giovedì 1 gennaio 2015
Antonio Gramsci: Odio il capodanno
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e
dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e
il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno
perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce
per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di
continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e
ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può
ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date
fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel
cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi
capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età
moderna.E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci
sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia
incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che
l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando
in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che
impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa
linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al
cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce
abbarbagliante.Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un
capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi
ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le
scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un
tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse
nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio
a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non
mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc.,
dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà
nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna
risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno
le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio
d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
Avanti!, edizione torinese, 1 gennaio 1916
lunedì 29 dicembre 2014
Francesco Giuliani: Diario della guerra 1915-18
Nel
centenario dello scoppio della guerra 1914-1918, anche in Italia,
nazione che entrò nel conflitto l'anno seguente, si sono
moltiplicate le pubblicazioni e le iniziative per ricordare, in modo
più o meno pertinente, quel catastrofico avvenimento.
Sono
scomparsi ormai tutti i testimoni della carneficina. L'ultimo reduce
italo-francese, Lazzaro Ponticelli è morto nel 2008 alla veneranda
età di 110 anni, rifiutando, con un ultimo atto di intelligenza e di
coerenza, i funerali solenni (gli stavano preparando un posto al
Pantheon) che la Francia voleva attribuirgli: Non è giusto che
spettino solo all'ultimo sopravvissuto, facendo un affronto a tutti
gli altri che sono morti senza avere gli onori che meritavano. Non si
è fatto nulla per loro, anche un piccolo gesto sarebbe
stato sufficiente. Così Ponticelli, che, durante la seconda
guerra mondiale, aveva partecipato anche alla Resistenza, a dato uno
schiaffo morale ai maestri della retorica ufficiale. E,
a questo proposito,
non è inutile
sottolineare, in un'epoca di rigurgiti nazionalisti e
di xenofobia dilagante, il
fatto che l'ultimo soldato
poilu (così
erano chiamati i fanti francesi)
è stato un immigrato.Restano quindi, per raccontare il primo conflitto dell'era moderna gli scritti di memorialistica e di letteratura. Tra le iniziative più interessanti, possiamo ricordare la diffusione su Radio3 della lettura di alcuni tra i testi più importanti che hanno come argomento la cosiddetta “Grande guerra”. Un anno sull'altipiano, lucido e spietato resoconto dell'esperienza personale di Emilio Lussu, il magnifico e drammatico racconto La paura di Federico De Roberto, Addio alle armi di Ernest Hemingway, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.
Tutti questi scritti, lontanissimi dalla retorica guerriera, raccontano, pur con stili e approcci differenti, un universo di sofferenza e di desolazione. Denunciano l'incompetenza, l'ottusità e il cinismo di chi considerava la truppa come carne da macello, prendendo decisioni sconsiderate e mortifere, raccontano i barlumi di umanità che, malgrado il contesto, riescono a persistere tra i soldati nelle trincee.
Spesso però, ed è il caso per i titoli citati, il testimone è, se non uno scrittore di professione, un esponente del ceto agiato e colto, ed anche se il testo, come nel caso di Lussu, nasce dall'urgenza di smascherare la retorica della storia ufficiale, lo sguardo sulla moltitudine in gran parte contadina di quel popolo costretto a battersi per ragioni a lui oscure, resta, seppur comprensivo e benevolo, intriso di paternalismo.
È quindi importante ascoltare la voce di chi, pur amante della cultura, non era nato nella classe degli istruiti e che scrivendo aveva ancora i piedi nella terra di poveri campi coltivati con fatica e appoggiava il bastone sull'erba dei pascoli di montagna.
Si tratta di Francesco Giuliani, il poeta pastore abruzzese che, partito per il fronte del Carso nel 1915, tornò definitivamente sulle sue montagne natali solo nel 1919.
Su tre quaderni di scuola Francesco Giuliani ha raccontato la sua esperienza nelle trincee. Si tratta di un diario, del tutto personale, nel quale il primo bisogno imperioso è quello di attenersi al vero, anche a scapito dello stile letterario. Essenziale è raccontare i fatti, le piccole e grandi storie di quell'epopea, ricordare gli uomini conosciuti, coloro capaci di gesti eroici o di bassezze. Perché in un momento così estremo com'è la guerra, la natura umana è messa a nudo, svela ed evidenzia gli artifici e i sotterfugi. Ma, nonostante tutto, anche se il primo scopo è di dire il vero, per Francesco Giuliani la scrittura è un atto importante anche nella forma. La cura con cui teneva i suoi quaderni, la calligrafia precisa e diligente ne sono un sintomo. Colui che diceva di non voler essere un pastoraccio incolto, studiava, anche se da autodidatta, i classici della letteratura. Amava la poesia e quando scriveva pensava ai suoi modelli, soprattutto a Dante che citava con passione; non a caso il testo del suo diario alterna parti in prosa e parti in endecasillabi.
Lo scritto che ne risulta è il racconto delle sue vicissitudini e dei suoi sentimenti ma è anche una riflessione, un esame della condizione umana in un contesto tanto particolare, un'analisi delle responsabilità di chi provocò quella situazione drammatica.
Giovani baldi, coraggiosi e forti,
Per voi io piango in questa notte nera.
Eravate le più belle coorti
Ora qui siete un gran campo di morti.
Voi m'infondete in cor pena e timore
Se della pugna ancor dura il furore.
E qui veniste bei fiori a morire
Che si spengano un dì gli sdegni e l'ire.
Fummo menati a trar dei giorni amari
Disperando tornar nei patri lari.
Descritte non fur mai simili scene
Che non c'è da veder facce serene.
E qui non vive un cor senza timore
Delle pene tremende e del dolore
Placar non si potrà mai tanto sdegno
Che lascia ovunque delle stragi il segno.
Francesco Giuliani scrive per se stesso ma, forse fin dall'inizio, voleva che la sua storia trovasse altri lettori. Quest'idea si rafforza soprattutto dopo che nel 1961 l'etnologa Annabella Rossi fa conoscere il lavoro del poeta pastore e pubblica alcuni estratti del Diario nella rivista Il Contemporaneo, valutando e suggerendo una pubblicazione integrale dell'opera. Ci fu poi, nel 1992, un'altra parziale pubblicazione nell'antologia di scritti di Giuliani Se ascoltar vi piace, curata da Maurizio Gentile qui ma l'edizione completa del testo dovrà aspettare ancora una decina di anni.
Infatti
quest'ultimo progetto vedrà
la luce solo nel 2001 grazie al sostanziale contributo della Regione
Abruzzo, dell'Amministrazione Comunale di Castel del Monte e dei
familiari dell'autore.
L'edizione
critica, curata da Paolo Muzi, è completata dalla
raccolta di lettere che il pastore aveva
inviato dal fronte alla
moglie Cesidia. L'epistolario era stato copiato dallo stesso su due
altri quaderni, edulcorato
dai saluti ai familiari, segno
della volontà di farne una componente della sua opera letteraria. Le
lettere, scritte evidentemente “a caldo” serviranno più tardi da
base, insieme
agli appunti presi su un quaderno al fronte,
per la stesura del Diario,
composto (il periodo preciso è sconosciuto) probabilmente a partire
dagli anni Cinquanta. E la
lettura delle lettere,
parallela a quella del diario permette anche una messa in prospettiva
del testo di quest'ultimo,
arricchendolo di riflessioni
teoriche pertinenti
e ben definite,
sottolineando
la precisa coscienza morale di Francesco Giuliani:Sono contento che si fanno poche istruzioni, e perché io le credo inutili mi riescono sempre incresciose. Io non sono dotato di spirito guerriero, non amo la vita comoda, ma tranquilla, e per questo non voglio che mi si insegni come si fa ad assalire una trincea e nemmeno a puntare il fucile, quando il bersaglio da colpire è un uomo.
Fino a che vi saranno uomini ambiziosi e da tanto a tener vivo l'odio tra i popoli, ed altri occupati soltanto a creare mezzi di distruzione, l'umanità intera non avrà mai pace*.
Parole che oggi suonano profetiche e di un'attualità cocente.
*Lettera
del 20 marzo 1916
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giovedì 25 dicembre 2014
Bertold Brecht: Tebe dalle sette porte
Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante vicende.
Tante domande.
martedì 4 novembre 2014
O Gorizia tu sei maledetta
Riprendo e mi associo al post pubblicato dal blog Vento largo qui :
La più bella e
autentica canzone di trincea. Non si conosce l'autore, probabilmente
non c'è. Nacque spontaneamente fra i soldati stanchi di un macello
insensato. Cantarla in pubblico ancora negli anni '60 comportava la
denuncia per vilipendio delle Forze Armate. Oggi, chissà? Questo è
il nostro 4 novembre.
O Gorizia tu sei maledetta
La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì
Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:
O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir
Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì
Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor
Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
E rovina della gioventù
O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì
Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:
O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu
O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir
Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì
Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor
Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
E rovina della gioventù
O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.
sabato 25 ottobre 2014
Il Mare del Nord, autunno
Il lungomare si da arie di vacanza. La gente passeggia, pedala o corre sulla lunghissima diga frangiflutti che si affaccia sulla spiaggia. Ma dal mare, verso le coste inglesi, accorrono nuvole grigie e per qualche ora coprono il cielo. Fanno da schermo al sole che, da sud, arriva ancora caldo, accentuano, come un immenso riflettore, i contrasti e saturano i colori.
Una
strana processione si allunga nelle acque già fredde del mare del
Nord. Da lontano sembra un branco di foche. Sono i praticanti la
longe-côte (letteralmente lungo la costa).
Evidentemente bisogna che il sito si presti alla pratica: il fondo deve essere abbastanza regolare e sabbioso. Che piova o che ci sia vento, d'estate come d'inverno, gli appassionati si danno appuntamento una o due volte a settimana e si immergono nell'acqua per la loro tonica "passeggiata".
Nata come allenamento per i canottieri dei club sportivi, la longe côte si è diffusa come attività a se stante e attira numerosi (e numerose) praticanti longeurs, in generale non giovanissimi, di età media tra i quaranta e i sessant'anni. Il gruppo si allunga e si allontana seguendo la lunghissima spiaggia, resa ancora più grande dalla bassa marea.

Di Wissant (Guizzante) parla, con Bruges, Dante Alighieri nel XV canto dell'Inferno, paragonandone gli argini a quelli del Flegetonte:
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
Ma
in questi ultimi anni la lotta tra uomini e mare ha messo a
repentaglio le costruzioni più vicine alla riva.
Si è dovuto
costruire rapidamente un nuovo argine fatto di grossi macigni per
attutire l'impeto delle tempeste.Decine e decine di grandi aquiloni colorano il panorama.
mercoledì 15 ottobre 2014
Gabriele D'Annunzio: La pioggia nel pineto
Difficile
da difendere la figura di Gabriele D'Annunzio. Troppo impantanata
nella retorica umbertina e poi fascista. Il poeta vate
costruì la sua immagine sentenziosa e pomposa sulle insicure
fondamenta di un'Italia provinciale e piccolo borghese; volle
edificare la sua vita come un'opera d'arte. Fu con questa idea che,
colui che si pavoneggierà con il titolo di Principe di
montenevoso, immaginò le sue
azioni eroiche, dal
volo su Vienna nel 1918 all'impresa di Fiume; con questo spirito
addobbò la villa che aveva assunto a dimora sulle rive del Garda
quando la trasformò in un monumento alla sua gloria e la ribattezzò
Vittoriale degli Italiani.
D'Annunzio
è cosiderato, con Pascoli, il massimo esponente del Decadentismo
italiano. Ma la declinazione nostrana di quella corrente artistica
era in definitiva in un tono assai minore rispetto al grande
movimento letterario europeo che aveva espresso sulla scia di
Baudelaire, con Verlaine, Mallarmé o Rimbaud tematiche ben più
ricche e profonde.
In
particolare, nel poeta pescarese, la facciata dell'edificio poetico
appare spesso di cartapesta, la foga retorica svela un che di stantio
e di artefatto. Pensiamo alla celebre invocazione con cui chiude la
poesia dedicata alla transumanza delle genti d'Abruzzo: Ah perché
non son io co' miei pastori? Qualcuno gli fece giustamente notare
che forse era semplicamente perché preferiva le ville della Versilia
o Montecarlo alle montagne abruzzesi.
Accade
però che, abbandonati gli artifici, l'opera d'annunziana mostri il
suo aspetto più convincente. Perché, malgrado tutto, D'Annunzio
poeta lo è davvero. È il caso per esempio di Notturno.
Scritto su striscioline di carta con gli occhi bendati dopo un grave
incidente aereo che lo aveva reso momentaneamente cieco e nel quale
il suo compagno di volo era morto, questa prosa lirica tralascia la
retorica grandiloquente e assume un tono che appare più sincero e
personale.
Aegri somnia.
Ho gli occhi bendati.Aegri somnia.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d′ogni luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata.
Imparo un′arte nuova.
Ma
anche nella raccolta Alcyone troviamo qualche momento di vera
poesia. È il caso della celeberrima La pioggia nel pineto.
Dedicata ad Eleonora Duse, -l'Ermione del canto- questa lirica
in versi liberi fu composta in Versilia nel 1902. La maestria con la
quale il poeta utilizza les figure retoriche e quelle di stile
raramente appare così poco forzata e ha come risultato un sorgere di
immagini, di odori e di suoni che ci immergono in quell'universo
naturale. Ad essa si potrebbe associare la celebre definizione che
Pascoli aveva dato dell'arte poetica: uno sguardo vergine sulle
cose.
Dimenticando
per un istante le reminiscenze scolastiche e l'autocaricatura
dannunziana possiamo inoltrarci tra gli alberi di quel mondo fuori
dal tempo nel quale la natura parla, respira, vive. Non è forse
usurpata per questa lirica la definizione che il critico Walter Binni
diede della nuova poesia: pura atmosfera musicale che porta
l'eco di un nuovo e misterioso mondo ignoto agli antichi.
Taci.
Su le soglie
del
bosco non odo
parole
che dici
umane;
ma odo
parole
più nuove
che
parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta.
Piove
dalle
nuvole sparse.
Piove
su le tamerici
salmastre
ed arse,
piove
su i pini
scagliosi
ed irti,
piove
su i mirti
su
le ginestre fulgenti
di
fiori accolti,
su
i ginepri folti
di
coccole aulenti,
piove
su i nostri volti
silvani,
piove
su le nostre mani
ignude,
su
i nostri vestimenti
leggieri,
su
i freschi pensieri
che
l’anima schiude
novella,
su
la favola bella
t’illuse,
che oggi m’illude,
o
Ermione.
Odi?
La pioggia cade
su
la solitaria
verdura
con
un crepitìo che dura
e
varia nell’aria
secondo
le fronde
più
rade, men rade.
Ascolta.
Risponde
al
pianto il canto
delle
cicale
che
il pianto australe
non
impaura,
né
il ciel cinerino.
E
il pino
ha
un suono, e il mirto
altro
suono, e il ginepro
altro
ancora, stromenti
sotto
innumerevoli dita.
E
immersi
noi
siam nello spirto
silvestre,
d’arborea
vita viventi;
e
il tuo volto ebro
è
molle di pioggia
come
una foglia,
e
le tue chiome
le
chiare ginestre,
o
creatura terrestre
che
hai nome
Ermione.
Ascolta,
ascolta. L’accordo
delle
aeree cicale
a
poco a poco
più
sordo
si
fa sotto il pianto
che
cresce;
ma
un canto vi si mesce
più
roco
che
di laggiù sale,
dall’umida
ombra remota.
Più
sordo, e più fioco
s’allenta,
si spegne.
Sola
una nota
ancor
trema, si spegne,
risorge,
trema, si spegne.
Non
s’ode voce dal mare.
Or
s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea
pioggia
che
monda,
il
croscio che varia
secondo
la fronda
più
folta, men folta.
Ascolta.
La
figlia dell’aria
del
limo lontana,
la
rana,
canta
nell’ombra più fonda,
chi
sa dove, chi sa dove!
E
piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove
su le tue ciglia nere
sì
che par tu pianga
ma
di piacere; non bianca
ma
quasi fatta virente,
par
da scorza tu esca.
E
tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il
cuor nel petto è come pesca
tra
le pàlpebre gli occhi
son
come polle tra l’erbe,
i
denti negli alveoli
son
come mandorle acerbe.
E
andiam di fratta in fratta,
or
congiunti or disciolti
(e
il verde vigor rude
ci
allaccia i malleoli
c’intrica
i ginocchi)
chi
sa dove, chi sa dove!
E
piove su i nostri volti
silvani,
piove
su le nostre mani
ignude,
leggieri,
su
i freschi pensieri
che
l’anima schiude
novella,
su
la favola bella
che
ieri
m’illuse,
che oggi t’illude,
o
Ermione.
sabato 4 ottobre 2014
Ernest Hemingway: l'Abruzzo in Addio alle Armi
-Devo proprio andare.-Disse
-Posso esserle utile in qualcosa? - Chiese, pieno di speranza.
-No, solo per chiacchierare.
-Porterò i suoi saluti alla mensa.
-Grazie per tutti questi bei regali.
-Niente.
-Ritorni a trovarmi.
-Sì. Arrivederci.
Mi batté sulla mano.
-Ciao. -Dissi in dialetto- Ciao -Ripeté
Era buio nella stanza e l'attendente che era rimasto seduto ai piedi del letto si alzò e uscì con lui. Gli volevo molto bene e speravo che una volta o l'altra potesse ritornare negli Abruzzi. Faceva una porcheria di vita alla mensa e la sopportava bene ma pensavo a come sarebbe stato al suo paese. A Capracotta, mi aveva detto, c'erano le trote nel torrente sotto la città; era proibito suonare il flauto la notte, quando i giovanotti facevano le serenate. Soltanto il flauto era proibito. Perché? Avevo chiesto. Perché alle ragazze non faceva bene udire il flauto di notte. I contadini chiamano tutti Don e quando incontrano qualcuno si tolgono il cappello. Suo padre andava a caccia ogni giorno e si fermava a mangiare nelle case dei contadini. Per loro era sempre un onore. Uno straniero, per cacciare, deve presentare un certificato che non è mai stato arrestato. C'erano gli orsi sul Gran Sasso d'Italia, ma era lontano. Aquila era una bella città. D'estate la notte faceva fresco e la primavera degli Abruzzi era la più bella d'Italia, ma quel che era bello era l'autunno, per andare a caccia nei boschi di castagni. Gli uccelli erano tutti buoni perché si nutrivano d'uva e non c'era mai bisogno di preparare una colazione perché i contadini erano sempre onorati, si mangiava in casa loro.
Dopo un po' mi addormentai.
-Posso esserle utile in qualcosa? - Chiese, pieno di speranza.
-No, solo per chiacchierare.
-Porterò i suoi saluti alla mensa.
-Grazie per tutti questi bei regali.
-Niente.
-Ritorni a trovarmi.
-Sì. Arrivederci.
Mi batté sulla mano.
-Ciao. -Dissi in dialetto- Ciao -Ripeté
Era buio nella stanza e l'attendente che era rimasto seduto ai piedi del letto si alzò e uscì con lui. Gli volevo molto bene e speravo che una volta o l'altra potesse ritornare negli Abruzzi. Faceva una porcheria di vita alla mensa e la sopportava bene ma pensavo a come sarebbe stato al suo paese. A Capracotta, mi aveva detto, c'erano le trote nel torrente sotto la città; era proibito suonare il flauto la notte, quando i giovanotti facevano le serenate. Soltanto il flauto era proibito. Perché? Avevo chiesto. Perché alle ragazze non faceva bene udire il flauto di notte. I contadini chiamano tutti Don e quando incontrano qualcuno si tolgono il cappello. Suo padre andava a caccia ogni giorno e si fermava a mangiare nelle case dei contadini. Per loro era sempre un onore. Uno straniero, per cacciare, deve presentare un certificato che non è mai stato arrestato. C'erano gli orsi sul Gran Sasso d'Italia, ma era lontano. Aquila era una bella città. D'estate la notte faceva fresco e la primavera degli Abruzzi era la più bella d'Italia, ma quel che era bello era l'autunno, per andare a caccia nei boschi di castagni. Gli uccelli erano tutti buoni perché si nutrivano d'uva e non c'era mai bisogno di preparare una colazione perché i contadini erano sempre onorati, si mangiava in casa loro.
Dopo un po' mi addormentai.
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