La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



mercoledì 20 maggio 2015

Passeggiata a Perugia

Perugia è celebre soprattutto per essere la patria del maestro di Raffaello; ma la città dovrebbe essere ancora più famosa e figurare nel catalogo di una dolce memoria come la piccola città dalla Veduta infinita. Questo luogo esiguo, tortuoso, oscuro, tenta, con un centinaio di pose vigorose, di fulminee contorsioni, di grandi effetti teatrali e altre ingenuità, di attirare la vostra attenzione e di accattivarla. La vostra coscienza, all'inizio inquieta e a disagio, perde le staffe, anche quando voltate le spalle alle vaste possibilità, o quando cinquanta muri ve le nascondono, poiché allora andrete su e giù senza sosta per le stradine, scrutando negli angoli nella speranza di cogliere una nuova veduta e di conquistarla.[…]
Perché è una miscela talmente meravigliosa di pianure verdeggianti, di fiumi scintillanti, di montagne innumerevoli, ondeggianti, qua e là costellate di paesi grigio chiaro, che, situati come voi siete, per parlare sommariamente, al centro dell'Italia, abbracciate interamente, salvo i limiti, della divina penisola da un mare all'altro. Risalendo la lunga prospettiva del Tevere, vedete quasi Roma, passando da Assisi, Spello, Foligno, Spoleto arroccate sui loro rispettivi colli, brillanti nella foschia viola.*
Henry James racconta il suo soggiorno a Perugia nel libro Ore italiane. Nella sua descrizione confonde un po' le valli... ma non importa. Ci fa capire qual è il segreto del fascino di Perugia: perdersi nelle sue stradine e all'improvviso sbucare du un panorama che si allarga all'orizzonte.
Seguiamo il consiglio che lo scrittore ci dà, consiglio ricordato oggi anche in una guida turistica:
Forse farò un favore al lettore dicendogli come dovrà trascorrere una settimana a Perugia. La sua prima cura sarà di non aver fretta, di camminare dappertutto molto lentamente e senza meta e di attribuire un significato esoterico a quasi tutto quello che i suoi occhi incontreranno.*
Un buon consiglio, e la città è ancora oggi ideale per la passeggiata. Poche automobili nel suo centro storico. Corso Vannucci è affollato fino a sera, dalla cattedrale a piazza Italia i perugini si mischiano ai turisti e ai numerosi studenti allineando le “vasche” in un chiacchiericcio continuo. Ma basta allontanarsi qualche passo dal “salotto buono” della città per ritrovarsi tra stradine medievali nelle quali i turisti si fanno più rari. Le case sono alte e le vie strette; il sole stenta ad arrivare fino in basso e nei punti più ombrosi un tenue ma non sgradevole odore di muffa e di stantio si diffonde nell'aria. Modesti negozi ma anche, più raro, qualche locale più pretenzioso si aprono negli antichi palazzi un po' decrepiti.
Associazioni di cittadini si mobilitano per far vivere e per fermare il declino di questi quartieri del centro storico, abbandonati negli anni passati da molti abitanti alla ricerca di abitazioni più moderne. Il borgo Sant'Antonio è ormai nell'associazione dei “Borghi più belli d'Italia” e le animazioni culturali o festive cercano di ricreare un clima più conviviale e di valorizzarne le bellezze.
Scorci e piazzette si alternano tra le vie che salgono e scendono seguendo le curve del colle sul quale la città fu costruita. Ogni tanto, da un'apertura, appare la campagna sottostante, più lontano i monti, con il Subasio in primo piano.
Ritorniamo verso il centro e ci fermiamo in via Rocchi in una libreria “L'altra libreria”. Una bella scoperta, ricca di buoni libri e lontana dai grandi negozi di cultura “e altro”.
*Henry James: Ore italiane




Jacopone da Todi

Eccoci a Todi, sulle tracce di un grande poeta.
Probabilmente se ancor oggi si ricorda Jacopone è per lo Stabat Mater, che ha ispirato decine musicisti. Ricordiamone solo alcuni: Vivaldi, Pergolesi, Scarlatti ma anche Boccherini, Verdi Haydn, Schubert et tanti altri.

Eppure Jacopone non fu l'autore di una sola opera. Le sue numerosissime Laudi (anche se le attribuzioni non sono sempre certe) ne fanno uno dei poeti più prolifici del medioevo.


Frate francescano, egli si batté fino alla morte per restare fedele a quello che considerava l'insegnamento originale di Francesco d'Assisi. Nella controversa tra spirituali e conventuali si schierò decisamente con i primi, scagliandosi contro la “corruzione” della Chiesa.
Per un momento l'ascesa al trono pontificio di Celestino V confortò le posizioni dei fraticelli spirituali ma, come sappiamo, fu una situazione effimera, il pontificato di Pietro da Morrone non durò. Bonifacio VIII rimise in causa le decisioni celestiniane e “debellò” rapidamente i refrattari. Jacopone fu scomunicato e imprigionato. Sarà liberato solo dal successore di Bonifacio, Benedetto XI e morirà dopo tre anni nel convento di Collazone, non lontano dalla sua città natale.

 «Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso
Iesù Cristo beato.

Accurre, donna e vide
che la gente l’allide;
credo che lo s’occide,
tanto l’ò flagellato».

«Come essere porria,
che non fece follia,
Cristo, la spene mia,
om l’avesse pigliato?».

È così che inizia Donna de Paradiso, una delle laudi più belle di Jacopone. In un confronto serrato ai piedi della croce, i personaggi del dramma si interpellano e si rispondono. Al centro è Maria, incredula dell'accaduto che esprime un umanissimo dolore di fronte al figlio morente.


La tomba di Jacopone è nella chiesa di San Fortunato nel centro storico di Todi.
Ma a parte questa reliquia la figura del beato francescano non è molto presente.

Visitiamo la città in una giornata grigia e a tratti piovosa.
Sulla Piazza del popolo Garibaldi, che qui si rifugiò dopo la sconfitta della Repubblica Romana, continua a scrutare l'orizzonte.

Non molto deve essere cambiato nel corso dei secoli in questo quartiere centrale. Solo la presenza delle automobili modifica gli scorci medievali.

mercoledì 13 maggio 2015

Bevagna: Primo maggio 2015

Nella settimana della “Cultura della pace” una passeggiata sulle colline tra Cantalupo e Castelbuono ha riunito un'ottantina di persone. Si parte dalla valle, non lontano dall'edicola che ricorda la predica agli uccelli di Francesco d'Assisi e si risale verso i monti Martani. Il gruppo segue l'itinerario del “Parco della scultura”. Le opere sono ormai molto numerose tra i vigneti e gli oliveti. È una bella giornata di sole, tra i partecipanti molti non dimenticano di raccogliere gli asparagi selvatici “per la frittatina di questa sera.”
L'arrivo a Castelbuono è accolto da un gruppo musicale che suona arie di jazz.














venerdì 8 maggio 2015

Paolo Morelli : Racconto del fiume Sangro

I corsi d'acqua sembrano ispirare gli scrittori. Si può anche parlare di letteratura fluviale, la biblioteca comincia ad essere consistente. Tra tutti ricordiamo Claudio Magris che lungo il Danubio ha trovato lo spunto per parlarci dell'Europa, dei suoi popoli e della sua storia. Un libro magnifico che partendo dai prati delle Foresta Nera e fino al mare omonimo ci fa viaggiare nel tempo e nello spazio, ci fa riflettere sul passato e sull'avvenire del continente.
Ricordiamo poi il viaggio sul Po di Paolo Rumiz, raccontato in Morimondo. Dalle Alpi fino all'Adriatico, alla scoperta della regione cuore dell'Italia ma nello stesso tempo misteriosa e sconosciuta perché osservata dalle acque di un fiume riscoperto e reinventato.
Rumiz, rispetto a Magris, restringe la focale, resta più vicino al fiume, ne scandaglia le rive e ne fotografa i singolari abitanti.
Jean-Paul Kauffmann, giornalista e scrittore francese, ha scritto un bellissimo libro Remonter la Marne. Dalla confluenza con la Senna, ha risalito a piedi i cinquecento chilometri di questo affluente che attraversa il cuore della Francia. Il corso tocca luoghi drammaticamente celebri, legati a guerre ancora vicine nel ricordo ma anche vallate prospere come quelle della Champagne. Anche lui scopre un paese inaspettato, trova un mondo che sembra lontanissimo dalla capitale dinamica e affaccendata. Negli incontri che punteggiano la sua lunga escursione, Kauffmann descrive un paese nascosto, che vive in disparte, lontano dalla modernità.
Paolo Morelli ha pubblicato nel 2013 Racconto de fiume Sangro. È la discesa, dalla sorgente alla foce del corso d'acqua che scorre tra Abruzzo e Molise. Discesa a piedi, con almeno un proposito: restare sempre il più vicino possibile al fiume. Il Sangro ha un percorso modesto, non supera i 120 chilometri, va per un tratto verso sud est per poi ripiegare decisamente verso il nord e gettarsi nell'Adriatico. Si infila tra le montagne scavando una valle a tratti molto stretta, poi via via più aperta. Fermato da dighe che ne sfruttano l'energia e formano i laghi di Barrea e poi di Bomba, riprende il suo scorrere prima timidamente, poi con più foga. Non è facile seguirne a piedi il corso. Paolo Morelli ne fa l'esperienza, tra passaggi quasi in arrampicata e altri in cui servirebbero stivali da pescatore. Senza mai dimenticare un sacchetto di plastica per raccogliere bottiglie di plastica e altre immondizie.
La particolarità del libro di Morelli rispetto agli altri citati sta nello sguardo dello scrittore. Egli osserva il fiume, ne descrive le mosse, le svolte, i cambiamenti di umore. Lo ascolta e dialoga con esso. Anche quando, a sera, si ferma per dormire non vuole staccarsene per continuare a sentirne almeno la voce. Sono pochi gli incontri lungo il percorso: qualche umano, spesso diffidente di fronte allo strano personaggio che se ne va a piedi lungo il fiume, una volpe, una cagnetta zoppicante, un branco di cani aggressivi, degli uccelli.
Più che un'avventura quello di Morelli è un viaggio intimo. Uno spunto per meditare e filosofare modestamente attorno allo sciabordare dell'acqua.
Fino alla foce: Qui finisce il discorso-fiume. Salgo sul vecchio ponte con aggetti a mare. La volpe resterà inspiegabile.
L'acqua si incontrerà con l'acqua, nell'attimo della più elevata comprensione, mi è venuto da scrivere una cosa così, a effetto ma con poco senso. Non abbiamo ancora visto l'acqua come acqua, ma sempre come qualcos'altro. Concretezza resta la parola d'ordine. Rimane il tipo di forza legato alla possibilità, quando manca qualcosa, l'imperfezione che sa fermarsi prima perché le conviene, è come un chiacchierone che ha imparato a starsi zitto. È quello che ho voluto vederci io? Certo, come ogni volta che si racconta, né più né meno.
Il fiume Sangro è un fiume come tanti altri, niente di speciale. Qui ogni momento si perde in un mare. Certo se avessi seguito un fiume più grande sarebbe stato più complicato, vuol dire che sono furbo nonostante tutto.

domenica 12 aprile 2015

Lucerna


Il ponte di legno, Kapellbrücke (ponte della cappella) distrutto da un incendio nel 1993 è stato ricostruito rapidamente ed è ancora il simbolo della città. Dicono gli svizzeri che sia, dopo il Cervino, il soggetto più fotografato del paese. Ed in effetti la sua immagine è indissociabile da quella di Lucerna.

Siamo nella Svizzera tedesca, sul bordo settentrionale del lago dei Quattro Cantoni. Verso sud, vicinissime, le Prealpi e il monte Pilatus che fa da sfondo al panorama della città. Più lontane e più elevate le Alpi sono ancora ampiamente innevate.
Ora che il sole è calato le montagne portano un'aria fresca.
Lucerna è un nodo stradale e ferroviario importante ma qui, sulle rive del lago, ha l'aspetto di un grande borgo. Il centro della cittadina ha conservato e tutelato le sue vestigia medievali. Spesso lo “stile” medievale ha ispirato costruzioni molto più recenti.
Le insegne delle banche e i vari istituti di credito completano lo stereotipo (non usurpato) della ricca regione paradiso della finanza. Bandiere e gonfaloni colorano le facciate di molti palazzi.

Le vie sono animate, dai tavoli dei bar e dei ristoranti arriva un chiacchiericcio discreto ma ben udibile. I traghetti fanno la spola collegando le rive del lago, molti turisti passeggiano tra le stradine e le piazzette.

giovedì 2 aprile 2015

Nuova letteratura venuta da altrove

Da qualche anno ormai un vento nuovo soffia sulla letteratura italiana. Lo soffiano scrittori venuti da altrove e che hanno scelto, malgrado tutto, di vivere in questo Paese e di scrivere in italiano.
Le nuova produzione è stata catalogata sotto la definizione di Letteratura Migrante ed ha anche una bella rivista on line http://www.el-ghibli.org/. È -dice la presentazione del sito- il vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che accompagna e asciuga la parola errante.
Il termine è però riduttivo, comodo per cercare una nicchia in libreria ma anche un po' restrittivo, giacché rinchiude questa produzione in un concetto di genere. Perché questi sono scrittori diversi tra loro, nello stile e a volte anche nei propositi. Hanno conquistato uno spazio in libreria ma, prima di tutto, per la qualità e l'originalità della loro scrittura. Già, perché in definitiva si tratta di Letteratura, senza se e senza ma, di letteratura italiana.
Già negli anni 1990 erano uscite le prime opere scritte da autori immigrati in Italia. Erano nate nell'urgenza (e questa caratteristica resterà in parte anche nelle opere più recenti). Urgenza di raccontare, di spiegare, di far capire una realtà che era fino ad allora descritta unicamente da chi non la viveva. Fatti drammatici, come l'omicidio di Jarri Maslo, il giovane sudafricano assassinato a Villa Literno nel 1989 erano serviti da scintilla. In questa prima vague il migrante era più testimone che autore, almeno così pensavano gli editori che consideravano necessario affiancare al narratore uno scrittore “professionista”, capace di mediare un scritto troppo rozzo. Fu così che nacquero opere firmate da binomi: ricordiamo tra tutte Io venditori di elefanti di Pap Kouma e Oreste Pivetta, pubblicata nel 1990. Pap Kouma, di origine senegalese è oggi, tra l'altro, direttore della citata rivista El Ghibli.
Tra coloro che decidono di prendere così la parola ci sono dunque dei veri scrittori. Molti hanno fatto il gesto estremo dell'esilio e hanno ottenuto le cittadinanza italiana. Si tratta di un gesto estremo perché predice un non ritorno, un allontanamento definitivo sempre traumatico dal paese natale. E questo gesto, eminentemente politico ma anche ricco di implicazioni personali, ha avuto come motivazione-corollario l'appropriazione di una lingua che non è quella materna. Ciò non vuol dire rompere i ponti con il passato, tantomeno rinnegare la propria storia. Per dirla con le parole del filosofo francese Gilles Deleuze, è seguire une linea di cresta, in equilibrio tra due mondi, senza rinnegare il primo né adottare ciecamente il secondo, creando uno spazio nuovo che non è semplicemente una sintesi dei due.*
Cheikh Tidiane Gaye è di origine senegalese. Scrive romanzi (l'ultimo, pubblicato da Jaca Books nel 2013 è Prendimi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera), è traduttore in Italiano di Léopold Sédar Senghor ed è anch'egli poeta ormai riconosciuto, un poeta impegnato, anche politicamente. Cheikh Tidiane Gaye si definisce figlio oltre che di Senghor anche di Aimé Césaire da cui ha ripreso il concetto di negritudine. Rifiuta la categoria di poeta migrante. Ha scelto l'Italiano per passione, passione per le opere dei grandi autori del passato, a partire da Dante, fino a Leopardi e a Ungaretti. Cheikh Tidiane Gaye ha letto la poesia civile di Pasolini. Ecco come spiega la sua scelta linguistica: Quando partorisco i miei versi, le parole mi vengono in italiano. Mia madre vive in Senegal e spesso mi fa notare che non parlo più bene il wolof, c’è una mescolanza notevole di parole wolof e italiano. Cosa possiamo analizzare partendo da questa costatazione? Mi domando veramente chi sono, chi siamo? Ci stiamo “colonizzando” spontaneamente e/o linguisticamente? Per nulla, credo. A mio parere sono gli effetti dell’interculturalità e della multiculturalità. Ecco la bellezza dell’intercultura, l’unico strumento idoneo per “universalizzare” l’umanità e che permette di poterci arricchire l’un l’altro.
Sotto il titolo Rime abbracciate sono raccolte le sue ultime poesie, pubblicate insieme a quelle della poetessa Maria Gabriella Romani Kouacou, in edizione bilingue (Italiano/Francese) dall'editore L'Harmattan nel 2012.
Tra le voci più interessanti di questa nuova letteratura emerge anche quella di Kossi Kombla-Ebri. Nato nel Togo, dopo aver cominciato i suoi studi in Francia, è arrivato in Italia nel 1974 dove ha studiato medicina laureandosi all'università di Bologna. Attualmente vive e lavora in Lombardia.
Ricca e varia e la sua bibliografia: dal racconto al romanzo. Kombla-Ebri è anche l'inventore di un neologismo imbarazzismi che ha scelto come titolo per una raccolta di piccole storie di fatti quotidiani, che mettono in luce situazioni di razzismo ordinario, volontario o inconsapevole.
Per Kombla-Ebri scrivere in Italiano è un'evidenza. È la lingua delle persone che incontra e con cui parla ed è a loro che si rivolge con i suoi scritti. E da loro che vuole farsi capire. Migrare -spiega Kossi Kombla-Ebri- significa lasciare tre madri: quella corporale, la madre terra e la lingua madre. A differenza del Francese, lingua dei colonizzatori, verso l'Italiano non c'è rancore anche se abbandonare la propria lingua non è mai un passo agevole: ci si installa in una doppia assenza, dal paese natale e dal paese che ci accoglie. Aggiunge Kombla-Ebri, con un'immagine ricca di senso: L'emigrazione è come spostare un'anima da un corpo ad un altro.
Spesso chi sceglie di scrivere in una lingua diversa da quella natale non l'assume però nel suo filone ortodosso, si colloca invece in una dimensione minore della lingua. Non una lingua minore, ma che resta sui bordi, come in atto di resistenza; perché non è macchina di potere ma linea di fuga*. Quando si è al margine -dice Kossi Kombla-Ebri- si ha una visione più aperta del mondo, mentre se si è al centro non si vede ciò che è alle spalle.
La letteratura migrante ha sempre un ruolo costruttivo, quasi taumaturgico. Essa deve vincere la nostalgia, la saudade. Come nel pensiero presocratico dove l'Essere non esiste per sé ma nella sua relazione con gli altri.
Ecco quindi che nel contemporaneo di una società umana che sembra richiudersi, in cui l'altro è sinonimo di pericolo, queste voci sono necessarie, salutari, aprono una finestra sul mondo, permettono di cancellare stereotipi e pregiudizi. Che la lingua italiana, bistrattata tra premier autority e altri tic anglofoni serva da vettore in questo processo è un fatto estremamente positivo.

*Gérard Briche
Cheikh Tidiane Gaye: Vita
La vita è una strada
è una strada che accoglie il sole e la luna
la vita è blu
la vita è bianca
la vita è rossa
la vita ha più di due ali
vola, vola nei cieli blu
grigi
la vita non ha colore.

Essa è una duna di sabbia
che nasconde le nostre scritture
le nostre opere
i nostri sogni
e il nostro respiro.

La vita è una parola
la parola può diventare un’arpa per l’anima
ogni parola può essere una luna

la vita è:
il linguaggio che l’orologio non cont
eggia.

mercoledì 18 marzo 2015

Edgard Lee Masters: Antologia di Spoon River

Ci sono dei libri che non lasciano indifferenti. Nel bene o nel male, colpiscono il lettore, affascinano o irritano, senza mezze misure. È forse il caso dell'Antologia di Spoon River. Per alcuni capolavoro della letteratura americana, la cui poesia è seconda solo a quella di Walt Withman, per altri libro per adolescenti, dallo schema troppo banale e dai temi sempliciotti.

E si discute anche sull'implicito contenuto ideologico dell'opera. Messaggio rivoluzionario che attacca il perbenismo della società borghese oppure sguardo paternalista sulle classi più povere legate ad un destino scritto dal determinismo sociale?
Edgard Lee Masters è l'autore di molti libri: romanzi, drammi teatrali, raccolte di poesie. Oggi però lo scrittore americano è ricordato per una sola opera: L'Antologia di Spoon River.

Nel cimitero di un villaggio immaginario, lungo la riva del fiume Spoon, gli epitaffi sulle tombe raccontano nella sua essenza la vita e le vicissitudini di coloro che furono gli abitanti del paese e che si ritrovano ora, uno accanto all'altro sotto un palmo di terra sulla collina.

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom, e Charley,

il debole di volontà, il forte di braccia e il buffone,

l'ubriacone, l'attaccabrighe?

Tutti, tutti dormono sulla collina.

Uno morì di febbre,

uno bruciato in miniera,

uno ucciso in una rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte mentre faticava per moglie e figli

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Sembra, un pizzico di leggenda serve sempre, che l'idea della poesia funeraria fosse venuta a Masters dalla lettura, nel 1911 dell'Antologia Palatina suggeritagli da William Marion Reedy, direttore di un giornale di Saint Louis a cui Masters collaborava. Tre anni dopo, rievocando, in un incontro con la madre, le persone conosciute in infanzia, quando la famiglia viveva a Lewistown e a Petersburg nell'Illinois, ebbe l'ispirazione per la scrittura dei primi epitaffi, pubblicati dallo stesso Reedy sul suo giornale e firmati da Masters con uno pseudonimo.
Il successo fu immediato e convinse lo scrittore ad ampliare il suo lavoro che uscì poi in volume nel 1915 con 244 epitaffi più l'introduzione: La collina.
Si dice che Masters cogliesse ogni occasione per scrivere i suoi epitaffi e non manca la storiella della poesia composta sul conto del ristorante. Forse questa produzione così rapida fu meno approfondita nei temi e nella forma. È almeno questa la tesi di Cesare Pavese, uno dei primi lettori italiani del poeta americano: […] i confini tra canto e racconto non sono sempre facilmente tracciabili, e più di un'epigrafe appare come un affrettato appunto di romanziere, anziché il tormentato scavo lirico che è in realtà.
L'Antologia è un'assemblea che riunisce tutti i ceti e gli innumerevoli caratteri della piccola società costituitasi nei pressi del fiume Spoon. Dall'operaio al ricco borghese, dal barbone al medico, ognuno racconta la sua vita, ormai finita.
Alcuni versi dell'Antologia sono ormai entrati nel linguaggio corrente. Una filosofia proverbiale un po' docile:

Da giovane le mie ali erano forti e instancabili

ma non conoscevo le montagne.

Da vecchio conoscevo le montagne

ma le mie ali stanche non potevano tener dietro alla visione.

Il genio è saggezza e gioventù.

Ma altri passaggi sono più profondi e ricchi. È, la fine delle speranze, degli affetti e dei rancori. Abbandonati con l'esistenza terrena aspettative ed illusioni, ognuno si esprime con sincerità, senza sotterfugi né secondi fini.
La critica contro una società il cui la legge del profitto sta dominando il mondo lascia trasparire spesso un sentimento di nostalgia per un mondo agreste che sembra destinato a scomparire.Masters ha una profonda capacità di analisi per le azioni e lo spirito umano, il suo mestiere d'origine – era avvocato- non è forse estraneo a quest'abilità.
I personaggi raccontano se stessi, spesso svelano, con un ultimo messaggio, un segreto nascosto per tutta la vita. A volte dialogano con gli altri, si rispondono o danno una versione diversa dello stesso avvenimento. Sono storie spesso violente di soprusi e di sangue. C'è poi chi rifiuta l'epitaffio scritto sul marmo e si scaglia contro chi l'ha scritto.

È il caso di Cassius Hueffer

Sulla mia pietra hanno inciso le parole:

La sua vita fu generosa e gli elementi così commisti

che la natura potrebbe levarsi e dire al mondo intero:

questi fu un uomo.”

Coloro che mi conobbero sorridono

leggendo questa vuota retorica.

Il mio epitaffio doveva essere:

La vita non fu generosa con lui

e gli elementi così commisti

che fece guerra alla vita e ne fu ucciso.”

Da vivo ho dovuto soccombere alle malelingue,

ora che sono morto mi tocca sopportare un epitaffio

scolpito da uno sciocco.

Fernanda Pivano fu la prima a tradurre in italiano l'Antologia di Spoon river che Cesare Pavese le aveva fatto conoscere. Erano ancora gli anni del fascismo e per i giovani italiani queste poesie venivano davvero da un altro mondo.
Erano giovani, dice la Pivano sempre più insofferenti di un'alterazione di valori umani inutilmente travestiti di eroismo e mascherati di magniloquenza. Questi versi diventarono per loro una specie di sintesi di una civiltà che in quel momento rappresentava per molti di loro la possibilità di una vita “libera” almeno nel senso individuale; e offrirono l'esempio di un linguaggio limpido, di un contenuto chiaro e universalmente valido, di un tono e di un'impostazione moderni.

Nel 1971 Fabrizio De André pubblicò un album Non al denaro, non all'amore né al cielo nel quale, assieme a Giuseppe Bentivoglio, rivisitò nove tra le poesie di Edgard Lee Master. Il disco, che ebbe un certo successo, contribuì alla riscoperta del libro che, negli anni Settanta sarà una delle raccolte di poesie più lette in Italia.
 
Edgard Lee Masters: Antologia di Spoon River Rizzoli Traduzione di Alberto Rossatti