La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 24 giugno 2012

Colfiorito di Foligno

Sui bordi della strada qualche contadino vende sacchetti di patate rosse, prodotto tipico della zona. Nella domenica soleggiata un gruppo di ciclisti passa chiacchierando allegramente. Il percorso, dopo una bella salita, è qui quasi pianeggiante e i pedalatori possono tirare il fiato. 
Prima di lasciare l'Umbria e di addentrarsi nella provincia di Macerata, la statale 77 della Val di Chienti attraversa gli altipiani Plestini, così chiamati dal nome dell'antico municipio romano di Plestia. La regione era popolata già prima dell'arrivo dei romani, scavi archeologici hanno riportato alla luce reperti dell'età del bronzo. 
La cresta dell'Appennino non è qui molto elevata e questa zona era un punto importante di collegamento tra la costa tirrenica e quella adriatica. Sono ancora visibili il Castelliere del monte Cassicchio, una costruzione fortificata di origine preromana, poi rioccupata nel medioevo e la chiesa protoromanica di Santa Maria, situata esattamente sul confine tra Umbria e Marche.
Oggi questo altopiano è meglio conosciuto con il nome di Colfiorito, la frazione di Foligno che qui si trova. Sono sette conche carsiche, ormai prosciugate. Solo una è ancora occupata da una palude, di un certo interesse ecologico, luogo essenziale del parco naturale omonimo.
La strada statale aggira il centro del paese e quest'ultimo sembra un po' addormentato nella mattinata domenicale. Colfiorito fu violentemente colpito dal terremoto del 1997 e le conseguenze sono ancora visibili.
All'ingresso del borgo prendiamo la strada ai piedi del monte Orve, che va verso Forcatura, un'altra piccola frazione sul colle vicino. Il percorso aggira la palude, passando vicino alla cosiddetta casa del Mollaro e all'antico inghiottitoio salendo poi verso l'abitato di Forcatura bel punto panoramico sulla valle.
La palude è un punto di osservazione privilegiato per gli appassionati di avifauna, molte specie rare, airone, germano reale, gufi, nidificano o sostano tra i canneti. Noi non siamo stati molto fortunati, o magari non abbastanza pazienti e ci siamo accontentati del panorama.

mercoledì 13 giugno 2012

Via Centrale

Una canna di fucile, pesantissima, serviva, soffiandoci dentro, a ravvivare il fuoco del camino. Le pigne, raccolte durante l'autunno nella pineta sovrastante il paese, odoravano e il fumo, prima di salire, si allargava sulle mattonelle annerite.
Stava, dal mattino alla sera, seduta sulla poltroncina di vimini. Vestita di scuro, di fustagno ruvido e spesso; solo un grembiule un po' più chiaro colorava la figura. Un fazzoletto nascondeva i capelli bianchi, raccolti in una treccia arrotolata sulla nuca. Ogni tanto guardava l'ora, in un orologio da tasca che bisognava aprire. Sul coperchio uno sbalzo rappresentava un treno a vapore. Era il regalo che un cugino, andato in Francia per lavorare in miniera, aveva, al ritorno, portato a suo marito e che lei aveva conservato dopo la morte di quest'ultimo. Era seduta accanto ad una macchina da cucire di marca americana in legno e ghisa sulla quale stava una tovaglia bianca di lino che la figlia aveva ricamato. In uno dei cassettini, oltre all'orologio, conservava un coltellino usato per sbucciare la mela mangiata dopo pranzo. Più che un vero coltello era un ciondolo, decorato sul manico con l'immagine colorata di un santo, ricordo di un pellegrinaggio di gioventù, al di là delle montagne.
Appoggiava i piedi su un bracere di rame, sempre lucido e brillante, sostenuto da un supporto di fòrmica. La brace era coperta da un velo di cenere. Sgranava un rosario di grani neri, guardando la strada al di la della vetrata e della pesante porta sempre aperta, sulla quale il vento faceva muovere la tenda fatta all'uncinetto.
Dalla sedia si vedevano i larghi gradini della via in salita. Il cielo era grigio e basso, la luce del breve pomeriggio si stava spegnendo ma la neve, forse l'ultima della stagione, si era ormai sciolta e la stada, ridotta fino a qualche giorno prima ad uno stretto passaggio, era adesso pulita. I passanti però erano ancora rari, la loro apparizione costituiva quasi l'avvenimento della giornata. Allora, se si trattava di un conoscente, prima di proseguire il cammino si fermava sulla soglia e scostava la tenda, salutandola
Capitava che qualcuno entrasse, una vicina o qualche parente venuto in visita. Allora si prendevano notizie, si rievocavano avvenimenti passati, si offriva il caffé o il liquore tenuto apposta per queste occasioni..
Passavano così i giorni, nel ritmo blando e sempre uguale delle azioni quotidiane. Erano ormai anni che non usciva più. Da quell'ormai lontano inverno in cui il gelo e della neve l'avevano costretta a rinunciare alle sue, pur rare, escursioni settimanali fino alla messa della chiesa parrocchiale. La primavera era tornata ma ormai i suoi passi erano troppo insicuri per permetterle di salire la lunga scalinata che portava lassù. Così il suo orizzonte, già modesto, si era ristretto ancora un po', limitato a quello scorcio di strada che la porta aperta lasciava intravedere e alle notizie che ogni tanto qualcuno le raccontava.

domenica 3 giugno 2012

Abbazia di Sassovivo: la lecceta

Dall'abbazia di Sassovivo, risalendo per qualche centinaio di metri lungo la strada asfaltata, si arriva ad un'altra, più modesta, costruzione a forma di loggia. 
È la cripta del beato Alano un venerato monaco che visse quassù morendovi nel 1313. È proprio dove oggi si trova la cripta che la prima comunità benedettina aveva deciso di installarsi. La scelta sembrò però infelice (il terreno era poco stabile) e fu così che i monaci optarono per il luogo, più roccioso, un po' più a valle dove l'abbazia si trova tuttora.
Subito dopo, la strada fa un'ampia curva a destra ed è qui che la si abbandona e ci si inoltra, a sinistra, nel bosco seguendo la mulattiera che risale le pendici del monte.
La lecceta di Sassovivo copre un territorio assai ampio, tra il monte Serrone, su cui ci troviamo e il monte Aguzzo. Tra i due è il Fosso Renaro, una profonda valletta anch'essa coperta dagli alberi.
È un bosco secolare, probabilmente quello che resta, con quello di Monteluco sopra Spoleto e quello dell'eremo delle carceri del Subasio di una ben più ampia foresta che doveva coprire la dorsale della valle Umbra. 
Le comunità monastiche si sono spesso installate in luoghi già carichi di richiami religiosi, come lo erano le leccete per i popoli italici ed è forse questa sacralità che ha, almeno in parte, preservato i boschi.
La salita è ombreggiata e fresca, abbastanza ripida tra gli alberi e gli arbusti di corbezzolo che rendono il bosco impenetrabile al di fuori del sentiero. Poi, più in alto, gli alberi diventano più radi.
Nel silenzio del mattino ascoltiamo gli uccelli che salutano la bella giornata.
Arriviamo ad un belvedere che si apre sulla valle del fiume Menotre l'affluente del Topino che ci separa dal monte di Pale. 
La mulattiera si trasforma in sentiero e poi si perde in una bella radura. Bisogna attraversarla, continuando a salire un po' verso destra, senza lasciarsi ingannare dalla via, ben più visibile che scende verso la valle. 
Il sentiero ricomincia nel bosco e la passeggiata continua, tra fiori e erbe. Arrivati nel punto più alto dell'escursione il panorama spazia verso i monti Sibillini ancora innevati alla fine di aprile. 
Scavalcato un ultimo passo, la via comincia a scendere verso l'abitato di Casale che appare da lontano. Intanto il sentiero e ridiventato mulattiera e poi carrareccia. 
Arriviamo nel paesino, tranquillo e silenzioso; solo un gatto ci saluta sulla piazzetta.
Uscendo da Casale si vede, a destra, la strada percorsa che scende dal monte Serrone.
Da Casale si riscende verso Sassovivo, lungo il fosso Renaro, lasciando il monte Serrone sempre sulla destra.

venerdì 25 maggio 2012

L'abbazia di Santa Croce di Sassovivo (Foligno)

Nel bel chiostro dell'Abbazia un frate passeggia sotto il portico leggendo un libro di preghiere. 
Ci sorride e ci augura il buongiorno senza interromere il suo viaggio attorno al colonnato. 
Porta un saio, o piuttosto una tunica bianca, e una sciarpa dello stesso colore. Fa parte della comunità dei Piccoli fratelli di Jesus caritas seguace degli insegnamenti di Charles de Foucauld e che dal 1979 governa e fa vivere il luogo. 
Al centro del cortile è un pozzo con notevoli decorazioni in ferro battuto, costruito nel XVII sulla cisterna sottostante.
Il tempo, le vicissitudini della Storia e soprattutto i terremoti, l'ultimo nel 1997, hanno danneggiato più volte le costruzioni. Il chiostro, costruito nel XIII secolo (una scritta precisa il 1229) è stato restaurato più volte ma resta, con le sue eleganti colonnine in doppio ordine, la parte più artistica dell'abbazia. Fu costruito a Roma, dagli artigiani della scuola della basilica dei Santi Quattro Coronati, dipendente dall'abbazia stessa, poi trasportato e montato quassù. 
Più avanti, in una loggia, si possono osservare i frammenti di affreschi monocromi realizzati nel Quattrocento.
I monaci di Sassovivo ebbero il loro periodo più fasto nel XIII secolo quando l'abbazia dirigeva e controllava quasi cento monasteri in un ampio territorio tra Perugia e Roma.
Siamo sulle pendici del monte Serrone. Sotto di noi sono la città di Foligno e la valle Umbra. Una bella lecceta copre la montagna. Questo bosco era considerato un luogo sacro già nell'antichità ed è anche per questo che è stato conservato e rispettato nel tempo. 
L'Abbazia di Santa Croce di Sassovivo è costruita su una roccia che domina la valle.
Queste montagne dovevano essere già da tempo territori di eremitaggio per mistici che cercavano luoghi dove isolarsi nella meditazione. La tradizione racconta che fu un certo Mainardo eremita anche lui, a riunire, nel 1082, la prima comunità che decise di seguire l'insegnamento di San Benedetto.
I primi monaci, benedettini, arrivarono a Sassovivo nell'XI secolo quindi ma pare che qui ci fosse già una rocca fortificata di origine longobarda.
Nella bella giornata di sole primaverile il luogo è attaente e armonioso. Colpisce il silenzio, forse ancora più evidente nella vicinanza della città sottostante.


venerdì 18 maggio 2012

Salvatore Quasimodo: Vento a Tindari

L'opera di Quasimodo è stata letta con enfasi. Foga di elogi, quando l'epoca voleva farne emergere l'impegno morale; pour sapendolo lontano dal neorealismo, nella figura del poeta militante si voleva ritrovare l'immagine dell'intellettuale che Gramsci aveva descritto. Foga di critiche da chi sosteneva che la poesia per essere tale dovesse elevarsi dal terriccio del presente.
Poi gli anni passarono, l'urgenza sociale lasciò le scrivanie della critica letteraria e nemmeno il premio Nobel bastò ad evitare a Quasimodo l'ironia o il silenzio sufficiente. Quello che era stato fonte di elogi divenne grave difetto, sola spiegazione di una fama altrimenti immeritata.
A distanza di anni, sbarazzata la sua poesia dalle fronde e dai fronzoli, rileggiamo qualcuno di quei versi senza il peso del contesto.
Lasciamo da parte la parafrasi scolastica, la ricerca del codice ermetico e le metafore troppo precise. Dimentichiamo anche la posa dell'autore, austero, malinconico, triste nel rimpianto un po' barbante. Resta la musica di un verso che, per un istante ferma il correre del tempo.
E chissà, forse ci ricorda qualche personalissima Tindari.
VENTO A TINDARI.
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

mercoledì 9 maggio 2012

Valle Tamantina aprile 2012

Siamo arrivati sotto la pioggia, accolti a braccia aperte, con il sorriso dei nostri ospiti, un bicchiere di vino e i buoni biscotti fatti in casa. 
È stato piacevole accendere il camino. L'odore della legna e lo scoppiettare del fuoco scacciano rapidamente l'umidità della sera. 

Pioverà ancora durante la notte ma poi la mattina sarà illuminata da un bel sole che ci scalderà per quasi tutta una settimana.
Tra gli alberi della fitta pineta gli uccelli si scambiano messaggi con gridi perentori. 
I prati sono di un verde splendente, puntecchiato qua e là da macchie di fiori.
Una bella passeggiata si allunga tra le colline tra gli antichi borghi di Bevagna. Da Castelbuono a Limigiano, tra ulivi e vigne è un'esposizione di sculture monumentali. 
Ma la vera attrazione è questo bel panorama, limpido nell'aria lavata dalla pioggia notturna.

mercoledì 25 aprile 2012

Anna Maria Panzera: Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose.

Il luogo comune parla del Rinascimento come dell'epoca in cui l'Uomo sostituisce Dio al centro dell'universo. Vero, ma un po' riduttivo. Come il Medioevo, periodo complesso e non semplice grande «buco nero» in 1000 anni di Storia, anche il Rinascimento non deve essere visto come un blocco monolitico e uniforme. Il mondo di Botticelli non è lo stesso di Michelangelo Buonarroti. Soprattutto il Cinquecento fu un secolo chiave, secolo di guerre e di violenza (nel 1527 i lanzichenecchi saccheggiano Roma), secolo di nuove teorie scientifiche (tra tutte quelle di Copernico). Nelle menti più audaci l'arte, ma anche la scienza, andavano già oltre l'umanesimo. Anche la prospettiva, che sembrava  poter permettere all'Uomo di controllare lo spazio, finiva per fare emergere i limiti della rappresentazione. L'universo di apriva, l'antropocentrismo mostrava i suoi limiti e le sue insufficienze per spiegare la realtà.
Giordano Bruno e Caravaggio sono tra coloro che vanno più lontano su questa via. Senz'altro troppo lontano e troppo presto per essere capiti dai loro contemporanei.

Anna Maria Panzera, storica dell'arte e collaboratrice di importanti istituzioni museali ha cominciato ad interessarsi ai rapporti tra l'opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio e quella di Giordano Bruno in una tesi di laurea, poi ampliata e pubblicata nel 1994. In questo nuovo saggio sviluppa e approfondisce la sua ricerca iniziata, dice l'autrice, nel concreto della materia, con lo studio della tecnica del pittore lombardo: partire da un fondo scuro per fare emergere l'immagine, dare sostanza all'ombra, rilevare il colore del nero.

Il filosofo e il pittore sono entrambi nella Roma della fine del Cinquecento ma per motivi ben diversi.
Dopo il pontificato di Giulio II, la città ha sostituito Firenze come capitale culturale della penisola. È là che Caravaggio arriva nel 1592 in cerca di committenti e di fama. L'anno seguente arriva il filosofo, e non di sua volontà: accusato di blasfemia e di eresia, è consegnato dall'inquisizione veneziana a quella romana. La sua teoria sull'infinità dei mondi non poteva essere accettata dalla gerarchia cattolica. Non si trattava solo di una diversa interpretazione dell'universo ma di una messa in discussione dei principi basilari della dottrina. Era Dio stesso ad essere scosso dal suo trono. Bruno uscirà dal carcere solo per salire sul rogo, nel 1600. Oggi una statua, eretta alla fine dell'Ottocento, in uno dei rari momenti in cui il potere politico italiano seppe affrancarsi dalla tutela vaticana, lo ricorda sulla piazza di Campo de' Fiori.

Vita inquieta anche quella del pittore, il cui carattere impetuoso gli procurò non pochi guai con la giustizia, fino all'ultima fuga, dopo l'ultima rissa conclusasi con la morte del suo avversario. Caravaggio, condannato alla decapitazione, scappò da Roma, verso Napoli, Malta, la Sicilia poi ancora Napoli fino a Porto Ercole dove le febbri intestinali lo fecero morire.
Anche lui, nel suo campo, era considerato un eretico. La sua pittura violava tutte le regole: regole di grazia e di moderazione, di bellezza e di decoro. Regole artistiche quindi, ma anche religiose. Il clima culturale nella città papale si era, dopo il Concilio di Trento, fortemente oscurato. Sotto l'egida del cardinale Carlo Borromeo la Controriforma aveva colpito ogni tentativo di allontanarsi dai dogmi. Ormai un'apposita commissione valutava la decenza delle rappresentazioni sacre e quelle di Caravaggio erano spesso fuorilegge: troppo volgari, troppo crude, poco rispettose dei soggetti rappresentati.

Quasi sicuramente Giordano Bruno e Michelangelo Merisi non si incontrarono mai. Chissà, forse Caravaggio era tra la folla che assistette al rogo del filosofo ma nulla lo può confermare. Il pittore poi non era, per utilizzare un anacronismo, un «intellettuale». Quando scappò da Roma il proprietario della casa in cui aveva abitato fece fare un inventario delle cose che aveva lasciato. Qualche studioso ha ipotizzato che tra i sei libri trovati ce ne fosse uno del filosofo, ma anche questo nessuno può confermarlo. Dal canto suo Giordano Bruno rinchiuso in carcere non poté certo vedere i quadri del pittore.
Il legame tra le teorie del filosofo e le opere di Caravaggio non è quindi da cercare nell'applicazione pratica di testi studiati a tavolino. Nonostante tutto però, nei quadri del pittore i richiami alla visione della realtà descritta da Bruno sono più che un semplice eco.
I personaggi rappresentati sono profondamente umani, troppo umani hanno detto i detrattori: tra tutti un esempio emblematico è quello della Morte della vergine: una giovane morta con il ventre gonfio, la pelle livida, i piedi scoperti fino alle caviglie; scandaloso e irriverente, realismo esacerbato prontamente rifiutato dai committenti.
Ma un artista che non sia solo artigiano, e questo già in Michelangelo Buonarroti era chiaro, non deve semplicemente copiare la realtà, deve sapere superarla, vedere al di là. Ed è così che le opere di Caravaggio non si fermano mai alla semplice rappresentazione naturalistica, esse scuotono la stabilità del soggetto e ne fanno emergere un altrove in cui il reale è superato. Così il canestro di frutta, dipinto tra il 1597 e il 1601, non è semplicemente una grande prova di tecnica pittorica. La capacità del pittore di riprodurre il più piccolo dettaglio, lo sfumato e la vivezza dei colori destano l'ammirazione. Ma poi, ad una seconda lettura del dipinto sorgono una serie di domande: perchè il canestro non è al centro del quadro? Sembra schiacciato dal lato in cui il peso delle frutta è meno forte. Cosa sono quelle foglie accartocciate? E quel ramo che sembra non avere appoggio? Ed ecco che l'immagine di ciò che è vero è superata da un altrove che non può essere circoscritto dalla razionalità.
Ed è qui il legame concreto con il pensiero di Giordano Bruno.
Il filosofo parte dall'osservazione del reale per superarlo. E non ha caso è per lui essenziale il ruolo che ha il linguaggio e soprattutto la poesia come lo sottolinea Anna Maria Panzieri: Al fine di vivere ed esprimere l'esperienza umana e filosofica, infatti, la poesia svolge una funzione essenziale: senza le potenzialità creative della poesia, senza la sua attitudine al superamento dei limiti razionali, l'intelletto si dimostra insufficiente a concepire il visibile e l'invisibile che fanno l'autenticità delle cose, di cui il linguaggio non dà i nomi, né compone con i segni astratti la sembianza che a loro corrisponde. Perché non sempre si può conoscere ciò che è vero, spesso si conosce prima l'immagine di ciò che è vero. E in questo la poesia è come la pittura, l'intelligenza come un pittore.*
È poi nella rappresentazione dell'ombra che la pittura di Caravaggio sembra esprimere più concretamente la sua coerenza con la lezione di Bruno. Quest'ultimo aveva sottolineato nei suoi scritti l'importanza dell'ombra capace, proprio nascondendo il reale, di farne emergere la sostanza. Nel trattamento delle ombre, Caravaggio rinnega radicalmente i codici artistici dei suoi predecessori e contemporanei. Così aveva scritto Leonardo: Il lume tagliato dalle ombre con troppa evidenza è sommamente biasimato da' pittori, onde, per fuggire tale inconveniente, se tu dipingi i corpi in campagna aperta, farai le figure non illuminate dal sole, ma fingerai alcuna qualità di nebbia o nuvoli trasparenti essere interposti infra l'obietto e il sole, onde, non essendo la figura del sole espedita, non saranno espediti i termini delle ombre co' termini de' lumi.**
Michelangelo Merisi imbocca la strada contraria. Poco a poco nei suoi dipinti i contrasti sono accentuati. Le fonti di luce si moltiplicano, le ombre portate diventato sempre più presenti, più nette, rompono l'armonia della composizione. Ma nello stesso tempo lasciano il pensiero vagare alla scoperta di mondi che sono al di là di quello apparente. Emerge una forma nuova, creata dall'invisibile che prevale, una forma che è là dove la luce non arriva, nell'ombra e nel buio.
Ed è su questa analisi che Anna Maria Panzera esprime una ipotesi per spiegarne il senso:
[...]non percezione ottica, semplice assenza di luce. Per lui, sull'orlo di sempre imminenti cadute e tenace nell'opporvisi, potrebbe significare l'intuizione e figurazione della spinta a scivolare in uno spazio di non-esistenza, agìta dall'esterno a sue spese, eppure riscattata irrazionalmente dall'artista nella creazione di un'immagine. Lo sentiremmo pronunciare le parole che furono di Bruno: «[...] è[...] la moltitudine che non mi contenta, una che m'innamora: quella che sono libero in suggettione, contento in pena, ricco nella necessitade et vivo ne la morte.»***

A. M. Panzera: Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose.  
Ed. L'asino d'oro Roma 2011*p. 85
ibidem ** p. 126
ibidem *** p. 138