La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 31 luglio 2015

L'Ambrosina

Le vacanze cominciavano quando vedevamo il mare. Lo scoprivamo ad un tratto dal finestrino del treno che correva verso sud lungo la costa. Paesi accesi improvvisamente dal sole che si alzava rosso fuoco e poi subito giallo dall'orizzonte azzurro. A tratti apparivano file di ombrelloni colorati, ancora chiusi, ognuno con una sedia a sdraio, chiusa anch'essa, tutte appoggiate in file ordinate come per un omaggio al sole nascente. Di tanto in tanto si vedeva una barca, sembrava immobile nel quadro del finestrino e poco dopo il porticciolo in un'apparizione rapidissima. Gli oleandri in fiore bianchi e rossi nascondevano l'orizzonte che poi si apriva di nuovo sul riflesso del sole sull'acqua.
Sapevamo che il viaggio stava per finire. Aprendo il finestrino sembrava di sentire un odore particolare, portato dal fresco dell'aria del mattino.
Ma il mare rimaneva nel ricordo come una lunga cartolina, scritta ad un amico lontano, poi spedita e la cui immagine si affievoliva a poco a poco nella memoria. Perché la costa non era la nostra destinazione. Per anni spiagge e ombrelloni resteranno come un universo estraneo, visto come un miraggio dal finestrino di un treno e mai conosciuto concretamente. Arrivati alla stazione scendevamo e ci mettevamo alla ricerca dell'autobus che ci portava verso le montagne. E già qui non era difficile trovare qualche viso noto di persona diretta allo stesso paese, riascoltando così la lingua dell'infanzia mai dimenticata. Immancabilmente c'era un tassista, annoiato nell'attesa dei clienti che spiegava che la corriera non c'era o che sarebbe partita molto più tardi. Ma il trucchetto per rimediare una corsa non funzionava mai.
Eravamo partiti la sera prima dalla stazione della città. La fabbrica di automobili, come allora ancora si usava, aveva chiuso i cancelli per tre settimane e, senza accordi espliciti, ma seguendo la norma dettata dal capogruppo, tutti gli altri stabilimenti avevano seguito la regola. Migliaia di famiglie si erano affrettate lungo i binari dove “diretti” e “direttissimi”, come si chiamavano allora, si erano riempiti in un attimo. I più sfortunati tra i viaggiatori restavano nei corridoi, seduti sulle valigie, rassegnati alla prospettiva di una lunga notte che avrebbe indolenzito le ossa ancora stanche dal lavoro quotidiano alla catena. La città si svuotava, i negozi chiudevano al punto che per i pochi abitanti rimasti i due quotidiani locali pubblicavano le liste di panetterie e altri negozi restati aperti. Più di una vacanza era il ritorno a casa, momentaneo, di chi era arrivato qualche anno prima con migliaia di altri, i napuli come li chiamavano allora quelli che invece parlavano con l'accento del nord e che mal ne sopportatavano la cosiddetta invasione.
Il viaggio di ritorno era per noi relativamente breve, scendevamo dal treno mentre alti viaggiatori contuinuavano il percorso verso la lunga penisola pugliese.
Sulla piazza della stazione cercavamo l'autobus rosso, quasi un'istituzione. Perché la domenica, nella stagione estiva una linea speciale collegava la costa al Gran Sasso. L'idea era sviluppare il turismo locale, portando al fresco delle montagne i cittadini della città costiera. Ma erano piuttosto gli emigrati che tornavano a casa ad approfittare di questa corsa supplementare. I veicoli erano della società “Rossi & Ambrosini” ed è per questo che tutti conoscevano l'autobus delle 9.00 con il soprannome di Ambrosina. La linea regolare aggirava la montagna risalendo la valle del Pescara e poi quella del Tirino. L'Ambrosina invece si dirigeva direttamente verso le pendici orientali del Gran Sasso, attraversando l'entroterra e risalendo verso il valico di Forca di Penne, là dove per secoli erano passate le greggi seguendo il “tratturo magno”. Il percorso inverso a quello seguito da Annibale nella sua discesa verso le Puglie. Brittoli era l'ultimo paese del versante pescarese, poi la strada, che continuava a salire non era più asfaltata e una nuvola di polvere si posava sul rosso vivo dell'autobus. Bisognava chiudere rapidamente i finestrini e, nella giornata estiva, il calore cominciava a farsi sentire. Dopo il valico una lunga discesa finiva all'incrocio con la statale proveniente dalla valle del Tirino. La strada riprendeva il suo aspetto normale e ricominciava a salire verso la nostra meta.
Attraversato l'ultimo villaggio, sull'autobus restavano solo facce più o meno conosciute, parenti più o meno lontani. Si riconoscevano le contrade e a memoria si contavano le curve che mancavano prima di quella fatidica dopo la quale appariva la piramide del paese arroccato sulla montagna.
L'autista annunciava con fragorosi colpi di clacson bitonale l'arrivo a Castel del Monte. Si fermava sulla piazza. Davanti ad un palazzotto occupato dall'esattoria e dal barbiere. Per tutta la lunghezza della facciata correvano tre scalini sui quali stavano seduti gli anziani del paese, quasi tutti con un cappello in testa e bastone tra le mani, commentando e assertendo su fatti e persone. L'arrivo dell'autobus era un'occasione per movimentare un po' la giornata. Poi attorno all'Ambrosina si radunavano parenti e amici, con abbracci e esclamazioni, si scaricavano le valige e, a gruppetti ci si dirigeva verso casa dove il pranzo era già quasi pronto e per alcuni non mancava il brodo di gallina perché, tutti lo sanno... per chi viaggia il brodo con le vularelle, i quadrettini di pasta all'uovo, è una panacea. 
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2 commenti:

  1. E' un racconto molto bello. Davvero un po' mi ricorda Pavese, che amo molto.
    un saluto
    Daniel

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    1. Grazie del commento Daniel. Pavese è uno dei miei autori preferiti.
      Scusa se rispondo solo ora, ero lontano da internet

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