La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



sabato 4 giugno 2011

Lanza del Vasto: Pellegrinaggio alle sorgenti

Pubblicato nel 1943 in francese, Le pélerinage aux sources (Il pellegrinaggio alle sorgenti) è forse il libro più importante di Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte, meglio conosciuto come Lanza del Vasto.
È il racconto di un lungo viaggio, che ha come primo obiettivo l'incontro del filosofo siciliano con Gandhi. Lanza del Vasto ne ha conosciuto il pensiero grazie ai lavori di Roman Rolland ed è per incontrare colui che egli considera come un maestro che nel 1936 parte verso l'India, pagando il viaggio con i diritti d'autore di un precedente libro (Giuda).
Lanza del Vasto arriva a Ceylon e scopre un mondo completamente sconosciuto nel quale si sente estraneo, solo, disorientato. Così si descrive alla terza persona:
Eccolo colui che è appena sbarcato: competamente solo, completamente bianco, completamente vergognoso, completamente sconcertato, importunato da chi vende, da chi promette, da chi implora, da chi vuole portarlo al tempio di Buddha o al bordello.
Attraversa come in sogno la folla colorata, dalle maschere scure, passa a caso lungo i poveri portici della città. Se ne allontana e scende passo a passo verso la ghiaia del fiume.
Arriva in Asia come uno straniero dunque, ma quando riparte per l'Europa lascia in India un ricordo di stima e di venerazione.
A poco a poco si immerge nella cultura indiana fino ad adottarne abiti e usanze. Profondamente cristiano, cerca tra i mistici indù o buddisti una via per la sua vita. L'incontro con Gandhi dura qualche mese. Il Mahatma lo accoglie nella scuola di Wardha e gli spiega il senso del proprio pensiero. L'importanza della pratica di un lavoro manuale, senza la quale nessun uomo può elevarsi:
Che il lavoro delle vostre mani sia un segno di gratitudine e un omaggio alla condizione umana. Ci si inchina per salutare. Salutate ogni giorno l'uomo, inchinandovi sul lavoro.
Sull'esempio di Gandhi, Lanza del Vasto fa della non violenza uno dei pilastri della propria vita e del proprio insegnamento. Ma, come per Gandhi d'altronde, la non violenza non è mai per lui sinonimo di passività o di rinuncia; si apparenta invece ad una virtù cristiana, del tutto simile alla carità. È prima di tutto benevolenza meravigliata e misericordiosa verso tutto ciò che vive.
E praticare la non violenza non significa certo rinunciare a far valere le proprie ragioni. Non rinunciare alla lotta ma lottare, tenacemente, con altri mezzi.
Come Gandhi, Lanza del Vasto utilizzerà il digiuno per le sue battaglie. Contro l'energia nucleare, contro la guerra, a fianco dei contadini del Larzac, in Francia, minacciati di espulsione dall'estensione di una base militare.
Nel racconto che dà il nome al libro: Il pellegrinaggio alle sorgenti, Lanza del Vasto descrive il suo viaggio, a piedi, verso le sorgenti del Gange, il fiume sacro. Un'impresa difficile e pericolosa dalla quale Gandhi aveva cercato di dissuaderlo.
Il 22 aprile 1937 il pellegrino è al Tadj Mahal, per poi passare da Agra e da Delhi. Osserva la difficile convivenza tra musulmani e indù, vede un paese in cui la vita è estremamente dura e nel quale la fraternità predicata da Gandhi tarda ad imporsi.
È poi ad Hardwar, l'ultima città di pianura dove i saggi meditano sulle rive del fiume, insensibili alla folla e al rumore. Tutta la miseria umana sembra raccolta qui. Quando il viaggiatore mette i piedi sul ponte una doppia siepe di membra contorte, secche, punteggiate di croste o sudanti pus sorge dal selciato; sono i mendicati che sembrano un unico albero coricato e che hanno un'unica e sola voce.
Immagini di santi e di imbroglioni, di folla che si accalca, venditori ambulanti, guru e mistici, donne che lavano i panni e devoti che fanno le abluzioni. Il grande fiume accoglie tutto l'universo indiano.
Lasciata Hardward, il cammino si fa più impervio; si comincia a salire verso Hrishikésh, là dove il fiume è appena sbucato dalle gole dell'Himalaya e dove i tre quarti degli abitanti portano la tunica rossa degli anacoreti. Città senza case vere e proprie, solo cortili circondati da portici con antri oscuri, rifugio dei monaci erranti.
Gli anacoreti praticano esperienze estreme, come quello che si è fatto murare vivo e che ha lasciato una sola piccola apertura da cui fare entrare l'aria o quell'altro che resta dodici ore al giorno immerso nell'acqua gelata del fiume.
Dopo Hrishikesh il sentiero si inoltra nella giungla; il paesaggio diventa montano.
Lanza del Vasto è ospite di principi nepalesi in esilio.
La seconda sera fui ospite della montagna.
Il crepuscolo scendeva, il sentiero saliva sempre. Mi avevano detto che avrei incontrato degli orsi neri in questa regione. Non ho incontrato niente, solo, spaventosa più di tutto, la solitudine di un paese sconosciuto e immenso.
A Dhalnôti si ferma a lungo, ospite e maestro spirituale della principessa nepalese, sorella dei precedenti. L'abbandona quando sente che un sentimento ambiguo sta nascendo.
Il Gange è qui un torrente di acque gelate. Il pellegrino continua il suo viaggio. Nel fazzoletto, una manciata di semi e un po' di zucchero grezzo sono tutte le sue provviste.
Il paesino di Outtœrkâshî appare, povero e solitario. Ultima città santa prima delle sorgenti. Isolata dal resto del mondo. Ha due templi, venti santuari e una dozzina di case.
Il tempio è ricco di simboli. Lanza del Vasto osserva i due uccelli scolpiti su cui poggia l'architrave. Ne fa l'immagine di un'umanità che fa gli stessi sogni.
Li conosco quei due uccelli su cui poggia l'architrave. Li ho visti nella cripta della cattedrale di Canterbury, li ho visti su un capitello della chiesa dei crociati a Vézelay, li ho visti sulla facciata di San Michele a Pavia. Li ho visti in un chiostro arabo normanno di Palermo, li ho visti su un'anta di baule di contadini d'Abruzzo e sulla pagaia d'ebano intagliata dai negri del Benin. Quei due uccelli che non hanno mai volato se non nella mente di qualche artigiano attento a mordere con lo scalpello in una pagnotta di buona materia. Sono dello stile che gli esperti d'arte chiamano romanico e che io chiamo umano.
Poco più in alto Lanza del Vasto si ferma. È malato, stanco, lontano da ogni possibile aiuto. Si stende sulla sua coperta e aspetta, forse la morte.
Quando si sveglia trova accanto a sé una ciotola di riso. L'ha portata un bambino.
Diventa egli stesso fonte di curiosità e di devozione. Arrivano i poliziotti: uno straniero non può entrare in territorio tibetano. Lanza del Vasto non arriverà mai alle sorgenti del fiume.
Ed è qui che incontra Krishme-Tchandre, il Brahma Tchari, colui che è alla ricerca del cammino di Brahma, che ha fatto il voto del silenzio e che comunica scrivendo.
Lanza del Vasto diventa penitente, sembra aver trovato in India un senso alla vita. Ma decide di tornare in Europa perché lo scopo di ogni viaggio è il ritorno. Ritorno che sente come un dovere più che come una necessità. Rimpiangerà di non essere restato immerso in quell'universo: solo, libero, nudo, confortato dalla saggezza e contento di me stesso.
Pensa di avere un debito da pagare agli altri uomini. Tutto quello che sa lo deve agli altri, non può tenerlo per sé.
Non era partito in cerca di avventura ma per lasciare l'avventura e trovare un'uscita ai nostri disordini.

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