lunedì 20 aprile 2020
Dante Alighieri camminatore.
L’esempio più compiuto è la Divina Commedia in cui
Dante, guidato da Virgilio, intraprende l’esplorazione dei tre soggiorni
dell’anima dopo la morte. Sorta di racconto di viaggio soprannaturale, la
Divina Commedia avanza con l’andatura regolare dell’escursione, senza indugiare
più del necessario davanti alle visioni o ai personaggi incontrati in cammino.
(Rebecca Solnit, Storia del camminare)
Parlare
di Dante è come mettersi in cammino. Ci si può perdere nell’immensità del suo
universo, con immagini che arrivano a noi da tempi lontani e luoghi
sconosciuti. Così è la forma poetica che ci attrae verso mondi ogni volta
ancora da scoprire.
Leggere
Dante è come partite per un’esplorazione sapendo che è l’infinito che si ha
davanti ai nostri occhi ma un infinito umanizzato, a misura d’uomo.
E
lo stesso poeta che ci fa da guida, percorre geografie che si sovrappongono,
incrociano le loro tracce, i loro simboli.
C’è
la carta del viaggio che sembra intrapreso per caso, quel “mi ritrovai per una
selva oscura” non si sa come né perché; il colle interdetto dalle tre belve
minacciose, poi il regno ultraterreno, quello dei dannati, scavato nella
materialità del cuore del globo terrestre, il monte del Purgatorio fatto della
roccia e della terra tolta dall’imbuto infernale, e poi il mondo aereo delle
stelle, più evanescente e luminoso nel suo involucro ma anch’esso sostanziale e
tangibile.
Una
geografia concreta, tanto che molte edizioni della Commedia associano al testo
le cartine dei luoghi visitati.
Ma
durante il viaggio appaiono, evocate dallo stesso Dante o dalle ombre che egli
interpella, altre contrade, altri paesi, percorrendo, quasi a volo di uccello,
il mondo conosciuto: dalle Fiandre a Gibilterra, dall’Umbria a Gerusalemme.
Questa
mappa si sovrappone alla prima, si intreccia con essa là dove le figure la
percorrono e la narrano.
E
infine c’è la mappa del viaggio terreno di Dante, quella dell’esule scacciato
dalla propria patria, da una corte all’altra dell’Italia del suo tempo, lontano
da Firenze.
Una
vita da pellegrino, viaggiatore, rifugiato. La sua poesia nasce da questa
condizione, non ne è il racconto – non solo – ne è la conseguenza, il frutto.
Diceva
di lui il poeta russo Ossip Mandel’stam:
Leggere Dante è soprattutto uno sforzo infinito che,
nella misura in cui è coronato dal successo, ci allontana dall’obiettivo. Se
una prima lettura ci toglie il fiato e ci provoca una sana stanchezza, bisogna
attrezzarsi per le seguenti, di un paio di inusabili scarponi da montagna con
le suole chiodate. Non è per scherzo se chiedo quante suole Alighieri abbia
usato, quante scarpe in pelle di bue, quanti sandali, per tutto il tempo che è
durato il suo lavoro poetico, camminando sui sentieri per capre dell’Italia.
L’Inferno, e più in particolare il Purgatorio,
celebrano la falcata dell’uomo, la lunghezza della scala e il ritmo dei suoi
passi, la pianta del piede e la sua forma. Il passo, coniugato al soffio,
saturo di pensieri. Dante vede in esso la fonte della prosodia. Usa, per
definire il camminare, un gran numero di formule, varie ed avvincenti.
Filosofia e poesia sono, in Dante sempre in cammino, sempre a piedi. La sosta
essa stessa è un’altra figura del movimento che si raccoglie: una tappa
propizia al dialogo che si conquista con degli sforzi di alpinista.
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Sacrée performance de lire Dante
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