La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



venerdì 22 giugno 2018

Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi.

Nella notte chiara, le stelle brillanti scendono fino all'orizzonte e prima dell'alba una striscia nera appare dietro i pini come se, al di là della curva della terra, si potesse scorgere lo spazio infinito. Il cerchio d'argento si muta in rosa, poi in bianco candido; il sole accende il Churen Himal (7363 metri) e il Putha Hiunchuli, che è esattamente 122 metri meno alto. L'aria è sonora. GS dichiara che nell'est del Nepal, ai piedi dell'Everest, non ha visto niente che valga lo spettacolo che ammiriamo dal nostro spiazzo, quasi completamente circondato da alte guglie di ghiaccio.
Leggendo il libro di Peter Matthiessen si dimentica a volte che si tratta di un racconto di viaggio. Lunghe parentesi di considerazioni filosofiche e di digressioni sulle religioni orientali, spunti di riflessioni autobiografiche, analisi etnologiche interrompono la progressione, o piuttosto il resoconto della progressione tra le montagne del Nepal. Peter Matthiessen e George Schaller sono diretti nella regione del Dolpo, una delle più segrete del Nepal, centro vivo del buddismo e delle sue esperienze mistiche più profonde, originarie del Tibet. In passato infatti, abbandonata la loro terra d'origine sotto occupazione cinese, i monaci si erano rifugiati tra queste montagne himalayane, trovando qui pratiche religiose sciamaniche più antiche che si perpetuavano in monasteri praticanti il rito bon.
Peter Matthiessen ha lasciato in America quattro figli, tre già grandi ma l'ultimo, Alex, di solo otto anni. Viaggerà sempre con il senso di colpa provocato da questo provvisorio ma lungo abbandono.
La moglie è morta prematuramente, l'anno precedente, e per lui che pratica già da tempo il buddismo zen, questo viaggio verso le Montagne Celesti è un po' come un antidoto alla depressione.
Parte, nel settembre del 1973, al seguito dello zoologo George Schaller per una spedizione che ha come scopo l'osservazione del bharal, la “pecora blu” dell'Himalaya, e del fantomatico leopardo delle nevi, animale quasi leggendario, raramente avvistato, ma la cui presenza tra queste montagne sembra confermata.
Partiti da Kathmandu, i due raggiungono in fuoristrada Pokhara, duecento chilometri ad ovest, ultimo bastione del mondo moderno. Da qui comincia la loro marcia. Quattrocento chilometri a piedi per quello che è anche un viaggio nel tempo. Dice Matthiessen: in un giorno di cammino abbiamo percorso dei secoli.
Il percorso verso le valli più nascoste del Dolpo è lungo e difficile. Si sale verso valichi altissimi fino al Kang La a quasi seimila metri di quota, dominati da massicci immensi come l'Annapurna e il Dhaulagiri a più di ottomila metri.
Si devono attraversare torrenti in piena, bisogna arrampicarsi tra rocce e tronchi sradicati e trasportati da torrenti impetuosi che scendono dai ghiacciai. I due sono accompagnati da sherpa e da abitanti del luogo che salgono tra le rocce, lungo impervi sentieri con il loro carico tenuto alla fronte da una cinghia. È autunno e la neve comincia a cadere a quote relativamente più basse, altrimenti sono le ultime piogge dei monsoni a rendere non proprio allegro e ridente, nella prima parte del viaggio, il paesaggio circostante. I villaggi sono poveri, a volte miserabili e la scoperta di questa miseria non lascia indifferente Matthiessen che racconta incontri sconvolgenti di fronte ai quali è difficile trovare il buon atteggiamento: Una bambina con le gambe difformi e inutili si trascina sul pendio all'uscita del villaggio. Il naso contro le pietre, lo sterco di capra, i rivoli di acqua fangosa, si arrampica come un grillo ferito. Noi esitiamo, vergognandoci dei nostri solidi polpacci: lei se ne accorge e alza verso di noi i suoi occhi limpidi, senza amarezza; la compatiamo ancora di più perché è graziosa. GS spiega con un tono turpe che nel Bengala i mendicanti spezzano le ginocchia ai figli per renderli più pietosi: è il modo che ha di esprimere la sua emozione. Ma la bambina che giace ai nostri piedi non è una mendicante; è solo una bambina che osserva con curiosità dei grandi stranieri bianchi.
Il gruppo arriverà al monastero Skey, sulla montagna di Cristallo il primo novembre 1973 e resterà sul posto una quindicina di giorni. I due viaggiatori avranno modo di osservare a lungo e anche da molto vicino i bharal che sembrano abbastanza numerosi. Le osservazioni scientifiche occupano una buona parte del loro tempo ma Matthiessen è interessato soprattutto alla pratica della meditazione e dall'incontro con il Lama del monastero che si è ritirato in un eremitaggio ancora più isolato. Karma Tupjuk è un monaco di cinquantadue anni, da tempo si è appartato in questo luogo e dice di sperare di restarvi fino alla fine dei suoi giorni. L'artrite ha deformato le sue gambe e si muove difficilmente con l'aiuto di stampelle. Ma sembra felice; mostrando le sue gambe difformi, senza traccia di autocompassione né di amarezza, come se esse appartenessero a noi, leva, aprendole, le braccia verso il cielo, le montagne coperte di neve, il sole e i bharal danzanti e esclama: “Certo che sono felice qui! È meraviglioso! Tanto più che non ho scelta!”
All'alba del 18 novembre Peter Matthiessent riprende il cammino verso Saldang, a nord est mentre George Schaller resta ancora a Skey nella speranza di poter osservare il leopardo delle nevi di cui per il momento non ha visto che impronte sulla neve ed escrementi, religiosamente raccolti.
Per Matthiessent il viaggio scientifico si è trasformato poco a poco in pellegrinaggio e il fantomatico leopardo è diventato quasi un simbolo della sua ricerca interiore. Il fatto di non averlo trovato è per lui un segno Ma non sono pronto a mollare gli ormeggi, ecco perché non troverò la soluzione al mio koan, perché non vedrò il leopardo delle nevi, cioè non lo percepirò. Non lo vedrò perché non sono pronto.
Il ritorno nel mondo sarà difficile. Dopo aver vissuto quasi due mesi in un universo completamente fuori dal tempo, lasciando il Dolpo Matthiessen sente un profondo disagio fisico e psicologico dovuto probabilmente anche al repentino cambio di altitudine. Inoltre niente è cambiato: resto come prima preda delle avidità, dell'ego, delle emozioni, degli eterni dettagli ossessionanti, delle irritazioni di questa dolorosa rottura tra quello che so e quello che sono.
Ma poi ripensa alle parole del lama Tupjuk della montagna di Cristallo, l'amore per quella vita che d'altronde non si è scelta.
E Matthiessen si rende conto infine che probabilmente la guida spirituale a lungo cercata era accanto a lui; lo sherpa Tukten che lo accompagnato durante il percorso e che, non a parole ma con i suoi gesti, con il suo atteggiamento, con la sua semplice presenza sembra rappresentare la messa in pratica dell'insegnamento del lama, non la saggezza unica di un uomo ma l'espressione magnifica di ciò che l'umanità ha di divino.

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