mercoledì 30 marzo 2016
domenica 20 marzo 2016
Ascoli Piceno
Luca
scendeva raramente dalle sue montagne, lasciando la Sibilla e i venti
freddi delle creste. Preferiva vagare per quei campi sperduti dov'è
più facile incontrare un lupo che un uomo. Aveva l'impressione di
aver sempre vissuto lassù, all'inizio non per scelta ma a causa
della circostanze. Una sosta più lunga del previsto che aveva
modificato il provvisorio senza trasformarlo in definitivo ma
attenuando nell'orizzonte futuro l'idea di un cammino da riprendere.
All'inizio si perdeva tra quei valloni ugualmente tondeggianti e
spogli. Allora, per ritrovare la via, saliva sulla cresta più
vicina. Fu così che un giorno in cui si era spinto un po' più
lontano, scoprì le ultime balze e poi la piana che scendeva fino al
mare. Per lui la città nella valle era una macchia lontana immobile
e un po' misteriosa. Non fu allora che quel mondo diverso lo
attrasse. Si era abituato alla rarità degli incontri e alle parole
soppesate con parsimonia. Ma un giorno, senza averlo previsto, il suo
vagabondare lo portò ai limiti della cittadina. Quando si trovò a
percorrere la vie dell'antico borgo scoprì un mondo sconosciuto.
Nel
sole il travertino brillava e rifletteva la luce come la scena di un
teatro.
Ascoli
è una delle tante piccole capitali che la storia ha sparso lungo la
penisola italiana.
Al limite meridionale delle Marche, vicina agli
Appennini ma anche all'Adriatico, appare in effetti come un grande
borgo tranquillo e allo stesso tempo vivo e animato.
I suoi abitanti
sono fieri della bella Piazza del Popolo “la più bella d'Italia”
la definiscono, forse non a torto.
Si
passeggia tra le strade e le piazzette del centro storico, alzando lo
sguardo sorpresi da eleganti facciate e scorci più modesti ma
altrettanto sorprendenti.
La
leggenda racconta di un picchio che accompagnava un gruppo di Sabini
e che indicò loro il luogo dove installarsi. L'uccello compagno di
viaggio dette il nome al popolo che lo seguiva: i Piceni.
Ascoli
è un po' fuori dalla vie turistiche che attraversano la regione ed
anche il viaggio dei letterati europei alla scoperta dell'Italia
letta sui libri non passava da queste parti.
Si ricorda però qualche
eccezione, come quella di André Gide. Lo scrittore francese raccontò
la sua sosta a Ascoli, piacevolmente sorpreso dall'armonia del luogo:
“Ascoli Piceno è una tra le più belle città d'Italia, e non
ne vedo altra che le assomigli. Bella come alcune città della
Francia del Sud, non tanto per questo o quel monumento, ma per il suo
complesso, la qualità antologica, l'incanto che viene da nulla e da
tutto.”
giovedì 18 febbraio 2016
Luigi Mucciante: Castel del Monte e il suo dialetto
Così
scriveva Luigi Mucciante nell'introduzione al suo Vocabolario
del dialetto di Castel del Monte, pubblicato
nel 2007:
Un
motivo puramente affettivo mi ha sollecitato a compilare questo
vocabolario. Non era nelle mie intenzioni per una materia complessa e
così articolata per i suoi aspetti linguistici, e tanto meno lo è
nella conclusione, dare al lavoro un'organicità razionale ed una
completezza sistematica, sia per quanto riguarda l'aspetto
grammaticale che quello lessicale.
Compilare
un dizionario per un dialetto parlato ormai probabilmente solo da
qualche centinaio di persone è certamente un lavoro fatto di
passione e, come lo sottolinea nella prefazione il linguista
Francesco Avolio, un'opera che assume, naturalmente, un carattere
personale e soggettivo. Portata all'estremo, la tesi è che, in
ambito dialettale, cioè in un contesto non classificato, come invece
accade per una lingua di uso più vasto e letterario, da norme
codificate e comunemente accettate, ogni singolo locutore ha, per un
singolo termine, le sue specifiche e personalissime accezioni, la sua
specifica pronuncia, entrambe diverse da ogni altra, anche da quelle
del suo vicino più immediato. A questa prima elementare discordanza
se ne aggiungono altre, secondo i mestieri, il grado di istruzione e
di assimilazione della lingua letteraria, i contatti più o meno
frequenti con altri dialetti.
Per
fare un solo esempio, ormai largamente conosciuto, per quel che
riguarda i paesi di transumanza, come lo era Castel del Monte, è
evidente il divario tra la pronuncia femminile
e quella maschile,
quest'ultima influenzata dai lunghi periodi di contatto con la
parlata del Tavoliere pugliese.
A
ciò va aggiunta, come
d'altronde lo sottolinea Luigi Mucciante nell'introduzione,
la diluizione del dialetto nella lingua nazionale, diluizione sempre
più rapida perché favorita dai mezzi di comunicazione di massa e
dalla frequenza degli scambi e dei contatti esterni ormai
acceleratasi senza comune misura.
Così
termini più arcaici tendono ad essere sostituiti da altri che sono
la derivazione dialettale dall'italiano.
Ad esempio l'espressione
interrogativa Cammó,
probabilmente un antico
gallicismo -dal francese comment-,
tende a scomparire, sostituita da pecché.
Il
relativo isolamento del borgo di montagna ha però, per un tempo,
frenato questa diluizione. Se si escludono le generazioni più
giovani, il dialetto resta, in ambito comunale, ampiamente praticato
e diffuso. Questa pratica è poi favorita con il rientro estivo degli
emigranti dall'estero per i quali esso rappresenta spesso l'unica
lingua comune con gli abitanti.
Castel
del Monte in campo linguistico è una terra di confine. Nel 476 alla
caduta dell'Impero romano d'occidente, il latino parlato non era già
più quello di Augusto. Gradualmente il sistema linguistico
centralizzato si era affievolito analogamente alla potenza
dell'Impero.
Erano
riemersi ormai influssi delle lingue italiche prelatine che avevano
resistito all'uniformazione soprattutto quando si trattava di
esprimere competenze e informazioni di ambito locale; si era
accentuata la presenza di popolazioni entrate recentemente nel
territorio imperiale e che parlavano lingue diverse; si accresce il
divario tra la lingua parlata e quella scritta.
A
poco a poco la contaminazione del latino si accentua in un
processo che dura secoli. Gli studiosi fanno risalire al 960
l'apparizione del primo documento scritto in una nuova lingua.
Sono
i famosi Placiti cassinesi:
Sao
ke kelle terre, per kelle fini che ki contene, trenta anni le
possette parte sancti Benedecti.
Ma
a questo punto lingua scritta e lingua parlata, lingua letteraria
e lingua d'uso hanno già preso strade differenti. La suddivisione
territoriale aveva contribuito a tracciare i confini delle famiglie
dialettali.
In
Abruzzo questa linea di confine separa l'area sabina (
L'Aquila, Carsoli, Tagliacozzo) da quella meridionale. Castel
del Monte si trova quindi al limite nord occidentale di quest'ultima.
Forse
anche per questa situazione particolare (isolamento geografico e
nello stesso tempo contatto con aree differenti (l'aquilana e la
pugliese) hanno fatto di Castel del Monte un'isola dialettale
nell'abito regionale. Anche qui un solo esempio: il sistema assai
complesso degli articoli determinativi. Ru è infatti
l'articolo singolare che traduce l'italiano il, originale
anche rispetto ai comuni vicini. Ma, in casi particolari, come lo
spiega con precisione Luigi Mucciante, lo stesso il diventa le
(da pronunciare con la e muta).
Al
di là dell'accurato studio linguistico, Castel del Monte e il suo
dialetto è un libro che ci propone l'immagine di una comunità
in un momento storico preciso e irripetibile. I vocaboli del libro ci
raccontano un universo scomparso nel quale la dote della sposa le
béglie veniva portato in corteo, sulla testa delle donne e sopra
i muli appositamente 'nzullunete (infiocchettati), o alla fine
di un lavoro impegnativo c'era ru cuapecanale (il rinfresco).
Nell'evoluzione linguistica, ininterrotta e inarrestabile abbiamo la
fotografia di un mondo passato, uno strumento non solo per gli
studiosi e la cui importanza aumenterà probabilmente col tempo.
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Luigi Mucciante
domenica 7 febbraio 2016
Tournai e la sua cattedrale
Arriviamo
a Tournai seguendo il fiume Schelda che qui, nel Belgio francofono si
chiama Escaut.
Il
corso d'acqua è canalizzato ed è un'importante via di comunicazione
tra Olanda e Francia. L'ultima chiusa prima della città si sta
svuotando e una chiatta attende ormeggiata poco lontano. Una
bicicletta è appoggiata sul pontone; i vasi di gerani e le tendine
dei finestrini rallegrano l'abitazione della famiglia dei
battellieri.
In
lontananza appare il ponte à Trous,
simbolica porta d'ingresso nella città.
Ora che si sta progettando
l'allargamento del canale per permettere il passaggio di chiatte più
grandi il destino di questo storico ponte sembra segnato, è una
strettoia che impedirebbe il passaggio delle barche, dovrà
quindi essere, se non eliminato, almeno sostanzialmente modificato.
Ma non tutti sono d'accordo, il
monumento storico ha trovato i suoi difensori.
Nel
tardo mattino Tournai appare sonnolenta.
Pochi passanti, qualche
ciclista lungo la via che costeggia il canale, un gruppo di giovani
seduti
sulle panchine.
La grande
piazza centrale è animata dagli zampilli della fontana che si alzano
e si spengono in un balletto perpetuo. La torre municipale -il
beffroi- ricorda il ricco e
agiato passato della borghesia cittadina che lo fece costruire nel
XII secolo. È il più antico
del Belgio, in quella che fu anch'essa una delle più antiche città
di questa regione d'Europa, prima capitale del regno dei Franchi.
Ma
è la cattedrale di Notre Dame
che si impone sugli altri edifici con la sua massa sproporzionata.
Ricordo del tempo in cui il vescovo di Tournai controllava quasi
tutte le Fiandre.
Da lontano le torri della cattedrale spuntano sopra i tetti, infagottate nelle impalcature.
Immenso
vascello grigio che domina la città con i suoi cinque campanili e
che conosce oggi un restauro che è smisurato quanto l'edificio. La
tempesta del 1999 ha accentuato lo squilibrio del coro e del
transetto, in particolare la torre Brunin.
Rapidamente,
sono state prese delle misure provvisorie per stabilizzare
l'edificio.
Nel 2000, la cattedrale è iscritta al patrimonio
dell'UNESCO. Da allora gli esperti studiano le soluzioni tecniche per
consolidare il coro mentre procede il restauro della navata romanica.
Perché
l'immensa cattedrale ha una parte gotica e una romanica. È un
edificio sorprendente, che non assomiglia a nessuna delle altre
cattedrali sparse per l'Europa. Nel miscuglio di stili si perde forse
l'eleganza del gotico e la potente armonia del romanico ma la
singolarità della struttura e le sue straordinarie dimensioni
sorprendono e sbalordiscono.
La cattedrale prima dei lavori. Foto di Ad Mesken |
lunedì 25 gennaio 2016
P.P.Pasolini: Il Vangelo secondo Matteo
È
forse il più bel film di Pasolini, uno dei più bei film in
assoluto.
Il
Vangelo secondo Matteo è un'opera unica; il suo valore va al di là
dell'universo cinematografico. Pier Paolo Pasolini, non era solo
regista ma anche teorico del cinema. Catalogava i film come la
letteratura, dividendoli tra opere di prosa e opere di poesia. Come
in letteratura, il linguaggio cinematografico può, attraverso un
linguaggio specifico alle immagini raccontare o evocare.
I
personaggi entrano, dicono o fanno qualcosa, e poi escono, lasciando
di nuovo il quadro nella sua pura, assoluta significazione di quadro:
cui succede un altro quadro analogo, dove poi i personaggi entrano
ecc. ecc. Sicché il mondo si presenta come regolato da un mito di
pura bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma
adattando se stessi alle regole di quella bellezza, anziché
sconsacrarle con la loro presenza.*
Il
Vangelo secondo Matteo appartiene certamente alla categoria della poesia più intensa e ricca di implicazioni e nello stesso tempo più semplice e umana. Un film unico, proiettato nelle stesse sale che avevano
visto passare i grandi peplum americani con decori e personaggi di
cartapesta e che d'un tratto apparvero artificiali fino al ridicolo.
Pasolini
aveva cercato in Palestina i luoghi della sua storia ma il Medio
Oriente del XX secolo non era più quello di duemila anni prima.
Decise quindi di ritrovare un mondo che, per analogia, potesse
ricreare quello scomparso; lo vide nell'Italia meridionale. E così i
Sassi di Matera diventeranno Gerusalemme e i volti dei paesani lucani
e calabresi, gli umili e offesi, i personaggi della storia
raccontata da Matteo.
Gesù
di Nazareth doveva, nel suo progetto, avere il volto di un poeta e
egli aveva pensato a Evtusenko, Ginsberg o Kerouac. Poi, quasi per
caso conobbe Erique Irazoqui. Il giovane catalano era responsabile di
un sindacato studentesco clandestino e si trovava in Italia alla
ricerca di appoggi per la lotta antifranchista. Incontrò Pasolini
per parlargli della sua causa e si ritrovò a vestire i panni del
Cristo.
«Io
non credo che Gesù sia figlio di Dio, perché non sono un credente,
almeno nella coscienza. Penso invece che la figura di Cristo dovrebbe
avere la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica
radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la
sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso,
conformismo»
Il
Vangelo secondo Matteo è un film di volti e di sguardi, silenzi e
musica. Le frasi, le singole parole si levano da questo sfondo e
emergono con una forza inusuale.
A
più di cinquant'anni dalla sua realizzazione, è un film
indelebilmente attuale.
*P.P.Pasolini: Empirismo
eretico Garzanti 1972
sabato 16 gennaio 2016
Fara San Martino: Vallone di Santo Spirito
Paese
antichissimo, il cui nome ricorda la presenza longobarda nella
regione, Fara San Martino sembra aggrappata alle pendici della
Montagna Madre, imponente e grandiosa.
![]() |
Fara San Martino in un'incisione di M.C. Esher |
Un'opera
del celebre artista olandese M.C. Esher famoso per le incisioni che
giocano con la logica della prospettiva, e che venne da queste parti
nel 1929, rappresenta il borgo di Fara con la sua montagna.
Il
paese è oggi conosciuto in tutto il mondo per i suoi pastifici. Ma
il luogo merita una visita soprattutto per l'ambiente naturale,
davvero affascinante. E qui infatti che apre il più lungo vallone
della Maiella, quello di Santo Spirito che, con un dislivello di
circa 2300 metri, si sviluppa fino alla cima del Monte Amaro.
![]() |
La Maiella |
Il
primo tratto, le cosiddette Gole di San Martino, è sicuramente il
più sorprendente; le pareti di roccia sono vicinissime tanto che il
sole non riesce ad arrivare in basso.
Passata
questa porta il paesaggio si allarga ma le pareti verticali si
succedono ancora.
![]() |
Il borgo di Fara al di là delle falesie |
Dice
una leggenda che fu lo stesso San Martino, ad aprire, a gomitate,
questo varco, per permettere agli abitanti del luogo il passaggio
verso i pascoli e le sorgenti d'acqua sul monte. Le cavità nella
roccia furono proprio causate dai gomiti del benefattore.
Un'altra
leggenda, ancora più antica, racconta che la montagna si separò al
momento della morte di Cristo sulla croce.
Superata
questa “porta” si arriva rapidamente ai resti della la chiesa e
del monastero situati sotto la falesia all'interno del vallone e
riportati alla luce solo da qualche anno.
Il
monastero risale all'XI secolo ma la presenza dei monaci, forse
provenienti dall'abbazia di Montecassino è ancora più antica. Dopo
il declino dell'ordine benedettino che lo aveva costruito e fatto
vivere, il sito fu abbandonato. Sepolto dai detriti alluvionali, è
stato riportato alla luce, una prima volta, alla fine del XIX secolo.
Di nuovo sepolto dalla ghiaia, furono i recentissimi scavi,
cominciati nel 2005 e conclusisi nel 2009 a liberare le mura
dell'antica abbazia.
Purtroppo una bruttissima strada sterrata,
utilizzata in passato per estrarre ghiaia per il porto di Ortona e
poi per liberare il monastero, ha un po' sfigurato il luogo che però
conserva un fascino innegabile.
Ma
sicuramente il monastero di Fara non fu che il più importante tra
gli eremi che costellavano un tempo queste montagne. Qui, come sulle
pendici occidentali e su quelle del Morrone, le numerose grotte,
naturali o scavate dall'uomo, non servivano solo da riparo ai pastori
ma accoglievano decine di anacoreti ritiratisi dal mondo.
In
questo spazio protetto sembra effettivamente di essere fuori dal
mondo degli uomini. Non ci sono ampi panorami ma scorci molto
suggestivi e diversi ad ogni svolta. Organizzata in riserva naturale
all'interno del parco nazionale della Maiella, la zona ha una flora e
una fauna molto varie.
Con un po' di fortuna si potrà magari scorgere un falco pellegrino e, con molta, un'aquila reale.
sabato 9 gennaio 2016
John Fante: Storie di un italoamericano
Nel
1941 quando pubblicò la famosa antologia Americana,
Elio Vittorini fece entrare una folata di aria fresca e
diede uno scossone salutare al panorama culturale italiano, rinchiuso
da un ventennio nello stantio della dittatura e nel provincialismo
retrogrado delle sue vicende letterarie. La
censura fascista bloccò l'edizione e il libro poté uscire l'anno
dopo ma privo di tutte le note dei curatori e
con una prefazione di Emilio Cecchi, letterato ben visto dal regime,
che sembrava sminuirne
il valore. Solo
nel 1968 Americana sarà
ripubblicata
nell'edizione originale.
Hemingway,
Poe, London, Melville, Steinbeck, erano praticamente ignoti in
Italia. La loro scrittura, i loro temi, apparvero come una novità
straordinaria e
fecero scoprire ai lettori un mondo sconosciuto e sorprendente.Il Neorealismo nostrano, che toccò il suo apice nell'immediato dopoguerra, attinse non poco a questo nuovo repertorio letterario.
Tra gli autori pubblicati in quell'ormai mitico libro c'era John Fante, autore, forse più degli altri, completamente sconosciuto in Italia.
Nato a Denver nel 1909 e morto a Los Angeles nel 1983, John Fante è ormai considerato da molti come uno degli scrittori statunitensi più importanti del XX secolo.
Negli anni Trenta del Novecento pubblicò due romanzi che ebbero un notevole successo e che gli diedero, prima di tutto nel suo paese, una fama immediata: Wait Until Spring, Bandini (Aspetta primavera, Bandini) e Ask the Dust (Chiedi alla polvere).
Poi arrivò la guerra, e la malattia (il diabete) e lo scrittore visse una crisi di ispirazione che sarà vinta solo molto tempo dopo, negli anni Settanta, quando pubblicherà The Brotherhood of the Grape (tradotto in italiano prima con il titolo La confraternita del Chianti, in seguito modificato ne La confraternita dell'uva). Fu in quell'occasione che incontrò Charles Bukowski che subito ebbe per lui una stima smisurata.
Fu Bukowski, quando i libri di Fante sembravano ormai sostanzialmente dimenticati anche negli Stati Uniti, a “riscoprirlo” e a riportare alla ribalta i suoi scritti. Bukowski considerava John Fante uno scrittore essenziale e non esitava a definirlo il suo maestro.
Grazie a lui si tornò a parlare delle opere di John Fante, i romanzi precedenti furono ripubblicati e i più recenti letti con più attenzione.
L'universo letterario di Fante è quello dell'ambiente italoamericano che lo scrittore analizza con attenzione, curiosità, partecipazione e ironia.
Il padre di John, Nicola Fante, era nato a Torricella Peligna, in provincia di Chieti, in Abruzzo. La madre era di origine lucana.
Il rapporto con la sua terra di origine e il tratto autobiografico sono gli aspetti essenziali dei suoi scritti.
L'ispirazione dello scrittore si nutre nell'osservazione del microcosmo degli immigrati di prima e di seconda generazione, nelle storie ascoltate che raccontano un'Italia lontana, un mondo sconosciuto arcaico e mitico che John Fante scoprirà direttamente solo nel 1957.
La saga dei Bandini, le peripezie di Nick Molise raccontano le vicende tragicomiche di famiglie di emigrati italiani ma funzionano anche come ritratto sociologico di un mondo tutto sommato poco conosciuto se non attraverso opere abbastanza stereotipate (pensiamo a Mario Puzo).
Figura chiave, archetipo e fonte centrale di ispirazione è, con i suoi pregi e i suoi non pochi difetti, il padre Nicola (Nick) abilissimo muratore, arrivato negli Stati Uniti passando dall'Argentina.
Nei personaggi di Fante c'è evoluzione del rapporto tra i protagonisti di quelle vicende e le due patrie, quella d'origine e quella adottiva.
Di nome faceva Arturo ma avrebbe preferito chiamarsi John. Di cognome faceva Bandini ma lui avrebbe preferito chiamarsi Jones. Suo padre e sua madre erano italiani ma lui avrebbe preferito essere americano. Suo padre faceva il muratore ma lui avrebbe preferito diventare il battitore della squadra di baseball dei Chicago Cubs. Vivevano a Rocklin, Colorado, diecimila abitanti, ma avrebbe preferito vivere a Denver, a cinquanta chilometri di distanza. Aveva la faccia lentigginosa ma avrebbe preferito averla pulita. Frequentava una scuola cattolica ma ne avrebbe preferito una pubblica.¹
C'è il tentativo di integrazione, l'ostilità razzista dei “veri” americani anglosassoni per i quali gli italiani erano tutti wap (termine dispregiativo, forse una deformazione di guappo). C'è poi, nei più giovani – la seconda e la terza generazione – dopo il rigetto della storie paterne, la riscoperta del paese d'origine, riscoperta spesso mitizzata da chi, come John Fante, non vi aveva mai messo piede:
Stava per cambiare la marcia quando una faccia minuta, scura e rugosa, avvolta in uno scialle nero fece capolino dal cancello sul retro. Era nonna Bettina. Per un istante pensai diessere a Torricella Peligna. Vidi il paese dietro di lei, le strade di sassi, le case di pietra che cadevano a pezzi, la chiesa con le vecchie che salivano la gradinata»².
L'Italia di John Fante è un paese misterioso, osservato attraverso lo specchio deformante dei riti e dei costumi di una comunità che tenta di riprodurre i consetudini e le tradizioni lasciate alla partenza. Lo scontro con il nuovo mondo è culturale, religioso, gastronomico. Ma l'italianità, vista all'inizio come un impiccio per chi vuole fondersi rapidamente nel nuovo paese e “diventare americano”, diventa a poco a poco per John Fante ormai definitivamente assimilato, una ricchezza. Soprattutto dopo la morte del padre Nick, la sua scrittura si trasforma, diventa quasi un omaggio a quella prima generazione di emigranti.
¹ John Fante, Aspetta
primavera Bandini
²
J.Fante, Un anno
terribile
http://camminareleggendo.blogspot.fr/2014/04/gualdo-tadino.html
Il suo saggio: John Fante, storie di un italoamericano è stato pubblicato nel 2005.
Oggi a Torricella Peligna Il nome di John Fante fa vivere una associazione che organizza incontri e manifestazioni culturali di grande rilievo per onorare lo scrittore.
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