La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



domenica 14 novembre 2010

La Piola di San Francesco al campo

Da Caselle andando verso il Canavese la strada provinciale scendeva in una valletta e, dopo aver attraversato il ponte sul fiumiciattolo, risaliva immediatamente sul piano. Prima del ponte, sulla sinistra, isolata, c'era la Trattoria del Monferrato. In realtà trattoria non lo era più da un pezzo, magari qualche panino, con salame o, per gli amatori, con tomini; invece come osteria, o piuttosto piola, come si diceva da quelle parti, funzionava ancora e il nome, dipinto sulla facciata, era restato.
Era una massiccia casa ad un piano, la locanda al pianterreno e sopra l'appartamento della padrona. Fuori, sulla sinistra c'era uno spazio delimitato da una siepe e, subito dietro, dagli alberi del bosco. Era occupato da due pesanti tavoli in pietra, uno rotondo e uno rettangolare che, anche in estate, erano usati raramente, sempre all'ombra e un po' umidi.
Gli avventori e, a volte, anche la padrona, preferivano, nelle giornate più calde, sedersi sulle due panchine in ferro che stavano ai lati dell'ingresso.
Salendo tre scalini si entrava nel primo dei due locali della piola. Era il più piccolo, giusto lo spazio per un modesto bancone che reggeva la macchina per il caffè. Davanti un solo tavolo quadrato in formica, appoggiato al muro, vicino alla porta che immetteva nella seconda stanza. Era il tavolo dei clienti solitari che passavano per un caffé o un bicchiere e che si sedevano qui per fare quattro chiacchiere con la padrona. Sull'altro lato della stanza c'erano le scale per il piano superiore e, sotto, la porta per la cantina con un bello e massiccio cavatappi murale a leva. Dietro il bancone il solito specchio con la pubblicità del vermouth e con davanti alcune bottiglie di liquore dai colori esotici e vivaci aperte ormai da mesi, forse anni, ma che raramente servivano. Nemmeno la birra aveva molti amatori e un giorno un giovane cliente di passaggio fece ridere la padrona chiedendole una « spina »: « Oh no ! Quella si trova solo a Torino...Nei bar più grandi! ». Il vino invece era buono. Certo la scelta era abbastanza limitata: Barbera, Dolcetto e, per gli ospiti più esigenti, qualche bottiglia di Nebbiolo. La padrona andava a cercarlo in cantina e poi si fermava davanti al monumentale cavatappi per aprirlo. Gli avventori erano di solito nell'altra stanza, un po' più grande della prima e scaldata da una stufa a legna. Sul muro la bacheca dell'Associazione Pescatori con qualche volantino da tempo ingiallito. In questo locale c'erano quattro tavoli e un vecchio televisore quasi incastrato in un ripiano murale. In inverno, quando il buio scendeva rapidamente e i clienti erano rari, la padrona si sedeva vicino alla stufa e accendeva il grosso cassone a valvole. Le notizie arrivavano da un mondo quasi sconosciuto e a volte, quando le informazioni erano più sorprendenti del solito, la donna commentava in dialetto con un misto di scetticismo e di incredutilà: « Ma sarà vero? »
La padrona era un'anziana signora, vedova da tempo, che aveva ormai abbondantemente raggiunto l'età della pensione ma che ciò nonostante continuava ad occuparsi dei clienti, in verità non molto numerosi. Era piuttosto bassa e di corporatura assai robusta, zoppicava un po' a causa dell'anca che le dava qualche fastidio. Il suo italiano era faticoso, preferiva esprimersi nel dialetto piemontese del luogo e a volte dimenticava che certi clienti di passaggio avrebbero potuto non capirla. Era una donna garbata e sorridente ma sapeva farsi rispettare e non esitava ad alzare la voce quando qualcuno non la rispettava o si agitava più del consentito.
La Trattoria del Monferrato non attirava molta gente di passaggio. La strada era abbastanza frequentata ma gli automobilisti non vedevano la casa che all'ultimo momento, quasi nascosta dagli alberi in fondo alla discesa. E si accorgevano che era un'osteria solo quando erano già davanti perché, a parte la scritta sul muro e la lamiera dipinta con le immagini dei gelati, nessun'altra indicazione ne preannunciava la presenza. Così solo i clienti abituali, abitanti dei dintorni, la frequentavano. Venivano dalle cascine, a volte in bicicletta o in motorino, a volte parcheggiando vecchie auto che, vista la paglia e gli attrezzi che di solito trasportavano, dovevano servire per i lavori nei campi. Si conoscevano tra di loro e la sera facevano una o due partite a carte bevendo un bicchiere. Ma non erano tutti amici, dispute di vicinato o vecchi rancori avevano la vita dura e non era raro vedere qualcuno ordinare un quartino e berselo in solitario. Solo in estate, la domenica pomeriggio, capitava che qualche donna si sedesse, fuori, su una delle panchine per mangiare il gelato. Più che clienti erano amiche della padrona che passavano per scambiare due parole. In genere, a parte quest'ultima, soprattutto la sera c'erano solo uomini, sempre gli stessi, raramente più di quattro o cinque. Contadini ormai anziani dalle mani rugose e dalla voce ancora energica. Spesso entravano dimenticanto di scrostare gli scarponi terrosi e accettavano, sorridendo, le invettive della donna. C'era tra di loro un suonatore di fisarmonica che animava le sagre e le feste dei dintorni. A volte aveva lo strumento nel bagagliaio della macchina e, quando le bottiglie stappate erano un po' più del solito, poteva capitare che si cantasse qualche vecchia canzone.
Da qualche tempo un gruppetto di ragazzi aveva preso l'abitudine di passare ogni tanto la serata nell'osteria. Abitavano nei paesi della piana e, piuttosto di andare nei locali alla moda, dove appunto si beveva birra alla spina, avevano scoperto e adottato la trattoria del Monferrato. Le prime volte la loro presenza non era certo passata inosservata. La stessa padrona si stupiva del fatto che dei giovani potessero fermarsi nel suo locale: quelli del vicinato non venivano mai, preferivano la discoteca. I clienti abituali li avevano visti con diffidenza, un po' come degli intrusi in quello che consideravano il « loro » locale, magari capaci di fare troppo baccano. Ma poi, poco a poco, ci si era accennato qualche saluto e, soprattutto gli scambi in dialetto di un paio dei giovani avevano disteso le relazioni. Ormai erano riconosciuti e accettati. Spesso avevano una chitarra e, dopo aver bevuto qualche bicchiere, succedeva che cercassero di coinvolgere i presenti in una corale improvvisata. Forse la voce si sparse nel circondario e quell'inverno le serate della piola furono più animate del solito.
Un giorno però, il gruppetto trovò le luci spente. I ragazzi andarono altrove pensando ad una chiusura provvisoria. Ma la Trattoria del Monferrato non riaprì più. La padrona aveva fatto una brutta caduta ed era finita all'ospedale. E poi gli anni cominciavano a farsi sentire, così si era lasciata convincere ed aveva deciso di mettersi in pensione veramente.

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