sabato 28 marzo 2020
La lingua come Patria
Perché né
un pezzo di terra né una bandiera possono racchiudere fino in fondo
ciò che siamo, ma la lingua sì, ha questo potere.
(Maryam
Madjidi)
Arrivare
quassù, in questo paesino aggrappato alla montagna è sempre uno
spaesamento.
Nella
sera, quando il rumore delle auto e delle macchine portato dal vento,
e più intenso da quando il terremoto, non l’ultimo e non il
definitivo, quello del 2009, ha provocato non solo vittime e danni ma
anche un abbandono ulteriore di questi centri abitati e poi la
necessità di riparare e di ricostruire, quando il rumore delle
macchine si spegne, resta il silenzio.
Solo
i gridi degli uccelli, un cane nel cortile della casa vicina, ne
attenuano la profondità.
Ma
è poi una voce, lontana, che libera da barriere e da altri rumori,
arriva fino a me. Ed è una voce che, come un nuovo paesaggio, come
uno scorcio tipico, definisce e dà il suo colore peculiare allo spazio
che ci circonda.
Perché
questa voce è portata da una lingua che da sola definisce il
paesaggio e il luogo. Sono suoni duri, fatti per comandare greggi,
singolari, diversi già dai quelli dei borghi vicini. È
questa lingua più del resto, più delle tradizioni ancestrali, dei
piatti tipici, dello spazio architettonico, a definire il mondo
culturale di questo paese. Lingua madre che gli abitanti utilizzano
semplicemente e naturalmente tra loro. Utilizzarne un’altra, fosse
anche l’Italiano, se non segno snobistico, sarebbe almeno
un’incongruità. Con i “forestieri”, l’Italiano è d’obbligo,
ma appena la persona è accolta nella comunità, il passaggio al
dialetto segna un atto di fratellanza e di accoglienza. Più delle
mura e degli sporti, è questo il retaggio prezioso, ma anche più
fragile e delicato, che sembra scomparire poco a poco con le
generazioni.
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