La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 15 aprile 2016

Colmar, la Madonna del roseto

Colmar festeggia la primavera.
Certo il cielo è ancora un po' grigio e ogni tanto qualche goccia di pioggia fa aprire gli ombrelli ma turisti e abitanti non rinunciano alla passeggiata domenicale tra i banchetti del mercatino e i negozi aperti di dolciumi e ricordini.
Anche i tavoli dei bar sono affollati e tutti approfittano della giornata più calda e della luce più brillante del mese di aprile.

Gli accenti sono già tedeschi in questa piana di Alsazia a lungo contesa tra Francia e Germania.
La città si allarga quasi fino alle prime colline coperte di vigneti. Più in alto, verso ovest, la cresta arrotondata delle montagne dei Vosgi è coperta da scure pinete che trattengono qualche nuvola sfilacciata.
Il centro storico di Colmar ha conservato le abitazioni caratteristiche della regione.
Le facciate delle case, spesso di colori vivi, sono sottolineate dai tratti scuri delle travi in legno apparente, a volte un po' sgembe.
Gli edifici più importanti mostrano fieramente i tetti dalle tegole colorate e brillanti. Più austeri, i palazzi delle istituzioni ufficiali: tribunale, caserma, municipio sembrano contrastare con la loro severità.

Venditori di cioccolato, di stoffe e di miele si alternano nel mercatino che attira molti curiosi.
Un canale centrale su cui vanno e vengono barche cariche di turisti, sfiora i giardini delle case.
È la “Petite Venise”, la Piccola Venezia. Sono i pontili che permettono l'accesso dalla barca alla casa che hanno ispirato il soprannome, qualcuno dirà un tantino usurpato, ma perché no.

Attraversiamo la piazza passando sotto l'arco dell'antica dogana, risalendo le stradine animate.

La chiesa dei Domenicani è stata ormai trasformata in museo per accogliere un'unica opera, la celebre pala d'altare di Martin Schongauer La vergine del roseto. Il dipinto del 1473 era stato realizzato per la cattedrale della di San Martino. Due ante traforate in arabeschi e dorate racchiudono il dipinto. Il vestito della madonna occupa quasi interamente la parte inferiore del quadro, si eleva a piramide lasciando apparire ai lati il roseto tra le cui foglie, su uno sfondo d'oro, appaiono i fiori rossi. La donna e il bambino sembrano emergere dal sontuoso panno rosso del vestito. In alto gli angeli sembrano danzare reggendo la corona della vergine. La madonna e il bambino guardano in direzioni opposte. Le teste inclinate e i tratti austeri dell'arte gotica sono sorprendentemente attenuati, se non cancellati, dal rosso brillante delle labbra dei due personaggi.
Le bocche
quasi sensuali e il tondo del mento sono i soli dettagli che uniscono con una certa somiglianza la madre e il figlio. Il rosso è lo stesso delle rose che circondano i due volti. Le lunghe dita del figlio accarezzano teneramente il petto della madre all'orlo superiore del vestito mentre l'altro braccio passa attorno al collo e lascia spuntare le esili dita tra i capelli ondulati della donna. Anche le dita della madre sono di un'estrema lunghezza e sorreggono affettuosamente e delicatamente il bambino. Entrambi hanno uno sguardo malinconico, quello di un sorriso che si è appena spento, un'attimo di gioia interrotto da un pensiero grave, quello di un destino drammatico che incombe e al quale non si potrà sfuggire.

mercoledì 30 marzo 2016

domenica 20 marzo 2016

Ascoli Piceno

Luca scendeva raramente dalle sue montagne, lasciando la Sibilla e i venti freddi delle creste. Preferiva vagare per quei campi sperduti dov'è più facile incontrare un lupo che un uomo. Aveva l'impressione di aver sempre vissuto lassù, all'inizio non per scelta ma a causa della circostanze. Una sosta più lunga del previsto che aveva modificato il provvisorio senza trasformarlo in definitivo ma attenuando nell'orizzonte futuro l'idea di un cammino da riprendere. All'inizio si perdeva tra quei valloni ugualmente tondeggianti e spogli. Allora, per ritrovare la via, saliva sulla cresta più vicina. Fu così che un giorno in cui si era spinto un po' più lontano, scoprì le ultime balze e poi la piana che scendeva fino al mare. Per lui la città nella valle era una macchia lontana immobile e un po' misteriosa. Non fu allora che quel mondo diverso lo attrasse. Si era abituato alla rarità degli incontri e alle parole soppesate con parsimonia. Ma un giorno, senza averlo previsto, il suo vagabondare lo portò ai limiti della cittadina. Quando si trovò a percorrere la vie dell'antico borgo scoprì un mondo sconosciuto.
Nel sole il travertino brillava e rifletteva la luce come la scena di un teatro.
Ascoli è una delle tante piccole capitali che la storia ha sparso lungo la penisola italiana.
Al limite meridionale delle Marche, vicina agli Appennini ma anche all'Adriatico, appare in effetti come un grande borgo tranquillo e allo stesso tempo vivo e animato.
I suoi abitanti sono fieri della bella Piazza del Popolo “la più bella d'Italia” la definiscono, forse non a torto.

Si passeggia tra le strade e le piazzette del centro storico, alzando lo sguardo sorpresi da eleganti facciate e scorci più modesti ma altrettanto sorprendenti.
La leggenda racconta di un picchio che accompagnava un gruppo di Sabini e che indicò loro il luogo dove installarsi. L'uccello compagno di viaggio dette il nome al popolo che lo seguiva: i Piceni.
Ascoli è un po' fuori dalla vie turistiche che attraversano la regione ed anche il viaggio dei letterati europei alla scoperta dell'Italia letta sui libri non passava da queste parti.
Si ricorda però qualche eccezione, come quella di André Gide. Lo scrittore francese raccontò la sua sosta a Ascoli, piacevolmente sorpreso dall'armonia del luogo:
“Ascoli Piceno è una tra le più belle città d'Italia, e non ne vedo altra che le assomigli. Bella come alcune città della Francia del Sud, non tanto per questo o quel monumento, ma per il suo complesso, la qualità antologica, l'incanto che viene da nulla e da tutto.”



giovedì 18 febbraio 2016

Luigi Mucciante: Castel del Monte e il suo dialetto

Così scriveva Luigi Mucciante nell'introduzione al suo Vocabolario del dialetto di Castel del Monte, pubblicato nel 2007:
Un motivo puramente affettivo mi ha sollecitato a compilare questo vocabolario. Non era nelle mie intenzioni per una materia complessa e così articolata per i suoi aspetti linguistici, e tanto meno lo è nella conclusione, dare al lavoro un'organicità razionale ed una completezza sistematica, sia per quanto riguarda l'aspetto grammaticale che quello lessicale.
Compilare un dizionario per un dialetto parlato ormai probabilmente solo da qualche centinaio di persone è certamente un lavoro fatto di passione e, come lo sottolinea nella prefazione il linguista Francesco Avolio, un'opera che assume, naturalmente, un carattere personale e soggettivo. Portata all'estremo, la tesi è che, in ambito dialettale, cioè in un contesto non classificato, come invece accade per una lingua di uso più vasto e letterario, da norme codificate e comunemente accettate, ogni singolo locutore ha, per un singolo termine, le sue specifiche e personalissime accezioni, la sua specifica pronuncia, entrambe diverse da ogni altra, anche da quelle del suo vicino più immediato. A questa prima elementare discordanza se ne aggiungono altre, secondo i mestieri, il grado di istruzione e di assimilazione della lingua letteraria, i contatti più o meno frequenti con altri dialetti.
Per fare un solo esempio, ormai largamente conosciuto, per quel che riguarda i paesi di transumanza, come lo era Castel del Monte, è evidente il divario tra la pronuncia femminile e quella maschile, quest'ultima influenzata dai lunghi periodi di contatto con la parlata del Tavoliere pugliese.
A ciò va aggiunta, come d'altronde lo sottolinea Luigi Mucciante nell'introduzione, la diluizione del dialetto nella lingua nazionale, diluizione sempre più rapida perché favorita dai mezzi di comunicazione di massa e dalla frequenza degli scambi e dei contatti esterni ormai acceleratasi senza comune misura.
Così termini più arcaici tendono ad essere sostituiti da altri che sono la derivazione dialettale dall'italiano. Ad esempio l'espressione interrogativa Cammó, probabilmente un antico gallicismo -dal francese comment-, tende a scomparire, sostituita da pecché.
Il relativo isolamento del borgo di montagna ha però, per un tempo, frenato questa diluizione. Se si escludono le generazioni più giovani, il dialetto resta, in ambito comunale, ampiamente praticato e diffuso. Questa pratica è poi favorita con il rientro estivo degli emigranti dall'estero per i quali esso rappresenta spesso l'unica lingua comune con gli abitanti.

Castel del Monte in campo linguistico è una terra di confine. Nel 476 alla caduta dell'Impero romano d'occidente, il latino parlato non era già più quello di Augusto. Gradualmente il sistema linguistico centralizzato si era affievolito analogamente alla potenza dell'Impero.
Erano riemersi ormai influssi delle lingue italiche prelatine che avevano resistito all'uniformazione soprattutto quando si trattava di esprimere competenze e informazioni di ambito locale; si era accentuata la presenza di popolazioni entrate recentemente nel territorio imperiale e che parlavano lingue diverse; si accresce il divario tra la lingua parlata e quella scritta.
A poco a poco la contaminazione del latino si accentua in un processo che dura secoli. Gli studiosi fanno risalire al 960 l'apparizione del primo documento scritto in una nuova lingua.
Sono i famosi Placiti cassinesi:
Sao ke kelle terre, per kelle fini che ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedecti.
Ma a questo punto lingua scritta e lingua parlata, lingua letteraria e lingua d'uso hanno già preso strade differenti. La suddivisione territoriale aveva contribuito a tracciare i confini delle famiglie dialettali.
In Abruzzo questa linea di confine separa l'area sabina ( L'Aquila, Carsoli, Tagliacozzo) da quella meridionale. Castel del Monte si trova quindi al limite nord occidentale di quest'ultima.
Forse anche per questa situazione particolare (isolamento geografico e nello stesso tempo contatto con aree differenti (l'aquilana e la pugliese) hanno fatto di Castel del Monte un'isola dialettale nell'abito regionale. Anche qui un solo esempio: il sistema assai complesso degli articoli determinativi. Ru è infatti l'articolo singolare che traduce l'italiano il, originale anche rispetto ai comuni vicini. Ma, in casi particolari, come lo spiega con precisione Luigi Mucciante, lo stesso il diventa le (da pronunciare con la e muta).
Al di là dell'accurato studio linguistico, Castel del Monte e il suo dialetto è un libro che ci propone l'immagine di una comunità in un momento storico preciso e irripetibile. I vocaboli del libro ci raccontano un universo scomparso nel quale la dote della sposa le béglie veniva portato in corteo, sulla testa delle donne e sopra i muli appositamente 'nzullunete (infiocchettati), o alla fine di un lavoro impegnativo c'era ru cuapecanale (il rinfresco). Nell'evoluzione linguistica, ininterrotta e inarrestabile abbiamo la fotografia di un mondo passato, uno strumento non solo per gli studiosi e la cui importanza aumenterà probabilmente col tempo.

domenica 7 febbraio 2016

Tournai e la sua cattedrale


Arriviamo a Tournai seguendo il fiume Schelda che qui, nel Belgio francofono si chiama Escaut.
Il corso d'acqua è canalizzato ed è un'importante via di comunicazione tra Olanda e Francia. L'ultima chiusa prima della città si sta svuotando e una chiatta attende ormeggiata poco lontano. Una bicicletta è appoggiata sul pontone; i vasi di gerani e le tendine dei finestrini rallegrano l'abitazione della famiglia dei battellieri.

In lontananza appare il ponte à Trous, simbolica porta d'ingresso nella città.
Ora che si sta progettando l'allargamento del canale per permettere il passaggio di chiatte più grandi il destino di questo storico ponte sembra segnato, è una strettoia che impedirebbe il passaggio delle barche, dovrà quindi essere, se non eliminato, almeno sostanzialmente modificato.
Ma non tutti sono d'accordo,
il monumento storico ha trovato i suoi difensori.

Nel tardo mattino Tournai appare sonnolenta.
Pochi passanti, qualche ciclista lungo la via che costeggia il canale, un gruppo di giovani seduti sulle panchine.
La grande piazza centrale è animata dagli zampilli della fontana che si alzano e si spengono in un balletto perpetuo. La torre municipale -il beffroi- ricorda il ricco e agiato passato della borghesia cittadina che lo fece costruire nel XII secolo. È il più antico del Belgio, in quella che fu anch'essa una delle più antiche città di questa regione d'Europa, prima capitale del regno dei Franchi.

Ma è la cattedrale di Notre Dame che si impone sugli altri edifici con la sua massa sproporzionata. Ricordo del tempo in cui il vescovo di Tournai controllava quasi tutte le Fiandre.

Da lontano le torri della cattedrale spuntano sopra i tetti, infagottate nelle impalcature.
Immenso vascello grigio che domina la città con i suoi cinque campanili e che conosce oggi un restauro che è smisurato quanto l'edificio. La tempesta del 1999 ha accentuato lo squilibrio del coro e del transetto, in particolare la torre Brunin.

Rapidamente, sono state prese delle misure provvisorie per stabilizzare l'edificio.
Nel 2000, la cattedrale è iscritta al patrimonio dell'UNESCO. Da allora gli esperti studiano le soluzioni tecniche per consolidare il coro mentre procede il restauro della navata romanica.
Perché l'immensa cattedrale ha una parte gotica e una romanica. È un edificio sorprendente, che non assomiglia a nessuna delle altre cattedrali sparse per l'Europa. Nel miscuglio di stili si perde forse l'eleganza del gotico e la potente armonia del romanico ma la singolarità della struttura e le sue straordinarie dimensioni sorprendono e sbalordiscono.
La cattedrale prima dei lavori. Foto di Ad Mesken
 

 


lunedì 25 gennaio 2016

P.P.Pasolini: Il Vangelo secondo Matteo

È forse il più bel film di Pasolini, uno dei più bei film in assoluto.
Il Vangelo secondo Matteo è un'opera unica; il suo valore va al di là dell'universo cinematografico. Pier Paolo Pasolini, non era solo regista ma anche teorico del cinema. Catalogava i film come la letteratura, dividendoli tra opere di prosa e opere di poesia. Come in letteratura, il linguaggio cinematografico può, attraverso un linguaggio specifico alle immagini raccontare o evocare.
I personaggi entrano, dicono o fanno qualcosa, e poi escono, lasciando di nuovo il quadro nella sua pura, assoluta significazione di quadro: cui succede un altro quadro analogo, dove poi i personaggi entrano ecc. ecc. Sicché il mondo si presenta come regolato da un mito di pura bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma adattando se stessi alle regole di quella bellezza, anziché sconsacrarle con la loro presenza.*
Il Vangelo secondo Matteo appartiene certamente alla categoria della poesia più intensa e ricca di implicazioni e nello stesso tempo più semplice e umana. Un film unico, proiettato nelle stesse sale che avevano visto passare i grandi peplum americani con decori e personaggi di cartapesta e che d'un tratto apparvero artificiali fino al ridicolo.
Pasolini aveva cercato in Palestina i luoghi della sua storia ma il Medio Oriente del XX secolo non era più quello di duemila anni prima. Decise quindi di ritrovare un mondo che, per analogia, potesse ricreare quello scomparso; lo vide nell'Italia meridionale. E così i Sassi di Matera diventeranno Gerusalemme e i volti dei paesani lucani e calabresi, gli umili e offesi, i personaggi della storia raccontata da Matteo.
Gesù di Nazareth doveva, nel suo progetto, avere il volto di un poeta e egli aveva pensato a Evtusenko, Ginsberg o Kerouac. Poi, quasi per caso conobbe Erique Irazoqui. Il giovane catalano era responsabile di un sindacato studentesco clandestino e si trovava in Italia alla ricerca di appoggi per la lotta antifranchista. Incontrò Pasolini per parlargli della sua causa e si ritrovò a vestire i panni del Cristo.
«Io non credo che Gesù sia figlio di Dio, perché non sono un credente, almeno nella coscienza. Penso invece che la figura di Cristo dovrebbe avere la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo»
Il Vangelo secondo Matteo è un film di volti e di sguardi, silenzi e musica. Le frasi, le singole parole si levano da questo sfondo e emergono con una forza inusuale.
A più di cinquant'anni dalla sua realizzazione, è un film indelebilmente attuale.
*P.P.Pasolini: Empirismo eretico Garzanti 1972

sabato 16 gennaio 2016

Fara San Martino: Vallone di Santo Spirito

Paese antichissimo, il cui nome ricorda la presenza longobarda nella regione, Fara San Martino sembra aggrappata alle pendici della Montagna Madre, imponente e grandiosa.
Fara San Martino in un'incisione di M.C. Esher
Un'opera del celebre artista olandese M.C. Esher famoso per le incisioni che giocano con la logica della prospettiva, e che venne da queste parti nel 1929, rappresenta il borgo di Fara con la sua montagna.
Il paese è oggi conosciuto in tutto il mondo per i suoi pastifici. Ma il luogo merita una visita soprattutto per l'ambiente naturale, davvero affascinante. E qui infatti che apre il più lungo vallone della Maiella, quello di Santo Spirito che, con un dislivello di circa 2300 metri, si sviluppa fino alla cima del Monte Amaro.
La Maiella
Il primo tratto, le cosiddette Gole di San Martino, è sicuramente il più sorprendente; le pareti di roccia sono vicinissime tanto che il sole non riesce ad arrivare in basso.

Passata questa porta il paesaggio si allarga ma le pareti verticali si succedono ancora.
Il borgo di Fara al di là delle falesie
Dice una leggenda che fu lo stesso San Martino, ad aprire, a gomitate, questo varco, per permettere agli abitanti del luogo il passaggio verso i pascoli e le sorgenti d'acqua sul monte. Le cavità nella roccia furono proprio causate dai gomiti del benefattore.
Un'altra leggenda, ancora più antica, racconta che la montagna si separò al momento della morte di Cristo sulla croce.
Superata questa “porta” si arriva rapidamente ai resti della la chiesa e del monastero situati sotto la falesia all'interno del vallone e riportati alla luce solo da qualche anno.

Il monastero risale all'XI secolo ma la presenza dei monaci, forse provenienti dall'abbazia di Montecassino è ancora più antica. Dopo il declino dell'ordine benedettino che lo aveva costruito e fatto vivere, il sito fu abbandonato. Sepolto dai detriti alluvionali, è stato riportato alla luce, una prima volta, alla fine del XIX secolo.
Di nuovo sepolto dalla ghiaia, furono i recentissimi scavi, cominciati nel 2005 e conclusisi nel 2009 a liberare le mura dell'antica abbazia.
Purtroppo una bruttissima strada sterrata, utilizzata in passato per estrarre ghiaia per il porto di Ortona e poi per liberare il monastero, ha un po' sfigurato il luogo che però conserva un fascino innegabile.

Ma sicuramente il monastero di Fara non fu che il più importante tra gli eremi che costellavano un tempo queste montagne. Qui, come sulle pendici occidentali e su quelle del Morrone, le numerose grotte, naturali o scavate dall'uomo, non servivano solo da riparo ai pastori ma accoglievano decine di anacoreti ritiratisi dal mondo.
In questo spazio protetto sembra effettivamente di essere fuori dal mondo degli uomini. Non ci sono ampi panorami ma scorci molto suggestivi e diversi ad ogni svolta. Organizzata in riserva naturale all'interno del parco nazionale della Maiella, la zona ha una flora e una fauna molto varie.


Con un po' di fortuna si potrà magari scorgere un falco pellegrino e, con molta, un'aquila reale.