La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 28 febbraio 2015

Herman Melville: Moby Dick tra Pavese e Giono

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa, - non importa esattamente quanti, - avendo poco o punto denaro nella mia borsa e nulla di particolare che mi trattenesse a terra, pensai di andarmene navigando un poco in giro a vedere la parte del mondo coperta dalle acque. È questo un modo che uso per scacciare l'umor nero e per regolare la circolazione. Quando m'accorgo che mi si va formando una piega arcigna intorno alla bocca; quando nel mio animo v'è un umido piovigginoso novembre, quando mi vedo involontariamente sostare davanti ai negozi di casse da morto e mettermi in coda ad ogni funerale in cui mi imbatto, e specialmente quando l'ipocondria prende un tale sopravvento su di me, che io debba ricorrere ad un forte principio morale per impedirmi di scendere deliberatamente in strada per far regolarmente volar via dalla testa della gente il cappello; allora giudico che sia gran tempo di andar per mare quanto più presto possibile. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola.*
È uno degli incipit plus famosi della letteratura. Famoso a giusto titolo, e magnifico, con quella entrata così secca e concisa, in due parole. Un narratore che in realtà non si presenta, non ci dice chi è ma solo come vuole essere chiamato. E il riferimento biblico immediatamente ci trasporta nell'universo del mito e dei simboli: Ismaele, è il figlio illegittimo di Abramo, colui che troverà da solo la forza per sopravvivere nel deserto. Poi, dopo questa stoccata, l'attacco si srotola con il succedersi di onde portate dal ripetersi del quando in anafora. Sembra già di essere in alto mare. Una musicalità straordinaria; difficile dirne qualcosa di originale tanto gli studiosi ne hanno scandagliato la prosa, si corre il rischio, è evidente, di scadere nella banalità del commento.
Moby Dick è un libro mondo, dai molteplici livelli di lettura. Ognuno può scegliere il proprio: romanzo d'avventura, riflessione metafisica, analisi psicologica dell'animo umano… Ma ogni volta il lettore attento, preso nelle vicende del Pequod, si renderà conto che il libro non è solo questo.

Leggete Melville, -ci consiglia Cesare Pavese- che non si vergogna di cominciare Moby Dick, il poema della vita barbara, con otto pagine di citazioni, e di andare innanzi discutendo, citando ancora, facendo il letterato, e vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e più uomo.
Ed in effetti Melville non ha paura di cominciare con una pagina sull'etimologia della parola whale, con una serie di estratti, raccolti da un sostituto sostituto bibliotecario, di sospendere la narrazione per inserire un trattato di cetologia; di intercalare passaggi di scrittura teatrale.
Dice Agostino Lombardo, -che è stato uno dei maggiori studiosi italiani della letteratura anglosassone-, nella sua prefazione all'edizione De Agostini dell'opera: Riesce persino difficile usare il termine romanzo, perché Moby Dyck si carica di elementi di narrativa e tragedia, poema in prosa e oratoria, allegoria dell'uomo alla ricerca di se stresso ed esplorazione del mistero.
Pavese è stato il primo traduttore italiano di Moby Dick. Erano gli anni del fascismo autarchico, interessarsi alla letteratura americana era di per sé un atto rivoluzionario. E negli stessi anni Trenta lo scrittore Jean Giono fa un simile lavoro in francese. Pavese e Giono, entrambi poeti della Collina, le Langhe per il primo, quelle della Provenza per il secondo. I due scrittori sono affascinati dall'epopea della balena bianca, la leggono e traducono nello stesso periodo. E in entrambi il paesaggio collinare diventa metafora dei mari ondeggianti, dei grandi spazi, dei mondi lontani. Giono scriverà anche un libro: “Pour saluer Melville” omaggio empatico allo lo scrittore americano:
La traduzione di Moby Dick di Herman Melville […], cominciata il 16 novembre 1936 è stata terminata il 10 dicembre 1939. Ma ben prima di cominciare questo lavoro, per almeno cinque o sei anni, il libro è stato il mio compagno forestiero. Lo portavo regolarmente con me nei miei giri sulle colline. Così in momenti in cui spesso abbordavo le grandi solitudini, ondulate come il mare ma immobili, bastava che mi sedessi, la schiena contro il tronco di un pino, che tirassi fuori dalla tasca il libro che già sciabordava per sentire gonfiarsi sotto di me e attorno la molteplice vita dei mari. Quante volte, sul mio capo, ho sentito fischiare il cordame, la terra muoversi sotto i miei piedi come le assi di una baleniera, il tronco del pino gemere e ondulare contro la mia schiena come un albero di nave, pesante di vele sventolanti. Alzando gli occhi dalla pagina, mi è sovente sembrato che Moby Dick soffiasse laggiù davanti, al di là della schiuma degli ulivi, nel ribollire delle grandi querce.***
In Pavese la relazione al mare è più complessa. Esso è presente, ma più immaginato che reale, un altrove mitico, al di là dell'ultima collina, dove i treni arrivano nei porti e le navi fanno continuare il viaggio. Perché per lui quello marino è nella realtà un universo se non ostile, desolato, come quello di Brancaleone Calabro dov'era stato in confino: Il mare, già antipatico d'estate, d'inverno poi è innominabile: alla sera tutto giallo di sabbia smossa; al largo, d'un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli altri.** Ed ancora in una lettera ad Augusto Monti: Lei sa come odi il mare; mi piace nuotare però mi serviva molto meglio il Po. Ma a parte il nuotare, che del resto è già finito, trovo indegno della gravità di uno spirito contemplativo quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte odore di pesce.**
Ma quando come in Melville il mare è impeto e tempesta, quando le onde sono come colline, il discorso cambia. La lotta epica del capitano Ahab e del suo equipaggio assume i toni di un mito che sorge dal mondo antico, atemporale e grandioso. Mito che ispira anche il Pavese poeta. In una delle sue poesie più belle: I mari del sud, troviamo una scena che ricorda da vicino la storia della balena bianca.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.


*Herman Melville Moby Dick Traduzione di Renato Ferrari Ed; De Agostini
**Citato da Muriel Gallot Pavese: paese e paesaggio.
***Jean Giono Pour saluer Melville Ed. Gallimard





giovedì 1 gennaio 2015

Antonio Gramsci: Odio il capodanno

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
Avanti!, edizione torinese, 1 gennaio 1916

lunedì 29 dicembre 2014

Francesco Giuliani: Diario della guerra 1915-18

Nel centenario dello scoppio della guerra 1914-1918, anche in Italia, nazione che entrò nel conflitto l'anno seguente, si sono moltiplicate le pubblicazioni e le iniziative per ricordare, in modo più o meno pertinente, quel catastrofico avvenimento.
Sono scomparsi ormai tutti i testimoni della carneficina. L'ultimo reduce italo-francese, Lazzaro Ponticelli è morto nel 2008 alla veneranda età di 110 anni, rifiutando, con un ultimo atto di intelligenza e di coerenza, i funerali solenni (gli stavano preparando un posto al Pantheon) che la Francia voleva attribuirgli: Non è giusto che spettino solo all'ultimo sopravvissuto, facendo un affronto a tutti gli altri che sono morti senza avere gli onori che meritavano. Non si è fatto nulla per loro, anche un piccolo gesto sarebbe stato sufficiente. Così Ponticelli, che, durante la seconda guerra mondiale, aveva partecipato anche alla Resistenza, a dato uno schiaffo morale ai maestri della retorica ufficiale. E, a questo proposito, non è inutile sottolineare, in un'epoca di rigurgiti nazionalisti e di xenofobia dilagante, il fatto che l'ultimo soldato poilu (così erano chiamati i fanti francesi) è stato un immigrato.
Restano quindi, per raccontare il primo conflitto dell'era moderna gli scritti di memorialistica e di letteratura. Tra le iniziative più interessanti, possiamo ricordare la diffusione su Radio3 della lettura di alcuni tra i testi più importanti che hanno come argomento la cosiddetta “Grande guerra”. Un anno sull'altipiano, lucido e spietato resoconto dell'esperienza personale di Emilio Lussu, il magnifico e drammatico racconto La paura di Federico De Roberto, Addio alle armi di Ernest Hemingway, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque.
Tutti questi scritti, lontanissimi dalla retorica guerriera, raccontano, pur con stili e approcci differenti, un universo di sofferenza e di desolazione. Denunciano l'incompetenza, l'ottusità e il cinismo di chi considerava la truppa come carne da macello, prendendo decisioni sconsiderate e mortifere, raccontano i barlumi di umanità che, malgrado il contesto, riescono a persistere tra i soldati nelle trincee.
Spesso però, ed è il caso per i titoli citati, il testimone è, se non uno scrittore di professione, un esponente del ceto agiato e colto, ed anche se il testo, come nel caso di Lussu, nasce dall'urgenza di smascherare la retorica della storia ufficiale, lo sguardo sulla moltitudine in gran parte contadina di quel popolo costretto a battersi per ragioni a lui oscure, resta, seppur comprensivo e benevolo, intriso di paternalismo.
È quindi importante ascoltare la voce di chi, pur amante della cultura, non era nato nella classe degli istruiti e che scrivendo aveva ancora i piedi nella terra di poveri campi coltivati con fatica e appoggiava il bastone sull'erba dei pascoli di montagna.
Si tratta di Francesco Giuliani, il poeta pastore abruzzese che, partito per il fronte del Carso nel 1915, tornò definitivamente sulle sue montagne natali solo nel 1919.
Su tre quaderni di scuola Francesco Giuliani ha raccontato la sua esperienza nelle trincee. Si tratta di un diario, del tutto personale, nel quale il primo bisogno imperioso è quello di attenersi al vero, anche a scapito dello stile letterario. Essenziale è raccontare i fatti, le piccole e grandi storie di quell'epopea, ricordare gli uomini conosciuti, coloro capaci di gesti eroici o di bassezze. Perché in un momento così estremo com'è la guerra, la natura umana è messa a nudo, svela ed evidenzia gli artifici e i sotterfugi. Ma, nonostante tutto, anche se il primo scopo è di dire il vero, per Francesco Giuliani la scrittura è un atto importante anche nella forma. La cura con cui teneva i suoi quaderni, la calligrafia precisa e diligente ne sono un sintomo. Colui che diceva di non voler essere un pastoraccio incolto, studiava, anche se da autodidatta, i classici della letteratura. Amava la poesia e quando scriveva pensava ai suoi modelli, soprattutto a Dante che citava con passione; non a caso il testo del suo diario alterna parti in prosa e parti in endecasillabi.
Lo scritto che ne risulta è il racconto delle sue vicissitudini e dei suoi sentimenti ma è anche una riflessione, un esame della condizione umana in un contesto tanto particolare, un'analisi delle responsabilità di chi provocò quella situazione drammatica.


Lasciaste qui la vita innanzi sera
Giovani baldi, coraggiosi e forti,
Per voi io piango in questa notte nera.


Eravate le più belle coorti
Nuove alla pugna e scevre di livore,
Ora qui siete un gran campo di morti.


Voi m'infondete in cor pena e timore
Che forse un giorno vi potrò seguire
Se della pugna ancor dura il furore.


E qui veniste bei fiori a morire
E dato non vi fu il perché sapere
Che si spengano un dì gli sdegni e l'ire.


Fummo menati a trar dei giorni amari
In questo inferno di tormenti e pene
Disperando tornar nei patri lari.


Descritte non fur mai simili scene
Di tante strage e di cotanto orrore
Che non c'è da veder facce serene.


E qui non vive un cor senza timore
Perché è questo della morte il regno
Delle pene tremende e del dolore


Placar non si potrà mai tanto sdegno
Contro chi volle questa guerra immane
Che lascia ovunque delle stragi il segno.


Francesco Giuliani scrive per se stesso ma, forse fin dall'inizio, voleva che la sua storia trovasse altri lettori. Quest'idea si rafforza soprattutto dopo che nel 1961 l'etnologa Annabella Rossi fa conoscere il lavoro del poeta pastore e pubblica alcuni estratti del Diario nella rivista Il Contemporaneo, valutando e suggerendo una pubblicazione integrale dell'opera. Ci fu poi, nel 1992, un'altra parziale pubblicazione nell'antologia di scritti di Giuliani Se ascoltar vi piace, curata da Maurizio Gentile qui ma l'edizione completa del testo dovrà aspettare ancora una decina di anni.

Infatti quest'ultimo progetto vedrà la luce solo nel 2001 grazie al sostanziale contributo della Regione Abruzzo, dell'Amministrazione Comunale di Castel del Monte e dei familiari dell'autore.
L'edizione critica, curata da Paolo Muzi, è completata dalla raccolta di lettere che il pastore aveva inviato dal fronte alla moglie Cesidia. L'epistolario era stato copiato dallo stesso su due altri quaderni, edulcorato dai saluti ai familiari, segno della volontà di farne una componente della sua opera letteraria. Le lettere, scritte evidentemente “a caldo” serviranno più tardi da base, insieme agli appunti presi su un quaderno al fronte, per la stesura del Diario, composto (il periodo preciso è sconosciuto) probabilmente a partire dagli anni Cinquanta. E la lettura delle lettere, parallela a quella del diario permette anche una messa in prospettiva del testo di quest'ultimo, arricchendolo di riflessioni teoriche pertinenti e ben definite, sottolineando la precisa coscienza morale di Francesco Giuliani:
Sono contento che si fanno poche istruzioni, e perché io le credo inutili mi riescono sempre incresciose. Io non sono dotato di spirito guerriero, non amo la vita comoda, ma tranquilla, e per questo non voglio che mi si insegni come si fa ad assalire una trincea e nemmeno a puntare il fucile, quando il bersaglio da colpire è un uomo.
Fino a che vi saranno uomini ambiziosi e da tanto a tener vivo l'odio tra i popoli, ed altri occupati soltanto a creare mezzi di distruzione, l'umanità intera non avrà mai pace*.
Parole che oggi suonano profetiche e di un'attualità cocente.

*Lettera del 20 marzo 1916

giovedì 25 dicembre 2014

Bertold Brecht: Tebe dalle sette porte


Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?
Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?
Babilonia tante volte distrutta,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono i muratori, la sera che terminarono
la Grande Muraglia?
La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
nella notte che il mare li inghiottì, affogarono
implorando aiuto dai loro schiavi. 

Il giovane Alessandro conquistò l'India.
Lui solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
vinse oltre a lui? 

Ogni pagina una vittoria.
Chi cucinò la cena della vittoria? 

Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?

Tante vicende.
Tante domande.

martedì 4 novembre 2014

O Gorizia tu sei maledetta

 Riprendo e mi associo al post pubblicato dal blog Vento largo qui :
La più bella e autentica canzone di trincea. Non si conosce l'autore, probabilmente non c'è. Nacque spontaneamente fra i soldati stanchi di un macello insensato. Cantarla in pubblico ancora negli anni '60 comportava la denuncia per vilipendio delle Forze Armate. Oggi, chissà? Questo è il nostro 4 novembre.

O Gorizia tu sei maledetta


La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì

Sotto l'acqua che cadeva a rovesci
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir

Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì

Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor

Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
E rovina della gioventù

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.

sabato 25 ottobre 2014

Il Mare del Nord, autunno

Malo plage. Non lontano, ad ovest, la città di Dunkerque si allunga fino alla zona industriale dove le ciminiere degli altiforni si innalzano con i perenni pennacchi di fumo.
Qui invece l'ambiente è meno severo. E il mese d'ottobre assomiglia ad un'estate fuori tempo.
Il lungomare si da arie di vacanza. La gente passeggia, pedala o corre sulla lunghissima diga frangiflutti che si affaccia sulla spiaggia. Ma dal mare, verso le coste inglesi, accorrono nuvole grigie e per qualche ora coprono il cielo. Fanno da schermo al sole che, da sud, arriva ancora caldo, accentuano, come un immenso riflettore, i contrasti e saturano i colori.

Una strana processione si allunga nelle acque già fredde del mare del Nord. Da lontano sembra un branco di foche. Sono i praticanti la longe-côte (letteralmente lungo la costa).
Vestiti con tute e scarpette di neoprene, alcuni armati di pagaia, gli adepti di questa disciplina camminano come per un'escursione. La differenza è che lo fanno con l'acqua fino al petto.

Evidentemente bisogna che il sito si presti alla pratica: il fondo deve essere abbastanza regolare e sabbioso. Che piova o che ci sia vento, d'estate come d'inverno, gli appassionati si danno appuntamento una o due volte a settimana e si immergono nell'acqua per la loro tonica "passeggiata".
Nata come allenamento per i canottieri dei club sportivi, la longe côte si è diffusa come attività a se stante e attira numerosi (e numerose) praticanti longeurs, in generale non giovanissimi, di età media tra i quaranta e i sessant'anni. Il gruppo si allunga e si allontana seguendo la lunghissima spiaggia, resa ancora più grande dalla bassa marea.

Nel pomeriggio siamo un po' più a ovest, a Wissant, tra Calais e Boulogne. Il sole è più brillante, il vento ha spazzato le nuvole ma le raffiche sono a tratti abbastanza violente.
Il tradizionale paesino di pescatori è ormai solo un ricordo ed il borgo è diventato una località turistica, piccola ma apprezzata.
Di Wissant (Guizzante) parla, con Bruges, Dante Alighieri nel XV canto dell'Inferno, paragonandone gli argini a quelli del Flegetonte:

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
 
Ma in questi ultimi anni la lotta tra uomini e mare ha messo a repentaglio le costruzioni più vicine alla riva.
Si è dovuto costruire rapidamente un nuovo argine fatto di grossi macigni per attutire l'impeto delle tempeste.
Anche qui una lunghissima spiaggia tra Cap Gris-Nez (il promontorio che segna il limite tra Manica e mare del Nord) e Cap Blanc-Nez.
Qui si pratica il kitesurf. Anche questa un'attività non di tutto riposo. Si tratta di farsi trascinare dal vento su una tavola da surf.

Decine e decine di grandi aquiloni colorano il panorama.

mercoledì 15 ottobre 2014

Gabriele D'Annunzio: La pioggia nel pineto

Difficile da difendere la figura di Gabriele D'Annunzio. Troppo impantanata nella retorica umbertina e poi fascista. Il poeta vate costruì la sua immagine sentenziosa e pomposa sulle insicure fondamenta di un'Italia provinciale e piccolo borghese; volle edificare la sua vita come un'opera d'arte. Fu con questa idea che, colui che si pavoneggierà con il titolo di Principe di montenevoso, immaginò le sue azioni eroiche, dal volo su Vienna nel 1918 all'impresa di Fiume; con questo spirito addobbò la villa che aveva assunto a dimora sulle rive del Garda quando la trasformò in un monumento alla sua gloria e la ribattezzò Vittoriale degli Italiani.

D'Annunzio è cosiderato, con Pascoli, il massimo esponente del Decadentismo italiano. Ma la declinazione nostrana di quella corrente artistica era in definitiva in un tono assai minore rispetto al grande movimento letterario europeo che aveva espresso sulla scia di Baudelaire, con Verlaine, Mallarmé o Rimbaud tematiche ben più ricche e profonde.

In particolare, nel poeta pescarese, la facciata dell'edificio poetico appare spesso di cartapesta, la foga retorica svela un che di stantio e di artefatto. Pensiamo alla celebre invocazione con cui chiude la poesia dedicata alla transumanza delle genti d'Abruzzo: Ah perché non son io co' miei pastori? Qualcuno gli fece giustamente notare che forse era semplicamente perché preferiva le ville della Versilia o Montecarlo alle montagne abruzzesi.

Accade però che, abbandonati gli artifici, l'opera d'annunziana mostri il suo aspetto più convincente. Perché, malgrado tutto, D'Annunzio poeta lo è davvero. È il caso per esempio di Notturno. Scritto su striscioline di carta con gli occhi bendati dopo un grave incidente aereo che lo aveva reso momentaneamente cieco e nel quale il suo compagno di volo era morto, questa prosa lirica tralascia la retorica grandiloquente e assume un tono che appare più sincero e personale. 
Aegri somnia.
Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d′ogni luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata.
Imparo un′arte nuova.

Ma anche nella raccolta Alcyone troviamo qualche momento di vera poesia. È il caso della celeberrima La pioggia nel pineto. Dedicata ad Eleonora Duse, -l'Ermione del canto- questa lirica in versi liberi fu composta in Versilia nel 1902. La maestria con la quale il poeta utilizza les figure retoriche e quelle di stile raramente appare così poco forzata e ha come risultato un sorgere di immagini, di odori e di suoni che ci immergono in quell'universo naturale. Ad essa si potrebbe associare la celebre definizione che Pascoli aveva dato dell'arte poetica: uno sguardo vergine sulle cose.

Dimenticando per un istante le reminiscenze scolastiche e l'autocaricatura dannunziana possiamo inoltrarci tra gli alberi di quel mondo fuori dal tempo nel quale la natura parla, respira, vive. Non è forse usurpata per questa lirica la definizione che il critico Walter Binni diede della nuova poesia: pura atmosfera musicale che porta l'eco di un nuovo e misterioso mondo ignoto agli antichi.



Taci. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

Ascolta. Piove

dalle nuvole sparse.

Piove su le tamerici

salmastre ed arse,

piove su i pini

scagliosi ed irti,

piove su i mirti

divini,

su le ginestre fulgenti

di fiori accolti,

su i ginepri folti

di coccole aulenti,

piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

t’illuse, che oggi m’illude,

o Ermione.
Odi? La pioggia cade

su la solitaria

verdura

con un crepitìo che dura

e varia nell’aria

secondo le fronde

più rade, men rade.

Ascolta. Risponde

al pianto il canto

delle cicale

che il pianto australe

non impaura,

né il ciel cinerino.

E il pino

ha un suono, e il mirto

altro suono, e il ginepro

altro ancora, stromenti

diversi

sotto innumerevoli dita.

E immersi

noi siam nello spirto

silvestre,

d’arborea vita viventi;

e il tuo volto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome

Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale

a poco a poco

più sordo

si fa sotto il pianto

che cresce;

ma un canto vi si mesce

più roco

che di laggiù sale,

dall’umida ombra remota.

Più sordo, e più fioco

s’allenta, si spegne.

Sola una nota

ancor trema, si spegne,

risorge, trema, si spegne.

Non s’ode voce dal mare.

Or s’ode su tutta la fronda

crosciare

l’argentea pioggia

che monda,

il croscio che varia

secondo la fronda

più folta, men folta.

Ascolta.

La figlia dell’aria

è muta; ma la figlia

del limo lontana,

la rana,

canta nell’ombra più fonda,

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su le tue ciglia,

Ermione.
Piove su le tue ciglia nere

sì che par tu pianga

ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,

par da scorza tu esca.

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pesca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l’erbe,

i denti negli alveoli

son come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,

or congiunti or disciolti

(e il verde vigor rude

ci allaccia i malleoli

c’intrica i ginocchi)

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri volti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

m’illuse, che oggi t’illude,

o Ermione.