopi diventa contrapposizione tra l'Africa arcaica, nella quale gli elementi agiscono secondo le energie naturali e il mondo decadente e corruttore dei militari con i quali il contatto si fa attraverso un biglietto di sottomissione che deve essere presentato ad ogni incontro o attraverso il degrado della prostituzione. Tra gli italiani non ci sono personaggi positivi: bramosia di potere, di ricchezza, di possesso guidano le loro azioni. Il tenente segue un destino al quale non è capace di opporsi. L'accidia guida le sue azioni in un vano va e vieni di decisioni prese e poi procrastinate. Ogni scelta risulta sbagliata e lo invischia sempre più in uno stato di malessere fisico e morale. Il legame con il mondo si assottiglia sempre più. Le lettere della moglie, -anch'essa non ha nome ma è definita da un pronome: Lei- conservate in una tasca e rilette ogni tanto, perdono poco a poco la loro consistenza; l'inchiostro scolorisce, la carta della posta aerea diventa carta per sigarette. Con esse si spezza l'ultimo filo che lo legava alla sua vita precedente.
Nell'epilogo della storia anche la confessione delle proprie colpe è vana. Nessuno gli chiederà conto delle sue azioni, segno della prevaricazione su un popolo ma anche dell'inconsistenza di ogni agire umano. Mariam, vittima ignorata, è il simbolo dell'Africa intera: aggredita, sfruttata e dimenticata.