Ne valeva la pena però, perché il panorama è bello. I Sibillini ancora innevati, Perugia vista dall'alto, la gobba verde dei monti Martani coperti di boschi, la cupola di Santa Maria degli Angeli e, quasi nascosta sotto la china del monte, Assisi, con la basilica francescana come una vela sul ponte di una nave.
martedì 26 maggio 2015
Monte Subasio
Dopo
Spello la frazione di Collepino quasi si nasconde sulla spalla del
monte Subasio lasciando al suo capoluogo la porta d'ingresso sulla
valle.
Il
minuscolo paesino sembra vuoto ma, nel silenzio, voci allegre è
tintinnio di posate ci lasciano immaginare un'amichevole riunione. La
visita è piacevole tra le quattro stradine che serpeggiano tra le
case. Riprendiamo la nostra gita.
La
strada prosegue, aggirando il monte fino a ritrovare Assisi.
Noi
ne scegliamo un'altra che, discretamente, di stacca sulla sinistra e
comincia, con qualche tornante ad inerpicarsi verso la cresta del
Subasio.
Questo
monte accompagna e fa da sfondo ad ogni veduta nella valle Umbra.
Allungato tra Assisi e Spello si eleva dolcemente prima tra gli
ulivi, poi tra i boschi, fino ai prati della cima. Come spesso accade
per i suoi simili, un grappolo di antenne ne sfigura un poco il
profilo.
Vedere
un monte dalla valle ci spinge, chissà perché a voler vedere la
valle dal monte.
Eppure
il Petrarca, già citato altrove ci aveva messo in guardia da questa
vanagloria:
«e
vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del
mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il
corso degli astri e trascurano se stessi».
Frivolezza
degli uomini.
Ma
forse il poeta ne approfitta un po' per farci la lezione. Chissà
come, guardando il panorama dal monte Ventoso quel famoso 26 aprile
1336 arriva, con quel perentorio
credetti giusto, ad
aprire le “Confessioni” di Sant'Agostino: Mentre
ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose
terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in
alto l’anima, credetti giusto
dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino.
Levare
il corpo verso le cime ci ricorda la necessità di levar con
esso l'animo? Sarebbe troppo semplice, non basta essere montanaro
per avere un animo appagato.
C'è
poi chi dice, qui accanto a me, che la “mania” di voler salire
sulle cime è un truc de mecs (lascio ai francofili
l'onere della traduzione).
Oggi
però la nostra escursione non ha nulla di una “sfida agonistica”.
L'ascesa si fa in automobile e la sola cosa che è messa rude prova è
la meccanica del mezzo.
Perché, dopo qualche chilometro, al rifugio
santuario della Madonna della Spella, l'asfalto finisce
e la strada continua tra buche e rocce sporgenti. Ne valeva la pena però, perché il panorama è bello. I Sibillini ancora innevati, Perugia vista dall'alto, la gobba verde dei monti Martani coperti di boschi, la cupola di Santa Maria degli Angeli e, quasi nascosta sotto la china del monte, Assisi, con la basilica francescana come una vela sul ponte di una nave.
La
strada prosegue per un tratto come un balcone sulla valle. Poi
comincia a scendere, rapidamente, rientrando nel bosco e, passando
davanti all'eremo delle carceri, arriva alla rocca di Assisi.
mercoledì 20 maggio 2015
Passeggiata a Perugia
Perugia
è celebre soprattutto per essere la patria del maestro di Raffaello;
ma la città dovrebbe essere ancora più famosa e figurare nel
catalogo di una dolce memoria come la piccola città dalla Veduta
infinita. Questo luogo esiguo, tortuoso, oscuro, tenta, con un
centinaio di pose vigorose, di fulminee contorsioni, di grandi
effetti teatrali e altre ingenuità, di attirare la vostra attenzione
e di accattivarla. La vostra coscienza, all'inizio inquieta e a
disagio, perde le staffe, anche quando voltate le spalle alle vaste
possibilità, o quando cinquanta muri ve le nascondono, poiché
allora andrete su e giù senza sosta per le stradine, scrutando negli
angoli nella speranza di cogliere una nuova veduta e di
conquistarla.[…]
Perché
è una miscela talmente meravigliosa di pianure verdeggianti, di
fiumi scintillanti, di montagne innumerevoli, ondeggianti, qua e là
costellate di paesi grigio chiaro, che, situati come voi siete, per
parlare sommariamente, al centro dell'Italia, abbracciate
interamente, salvo i limiti, della divina penisola da un mare
all'altro. Risalendo la lunga prospettiva del Tevere, vedete quasi
Roma, passando da Assisi, Spello, Foligno, Spoleto arroccate sui loro
rispettivi colli, brillanti nella foschia viola.*
Henry
James racconta il suo soggiorno a Perugia nel libro Ore italiane.
Nella sua descrizione confonde un po' le valli... ma non importa.
Ci fa capire qual è il segreto del fascino di Perugia: perdersi
nelle sue stradine e all'improvviso sbucare du un panorama che si
allarga all'orizzonte.
Seguiamo
il consiglio che lo scrittore ci dà, consiglio ricordato oggi anche
in una guida turistica:
Forse
farò un favore al lettore dicendogli come dovrà trascorrere una
settimana a Perugia. La sua prima cura sarà di non aver fretta, di
camminare dappertutto molto lentamente e senza meta e di attribuire
un significato esoterico a quasi tutto quello che i suoi occhi
incontreranno.*
Un
buon consiglio, e la città è ancora oggi ideale per la passeggiata.
Poche automobili nel suo centro storico. Corso Vannucci è affollato
fino a sera, dalla cattedrale a piazza Italia i perugini si mischiano
ai turisti e ai numerosi studenti allineando le “vasche” in un
chiacchiericcio continuo. Ma basta allontanarsi qualche passo dal
“salotto buono” della città per ritrovarsi tra stradine
medievali nelle quali i turisti si fanno più rari. Le case sono alte
e le vie strette; il sole stenta ad arrivare fino in basso e nei
punti più ombrosi un tenue ma non sgradevole odore di muffa e di
stantio si diffonde nell'aria. Modesti negozi ma anche, più raro,
qualche locale più pretenzioso si aprono negli antichi palazzi un
po' decrepiti.
Associazioni
di cittadini si mobilitano per far vivere e per fermare il declino di
questi quartieri del centro storico, abbandonati negli anni passati
da molti abitanti alla ricerca di abitazioni più moderne. Il borgo
Sant'Antonio è ormai nell'associazione dei “Borghi più belli
d'Italia” e le animazioni culturali o festive cercano di ricreare
un clima più conviviale e di valorizzarne le bellezze.
Scorci
e piazzette si alternano tra le vie che salgono e scendono seguendo
le curve del colle sul quale la città fu costruita. Ogni tanto, da
un'apertura, appare la campagna sottostante, più lontano i monti,
con il Subasio in primo piano.
Ritorniamo
verso il centro e ci fermiamo in via Rocchi in una libreria “L'altra
libreria”. Una bella scoperta, ricca di buoni libri e lontana dai
grandi negozi di cultura “e altro”.
*Henry James: Ore italiane


Jacopone da Todi
Eccoci
a Todi, sulle tracce di un grande poeta.
Probabilmente se ancor oggi si ricorda Jacopone è per lo Stabat Mater, che ha ispirato decine musicisti. Ricordiamone solo alcuni: Vivaldi, Pergolesi, Scarlatti ma anche Boccherini, Verdi Haydn, Schubert et tanti altri.
Iesù Cristo beato.
credo che lo s’occide,
tanto l’ò flagellato».
Cristo, la spene mia,
om l’avesse pigliato?».
È così che inizia Donna de Paradiso, una delle laudi più belle di Jacopone. In un confronto serrato ai piedi della croce, i personaggi del dramma si interpellano e si rispondono. Al centro è Maria, incredula dell'accaduto che esprime un umanissimo dolore di fronte al figlio morente.
La
tomba di Jacopone è nella chiesa di San Fortunato nel centro storico
di Todi.
Ma a parte questa reliquia la figura del beato francescano non è molto presente.
Probabilmente se ancor oggi si ricorda Jacopone è per lo Stabat Mater, che ha ispirato decine musicisti. Ricordiamone solo alcuni: Vivaldi, Pergolesi, Scarlatti ma anche Boccherini, Verdi Haydn, Schubert et tanti altri.
Eppure
Jacopone non
fu l'autore di una sola opera. Le
sue numerosissime Laudi
(anche se le attribuzioni non sono sempre certe) ne fanno uno dei
poeti più prolifici del medioevo.
Frate
francescano, egli si batté fino alla morte per restare fedele a
quello che considerava l'insegnamento originale di Francesco
d'Assisi. Nella controversa tra spirituali e
conventuali si schierò
decisamente con i primi, scagliandosi contro la “corruzione”
della Chiesa.
Per un momento l'ascesa al trono pontificio di
Celestino V confortò le posizioni dei fraticelli
spirituali ma, come sappiamo, fu
una situazione effimera, il
pontificato di Pietro da Morrone non durò.
Bonifacio VIII rimise in causa le decisioni celestiniane e “debellò”
rapidamente i refrattari. Jacopone fu scomunicato e imprigionato.
Sarà liberato solo dal
successore di Bonifacio, Benedetto XI e morirà dopo tre anni nel
convento di Collazone, non lontano dalla sua città natale.
«Donna
de Paradiso,
lo
tuo figliolo è presoIesù Cristo beato.
Accurre,
donna e vide
che
la gente l’allide;credo che lo s’occide,
tanto l’ò flagellato».
«Come
essere porria,
che
non fece follia,Cristo, la spene mia,
om l’avesse pigliato?».
È così che inizia Donna de Paradiso, una delle laudi più belle di Jacopone. In un confronto serrato ai piedi della croce, i personaggi del dramma si interpellano e si rispondono. Al centro è Maria, incredula dell'accaduto che esprime un umanissimo dolore di fronte al figlio morente.

Ma a parte questa reliquia la figura del beato francescano non è molto presente.
Visitiamo
la città in una giornata grigia e a tratti piovosa.
Sulla Piazza del
popolo Garibaldi, che qui si rifugiò dopo la sconfitta della
Repubblica Romana, continua a scrutare l'orizzonte.
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mercoledì 13 maggio 2015
Bevagna: Primo maggio 2015
Nella
settimana della “Cultura della pace” una passeggiata sulle
colline tra Cantalupo e Castelbuono ha riunito un'ottantina di
persone. Si parte dalla valle, non lontano dall'edicola che ricorda
la predica agli uccelli di Francesco d'Assisi e si risale verso i
monti Martani. Il gruppo segue l'itinerario del “Parco della
scultura”. Le opere sono ormai molto numerose tra i vigneti e gli
oliveti. È una bella giornata di sole, tra i partecipanti molti non
dimenticano di raccogliere gli asparagi selvatici “per la
frittatina di questa sera.”
venerdì 8 maggio 2015
Paolo Morelli : Racconto del fiume Sangro
I
corsi d'acqua sembrano ispirare gli scrittori. Si può anche parlare
di letteratura fluviale, la biblioteca comincia ad essere
consistente. Tra tutti ricordiamo Claudio Magris che lungo il Danubio
ha trovato lo spunto per parlarci dell'Europa, dei suoi popoli e
della sua storia. Un libro magnifico che partendo dai prati delle
Foresta Nera e fino al mare omonimo ci fa viaggiare nel tempo e nello
spazio, ci fa riflettere sul passato e sull'avvenire del continente.
Ricordiamo
poi il viaggio sul Po di Paolo Rumiz, raccontato in Morimondo.
Dalle Alpi fino all'Adriatico, alla scoperta della regione cuore
dell'Italia ma nello stesso tempo misteriosa e sconosciuta perché
osservata dalle acque di un fiume riscoperto e reinventato.
Rumiz,
rispetto a Magris, restringe la focale, resta più vicino al fiume,
ne scandaglia le rive e ne fotografa i singolari abitanti.
Jean-Paul
Kauffmann, giornalista e scrittore francese, ha scritto un bellissimo
libro Remonter la Marne. Dalla confluenza con la Senna, ha
risalito a piedi i cinquecento chilometri di questo affluente che
attraversa il cuore della Francia. Il corso tocca luoghi
drammaticamente celebri, legati a guerre ancora vicine nel ricordo ma
anche vallate prospere come quelle della Champagne. Anche lui scopre
un paese inaspettato, trova un mondo che sembra lontanissimo dalla
capitale dinamica e affaccendata. Negli incontri che punteggiano la
sua lunga escursione, Kauffmann descrive un paese nascosto, che vive
in disparte, lontano dalla modernità.
Paolo
Morelli ha pubblicato nel 2013 Racconto de fiume Sangro. È
la discesa, dalla sorgente alla foce del corso d'acqua che scorre tra
Abruzzo e Molise. Discesa a piedi, con almeno un proposito: restare
sempre il più vicino possibile al fiume. Il Sangro ha un percorso
modesto, non supera i 120 chilometri, va per un tratto verso sud est
per poi ripiegare decisamente verso il nord e gettarsi
nell'Adriatico. Si infila tra le montagne scavando una valle a tratti
molto stretta, poi via via più aperta. Fermato da dighe che ne
sfruttano l'energia e formano i laghi di Barrea e poi di Bomba,
riprende il suo scorrere prima timidamente, poi con più foga. Non è
facile seguirne a piedi il corso. Paolo Morelli ne fa l'esperienza,
tra passaggi quasi in arrampicata e altri in cui servirebbero stivali
da pescatore. Senza mai dimenticare un sacchetto di plastica per
raccogliere bottiglie di plastica e altre immondizie.
La
particolarità del libro di Morelli rispetto agli altri citati sta
nello sguardo dello scrittore. Egli osserva il fiume, ne descrive le
mosse, le svolte, i cambiamenti di umore. Lo ascolta e dialoga con
esso. Anche quando, a sera, si ferma per dormire non vuole
staccarsene per continuare a sentirne almeno la voce. Sono pochi gli
incontri lungo il percorso: qualche umano, spesso diffidente di
fronte allo strano personaggio che se ne va a piedi lungo il fiume,
una volpe, una cagnetta zoppicante, un branco di cani aggressivi,
degli uccelli.
Più
che un'avventura quello di Morelli è un viaggio intimo. Uno spunto
per meditare e filosofare modestamente attorno allo sciabordare
dell'acqua.
Fino
alla foce: Qui finisce il discorso-fiume. Salgo sul vecchio ponte
con aggetti a mare. La volpe resterà inspiegabile.
L'acqua
si incontrerà con l'acqua, nell'attimo della più elevata
comprensione, mi è venuto da scrivere una cosa così, a effetto ma
con poco senso. Non abbiamo ancora visto l'acqua come acqua,
ma sempre come qualcos'altro. Concretezza resta la parola d'ordine.
Rimane il tipo di forza legato alla possibilità, quando manca
qualcosa, l'imperfezione che sa fermarsi prima perché le conviene, è
come un chiacchierone che ha imparato a starsi zitto. È quello che
ho voluto vederci io? Certo, come ogni volta che si racconta, né più
né meno.
Il
fiume Sangro è un fiume come tanti altri, niente di speciale. Qui
ogni momento si perde in un mare. Certo se avessi seguito un fiume
più grande sarebbe stato più complicato, vuol dire che sono furbo
nonostante tutto.
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domenica 12 aprile 2015
Lucerna
Il
ponte di legno, Kapellbrücke (ponte
della cappella)
distrutto da un incendio nel 1993 è stato ricostruito
rapidamente ed è ancora il simbolo della città. Dicono gli svizzeri
che sia, dopo il Cervino, il soggetto più fotografato del paese. Ed
in effetti la sua immagine è indissociabile da quella di Lucerna.
Lucerna
è un nodo stradale e ferroviario importante ma qui, sulle rive del
lago, ha l'aspetto di un grande borgo. Il centro della cittadina ha
conservato e tutelato le sue vestigia medievali. Spesso lo “stile”
medievale ha ispirato costruzioni molto più recenti.
Le insegne
delle banche e i vari istituti di credito completano lo stereotipo
(non usurpato) della ricca regione paradiso della finanza. Bandiere e
gonfaloni colorano le facciate di molti palazzi.
Le
vie sono animate, dai tavoli dei bar e dei ristoranti arriva un
chiacchiericcio discreto ma ben udibile. I traghetti fanno la spola
collegando le rive del lago, molti turisti passeggiano tra le
stradine e le piazzette.
giovedì 2 aprile 2015
Nuova letteratura venuta da altrove
Da
qualche anno ormai un vento nuovo soffia sulla letteratura italiana.
Lo soffiano scrittori venuti da altrove e che hanno scelto, malgrado
tutto, di vivere in questo Paese e di scrivere in italiano.
Le
nuova produzione è stata catalogata sotto la definizione di
Letteratura Migrante ed ha anche una bella rivista on
line
http://www.el-ghibli.org/. È
-dice la presentazione del sito- il
vento dei nomadi, del viaggio e della migranza, il vento che
accompagna e asciuga la parola errante.
Il termine è però riduttivo, comodo per cercare una nicchia in libreria ma anche un po' restrittivo, giacché rinchiude questa produzione in un concetto di genere. Perché questi sono scrittori diversi tra loro, nello stile e a volte anche nei propositi. Hanno conquistato uno spazio in libreria ma, prima di tutto, per la qualità e l'originalità della loro scrittura. Già, perché in definitiva si tratta di Letteratura, senza se e senza ma, di letteratura italiana.
Già negli anni 1990 erano uscite le prime opere scritte da autori immigrati in Italia. Erano nate nell'urgenza (e questa caratteristica resterà in parte anche nelle opere più recenti). Urgenza di raccontare, di spiegare, di far capire una realtà che era fino ad allora descritta unicamente da chi non la viveva. Fatti drammatici, come l'omicidio di Jarri Maslo, il giovane sudafricano assassinato a Villa Literno nel 1989 erano serviti da scintilla. In questa prima vague il migrante era più testimone che autore, almeno così pensavano gli editori che consideravano necessario affiancare al narratore uno scrittore “professionista”, capace di mediare un scritto troppo rozzo. Fu così che nacquero opere firmate da binomi: ricordiamo tra tutte Io venditori di elefanti di Pap Kouma e Oreste Pivetta, pubblicata nel 1990. Pap Kouma, di origine senegalese è oggi, tra l'altro, direttore della citata rivista El Ghibli.
Tra coloro che decidono di prendere così la parola ci sono dunque dei veri scrittori. Molti hanno fatto il gesto estremo dell'esilio e hanno ottenuto le cittadinanza italiana. Si tratta di un gesto estremo perché predice un non ritorno, un allontanamento definitivo sempre traumatico dal paese natale. E questo gesto, eminentemente politico ma anche ricco di implicazioni personali, ha avuto come motivazione-corollario l'appropriazione di una lingua che non è quella materna. Ciò non vuol dire rompere i ponti con il passato, tantomeno rinnegare la propria storia. Per dirla con le parole del filosofo francese Gilles Deleuze, è seguire une linea di cresta, in equilibrio tra due mondi, senza rinnegare il primo né adottare ciecamente il secondo, creando uno spazio nuovo che non è semplicemente una sintesi dei due.*
Cheikh Tidiane Gaye è di origine senegalese. Scrive romanzi (l'ultimo, pubblicato da Jaca Books nel 2013 è Prendimi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera), è traduttore in Italiano di Léopold Sédar Senghor ed è anch'egli poeta ormai riconosciuto, un poeta impegnato, anche politicamente. Cheikh Tidiane Gaye si definisce figlio oltre che di Senghor anche di Aimé Césaire da cui ha ripreso il concetto di negritudine. Rifiuta la categoria di poeta migrante. Ha scelto l'Italiano per passione, passione per le opere dei grandi autori del passato, a partire da Dante, fino a Leopardi e a Ungaretti. Cheikh Tidiane Gaye ha letto la poesia civile di Pasolini. Ecco come spiega la sua scelta linguistica: Quando partorisco i miei versi, le parole mi vengono in italiano. Mia madre vive in Senegal e spesso mi fa notare che non parlo più bene il wolof, c’è una mescolanza notevole di parole wolof e italiano. Cosa possiamo analizzare partendo da questa costatazione? Mi domando veramente chi sono, chi siamo? Ci stiamo “colonizzando” spontaneamente e/o linguisticamente? Per nulla, credo. A mio parere sono gli effetti dell’interculturalità e della multiculturalità. Ecco la bellezza dell’intercultura, l’unico strumento idoneo per “universalizzare” l’umanità e che permette di poterci arricchire l’un l’altro.
Sotto il titolo Rime abbracciate sono raccolte le sue ultime poesie, pubblicate insieme a quelle della poetessa Maria Gabriella Romani Kouacou, in edizione bilingue (Italiano/Francese) dall'editore L'Harmattan nel 2012.
Tra le voci più interessanti di questa nuova letteratura emerge anche quella di Kossi Kombla-Ebri. Nato nel Togo, dopo aver cominciato i suoi studi in Francia, è arrivato in Italia nel 1974 dove ha studiato medicina laureandosi all'università di Bologna. Attualmente vive e lavora in Lombardia.
Ricca e varia e la sua bibliografia: dal racconto al romanzo. Kombla-Ebri è anche l'inventore di un neologismo imbarazzismi che ha scelto come titolo per una raccolta di piccole storie di fatti quotidiani, che mettono in luce situazioni di razzismo ordinario, volontario o inconsapevole.
Per Kombla-Ebri scrivere in Italiano è un'evidenza. È la lingua delle persone che incontra e con cui parla ed è a loro che si rivolge con i suoi scritti. E da loro che vuole farsi capire. Migrare -spiega Kossi Kombla-Ebri- significa lasciare tre madri: quella corporale, la madre terra e la lingua madre. A differenza del Francese, lingua dei colonizzatori, verso l'Italiano non c'è rancore anche se abbandonare la propria lingua non è mai un passo agevole: ci si installa in una doppia assenza, dal paese natale e dal paese che ci accoglie. Aggiunge Kombla-Ebri, con un'immagine ricca di senso: L'emigrazione è come spostare un'anima da un corpo ad un altro.
Spesso chi sceglie di scrivere in una lingua diversa da quella natale non l'assume però nel suo filone ortodosso, si colloca invece in una dimensione minore della lingua. Non una lingua minore, ma che resta sui bordi, come in atto di resistenza; perché non è macchina di potere ma linea di fuga*. Quando si è al margine -dice Kossi Kombla-Ebri- si ha una visione più aperta del mondo, mentre se si è al centro non si vede ciò che è alle spalle.
La letteratura migrante ha sempre un ruolo costruttivo, quasi taumaturgico. Essa deve vincere la nostalgia, la saudade. Come nel pensiero presocratico dove l'Essere non esiste per sé ma nella sua relazione con gli altri.
Ecco quindi che nel contemporaneo di una società umana che sembra richiudersi, in cui l'altro è sinonimo di pericolo, queste voci sono necessarie, salutari, aprono una finestra sul mondo, permettono di cancellare stereotipi e pregiudizi. Che la lingua italiana, bistrattata tra premier autority e altri tic anglofoni serva da vettore in questo processo è un fatto estremamente positivo.
*Gérard
Briche
Cheikh
Tidiane Gaye: Vita La vita è una strada
è una strada che accoglie il sole e la luna
la vita è blu
la vita è bianca
la vita è rossa
la vita ha più di due ali
vola, vola nei cieli blu
grigi
la vita non ha colore.
Essa è una duna di sabbia
che nasconde le nostre scritture
le nostre opere
i nostri sogni
e il nostro respiro.
La vita è una parola
la parola può diventare un’arpa per l’anima
ogni parola può essere una luna
la vita è:
il linguaggio che l’orologio non conteggia.
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