venerdì 26 novembre 2010
Cesare Pavese e l'irrequietezza
All'esame di maturità la prova orale di Italiano comprendeva una breve relazione su uno scrittore scelto dal candidato. In un Istituto di Torino un esaminatore siciliano si trovò a dover ascoltare più di uno studente che voleva parlargli di Cesare Pavese. «Ma cos'è - finì per chiedere- tutto questo interesse che avete qui per Pavese?»
Alcuni credono dunque che occorra essere piemontesi, o vivere in Piemonte, per leggere Pavese. Un interesse dettato da una sorta di campanilismo letterario.
Già perché, completamente a sproposito, al narratore è stato a volte accollato, e forse lo è tuttora, l'aggettivo evidentemente restrittivo di «regionalista». Certo la sua opera è legata strettamente alla sua regione; il paesaggio piemontese delle Langhe e Torino sono intimamente connessi alla poetica dello scrittore. Ed anche la lingua, pur evitando intarsi dialettali, è connaturata a quella del Piemonte. Ma ridurre l'opera di Pavese a questo vorrebbe dire non aver capito l'essenza del suo lavoro; evidentemente le traduzioni in decine di lingue mostrano il contrario.
E poi, sarebbe altrettanto limitativo, anche se meno offensivo, inscrivere la sua opera in un quadro semplicemente neorealista.
Infatti, se si sbarazzano i testi pavesiani da questo primo strato, magari non secondario ma certo un po' superficiale, si scoprono concetti più universali e profondi.
Alcuni di questi trovano il loro fondamento e il loro senso nel meccanismo mitologico dello scrittore. Perché proprio nel mito, dice Pavese, si possono trovare verità essenziali, capaci di spiegare il mondo.
Non è un caso se l'opera che egli ritenesse più importante tra quelle scritte tratti questo argomento e sia la più lontana dai temi della scuola realista.
Dialoghi con Leucò occupa un posto a parte nella sua produzione letteraria. In questo libro, attraverso ventisei dialoghi che mettono in scena personaggi della tradizione classica greca e latina, lo scrittore affronta il tema del mito in modo diretto. O piuttosto, lo utilizza per affrontare questioni essenziali dell'esistenza umana.
È un libro sorprendente, prima di tutto perché il suo argomento è assolutamente fuori stagione in un'epoca (1945 – 1947) in cui il neorealismo domina il panorama letterario italiano e ancor più l'ambiente intellettuale in cui lo scrittore si esprime. Si doveva ricostruire l'Italia, anche culturalmente, parlare dei problemi concreti e della realtà quotidiana. L'impegno di uno scrittore non poteva divagare in concetti anacronistici e superati. Si capisce perché Dialoghi con Leucò fosse guardato con diffidenza. Ma se Pavese rischia la polemica politico-letteraria è perché per lui il tema del mito è fondamentale. D'altronde esso attraversa altri testi della sua opera, anche quelli più apparentemente «neorealisti». L'autore va al di là della semplice riproduzione di immagini classiche, egli crea un schema originale che gli è proprio e che attinge gli elementi nell'habitat che lo circonda. La collina delle Langhe è certo un luogo di lavoro, in cui si muovono contadini dalla vita dura (e partigiani che si battono contro i fascisti) ma, per Pavese, questo luogo è anche un archetipo mitologico, patrimonio di percezioni e verità primarie, non legate alla realtà contingente: il falò, la vigna, il sangue che bagna la terra, la luna, sono elementi di questo sistema simbolico complesso e atemporale.
Osserviamo però che i suoi personaggi devono essere lontani da questa collina per percepirne l'essenza. Il mito per essere vissuto, per assumere concretezza, deve manifestarsi nell'assenza; un'assenza dovuta al distacco, temporale o spaziale. A questo scarto fa seguito il desiderio di trasformare in realtà la percezione. Ed è così che il viaggio, il ritorno, il ricordo o al contrario il sogno di paesi lontani, in una parola l'irrequietezza, sono una componente essenziale della loro vita.
I personaggi dei suoi romanzi, -e delle sue poesie- vivono spesso nell'inquietudide; l'urgenza dell'essere in cammino anima la loro esistenza.
Siamo nati per girovagare su quelle colline (Antenati)
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta. (Agonia)
Nostalgia dell'altrove significa reimmersione nel mito dell'infanzia, quando il mondo era ancora da inventare e si potevano immaginare infinite possibilità di vita:
Fu Nuto che mi disse che col treno si va dappertutto, e quando la ferrata finisce cominciano i porti, e i bastimenti vanno a orario, tutto il mondo è un intrico di strade e di porti[...].(La luna e i falò)
Perché l'infanzia è anche il momento nel quale il contatto con il mondo naturale è più diretto, non mediato dalla razionalità. Non solo nei romanzi, ma anche in alcune delle poesie più originali (quelle di Lavorare stanca) i personaggi di Pavese trovano la loro volontà vitale nella possibilità di un altrove. Per questo sono sempre alla ricerca o nel rimpianto di un luogo differente da quello in cui si trovano. Camminano nella città, percorrono le colline, quasi con foga; spesso non sanno dove andare, non hanno mete precise ma sentono l'esigenza, la necessità di muoversi.
Il personaggio narrante de Il diavolo sulle colline vaga in una città dal profilo metafisico, sembra vuota o abitata da ombre; solo la sagoma di una donna alla finestra lascia intravedere spazi di vita. Con i suoi compagni sale, nella notte, sulla collina e da lassù osserva, quasi irreale, la distesa di case e di strade illuminate. Ne La casa in collina queste colline torinesi ricordano le vere, quelle delle Langhe, e permettono di uscire dal mondo reale per ritornare nel mondo del mito della terra contadina e primitiva. Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle case umane, sotto i piedi, l'antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d'ifanzia.
Il ritorno è in fondo il tema de Il diavolo sulle colline, in un viaggio che, nell'intenzione del narratore, dovrebbe essere fatto a piedi per rendere più palpabile questa reimmersione nel paesaggio archetipale. Stessa strada, verso le colline, è quella de La casa in collina e di Paesi tuoi.
Il protagonista de La luna e i falò attraversa l'America per scoprire in California paesaggi che gli ricondano quelli da cui è partito; ritrova il dialetto parlando con un camionista di passaggio, anche lui piemontese. Decide di tornare ma quando è nei luoghi dell'infanzia il sogno s'infrange. Non servirà a niente cercare in Cinto - il ragazzino che in qualche sorta ha preso il suo posto - un alter ego capace di far riemergere le immagini passate. Il coltellino che il narratore gli regala e che assomiglia a quello che lui stesso aveva da ragazzo diventa il segno di questa immagine speculare. Ma durante l'incendio Cinto perde il simbolo. La realtà del presente fa scomparire il mito.
Non resterà che il desiderio di una nuova partenza.
Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa. (Lavorare stanca)
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