La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



giovedì 8 marzo 2018

Maya Ombasic, Mostarghia

Ridatemi il mio paese, ridatemi la mia vita, il mio ponte e la mia città.
Abbiamo dimenticato rapidamente che solo pochi anni fa, una guerra cruenta e spietata aveva luogo alle nostre porte. Esattamente dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, Sarajevo, una città a cinquecento chilometri in linea d'aria da Roma, subiva uno dei più lunghi e spietati assedi della storia moderna. Si stima il numero di civili uccisi a più di centomila. Record degli obici caduti sulla città in un solo giorno: tremilasettecentosettantasette, e ciò a un'ora di aereo da Parigi e nel nome di un nazionalismo simile a quelli che crescono come funghi velenosi un po' dappertutto in Europa.*
Persone che vivevano insieme, che parlavano la stessa lingua si ritrovarono da una parte o dall'altra di un fronte e poi ancora di un altro. Ogni nazione fu associata, come spesso accade quando ci si vuole dividere, ad una religione: i croati cattolici, i serbi ortodossi, i bosniaci musulmani. Si cercarono le differenze nel serbocroato, fino ad allora, con lo sloveno e il macedone, lingua ufficiale della Federazione Jugoslava ma anche lingua di una letteratura comune e si definirono artificialmente quattro lingue separate: il serbo, il croato, il montenegrino, il bosniaco, intensificando e esacerbano differenze che in realtà, a detta dei linguisti, sono ben poche.
Anche Mostar, cittadina nel sud dell'Erzegovina, arrivò la guerra. Abitata da bosniaci e croati, nel 1992 fu assediata dai serbi, respinti da un fronte comune. Poi, l'anno dopo, la guerra fu tra croati e bosniaci e il famoso “ponte vecchio” che univa le due rive del fiume Nerevta da più di cinquecento anni, fu distrutto.

Maya Ombasic aveva dodici anni nel 1991, era nata e abitava a Mostar. Vista dall'alto, la cittadina provinciale dai tetti rossi fa pensare a Siena o a Tolosa, secondo l'angolo del sole e i suoi riflessi sulle colline che la circondano.* Una famiglia quasi banale: un fratello minore, un padre pittore, che amava andare a spasso in cerca di ispirazione e poco propenso ad occuparsi del quotidiano lasciato sulle spalle della moglie.
Tutto comincia il 6 aprile 1991 […]
Delle ciliegie nere. Il loro gusto per marcare l'ultimo giorno della mia infanzia. Quel giorno, a cavalcioni su un ramo del ciliegio nel giardino della detestabile Emma, un'ottantenne che ama i suoi frutteti più degli uomini, faccio una scorpacciata dei succulenti piccoli frutti. Noto che ho macchiato il mio vestito bianco con il porpora delle ciliegie rubate quando all'improvviso un'enorme esplosione fa fremere gli alberi, gli oggetti e le persone, riducendo ad un immenso ammasso di vetro tutte le finestre della città. Un silenzio sepolcrale s'installa nei minuti che seguono. Il cielo è oscurato da una nuvola densa e arancione come quella che annuncia una tempesta di sabbia. Poi il silenzio è rotto dalle grida delle madri sconvolte che cercano i loro figli. Sono stata sbalzata dal ciliegio e sono ancora a terra quando scorgo mia madre che corre al mio soccorso. Sconvolta, chiama il mio fratellino urlando. […] Qualcuno ha fatto scoppiare una cisterna di gas. È l'inizio della guerra ma noi ancora non lo sappiamo.*
Il padre di Maya è comunista, non si è mai occupato di religione ma la famiglia è bosniaca, dunque musulmana. Bisogna partire, lasciare la città verso la costa, poi con un traghetto fino ad Ancona e da qui in Svizzera, da Chiasso a Basilea per arrivare poi a Ginevra e infine in Canada, senza dimenticare un viaggio essenziale a Cuba, alla ricerca di un paradiso perduto.
Se la famiglia cerca di adattarsi alla vita nei paesi di soggiorno, per il padre di Maya ciò è impossibile. Rifiuta di imparare un'altra lingua, rifiuta di “integrarsi”; il ricordo della sua città, la mostarghia – il titolo è ispirato dal film Nostalghia di Andrei Tarkoski -, è troppo intenso e forte, lo porterà alla depressione, all'alcolismo e alla morte.
Il libro è un omaggio a questo padre, amato e però invadente e distruttivo ma attraverso lui è l'evocazione di un paese perduto e di una vita costruita malgrado tutto. Maya Ombasic insegna la filosofia all'università di Ottawa, è tornata in Erzegovina per seppellire il padre. Ha ritrovato una città ricostruita dagli aiuti internazionali ma ormai divisa in due dal fiume Nerevta, da un lato i bosniaci, dall'altro i croati. […] su una delle “facciate della vergogna”, quella lungo il famoso corso in cui si svolsero i combattimenti più cruenti, Coca-cola ha avuto l'ultima parola. Un telo enorme è stato steso dai pubblicitari della multinazionale per nascondere le tracce della guerra e fare la promozione della loro pozione miracolosa; Podjelite dobar osjecaj! “Condividete un buon sentimento”. Come se Coca-cola fosse da sola capace di unire le due rive della città che fu, tempo fa, la più multietnica d'Europa.*
Per Maya Ombasic l'esilio non è libertà, non sono spazi aperti, l'esilio, la sopravvivenza, la lotta, ci consumano, ci fanno sprecare l'energia vitale.
Ma in definitiva Mostarghia non è un libro né triste né malinconico. Certo, è il racconto di un mondo scomparso, sostituito da un altro nel quale ognuno diffida del proprio vicino; una città che possiede più porte blindate pro capite al mondo*, nella quale ogni comunità si è barricata attorno ai propri miti e ai propri valori. Ma, malgrado tutto, la storia di Maya Ombasic è carica di forza e anche di ottimismo. Una denuncia del nazionalismo, caposaldo della stupidità umana e che porta morte e distruzione ma anche momenti e personaggi pieni di umanità e di fraternità. E, rivolgendosi al padre morto la scrittrice spiega: È il tempo di scrivere una nuova storia, nella lingua che la tua nipotina sceglierà. Perché è una bambina che Leandro amerebbe avere, una ex-Jugoslava che ballerà come una cubana, avrà crisi esistenziali degne dei personaggi di Dostoevskij, e crederà di essere un'acrobata nata, come tanti monrealesi che, appena finisce l'inverno, invadono i parchi con le loro piroette un po' goffe.*

*Maya Ombasic, Mostarghia

venerdì 2 marzo 2018

Pierre Milza, Voyage en Ritalie

Sono un migrante, scomodamente collocato tra due culture cugine eppure dissimili: quella francese che ho bevuto con il latte materno e che mi ha formato così come sono – cartesiano e di fibra piuttosto giacobina – e quella italiana che era quella di mio padre e che ho scoperto a sedici anni, orfano a metà, partito per una prima esplorazione delle proprie origini. […]
Al passaggio della “frontiera”, sempre nella stazione di Ventimiglia, avevo fatto l'ultimo gesto di rivolta, non molto rischioso, scrivendo sul formulario d'ingresso che datava ancora del fascismo dopo la parola religione: senza (senza religione, cosa che all'epoca non era del tutto vera), e dopo la parola razza: umana. Appartengo alla generazione dei figli che hanno avuto tra i dieci e i quindici anni alla Liberazione e che non smetteranno mai di chiudere i conti con il fascismo e con il razzismo, in mancanza di aver potuto combatterli armi alla mano.*
Lo storico francese Pierre Milza, morto a Saint-Malo il 28 febbraio all'età di 86 anni.
Il padre era un operaio italiano, nato in provincia di Parma ed emigrato in Francia in cerca di lavoro. Laureatosi in Storia e poi in Lettere, Pierre Milza ha insegnato la Storia contemporanea all'università. La sua bibliografia è estremamente ricca e abbraccia epoche diverse, ma due temi hanno, più degli altri, interessato le sue ricerche: l'emigrazione italiana in Francia e il fascismo, quello di ieri e quello contemporaneo. Nel 2003 è stato pubblicato in Italia Europa estrema. Il radicalismo di Destra dal 1945 a oggi. Milza vi analizza con precisione l'evoluzione dell'estrema destra, sottolineandone l'eredità con il fascismo storico ma anche, e soprattutto, le differenze, non per attenuarne la minaccia e la pericolosità ma per sottolineare la necessità di evitare anacronismi e per trovare strumenti nuovi per contrastarla. Un argomento quanto mai di attualità e che purtroppo, per fatti di cronaca e per lo spazio che questa destra è riuscita a monopolizzare nel panorama mediatico, occupa il dibattito politico con termini perlomeno discutibili e contestabili, tra banalizzazione e condiscendenza.
Evidentemente anche il tema dell'emigrazione (qualunque sia il termine che si vorrà utilizzare : profughi, clandestini, rifugiati) è al centro dell'attualità. E spesso i due temi si incrociano considerando che per alcuni l'uno è la conseguenza dell'altro.
Ma l'emigrazione non è una novità del mondo contemporaneo, al contrario, essa è il destino comune dell'umanità. Come dice lo scrittore Pino Cacucci : Le radici sono importanti, nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove.
I libri di Pierre Milza si focalizzano sul fenomeno dell'emigrazione italiana in Francia ma indubbiamente, raccontando quell'epopea, mettono in luce aspetti comuni ad altre esperienze, sfatando stereotipi e luoghi comuni, dando tangibilità alle vite di quegli uomini e quelle donne che non sono stati accolti sempre a braccia aperte, come si racconta spesso, ma che hanno dovuto subire pregiudizi, razzismo e anche violenza (ricordiamo il massacro di Augues-mortes nella regione di Marsiglia nel 1893), e che hanno dovuto battersi per essere accettati. I giornali francesi dell'epoca evocavano la “ferociadegli italiani, il lorospirito sanguinario, la loroperfidia”.**
Tre milioni e mezzo di discendenti di Italiani vivono oggi in Francia. Che siano nipoti di emigrati politici – quelli dell'epopea garibaldina o del fascismo -, o eredi degli operai della Lorena, dei minatori o dei venditori ambulanti, venuti dalle periferie o stabiliti lungo la Costa Azzurra, contadini del Gers o artigiani parigini, formano la grande famiglia dei Ritals***.
Da centocinquant'anni, la loro sorte intreccia inestricabilmente due patrie, due sensibilità spesso difficili da associare et, soprattutto, il sentimento unico di esseri liberi, sempre in partenza per un universo popolato di ricordi d'infanzia o di immagini raccolte sul filo dei ritorni.
Così dice la quarta di copertina di Voyage en Ritalie, pubblicato in Francia nel 1993. Un libro ricco di umanità, quella incontrata durante il “viaggio” ma anche quella dello storico che ha saputo far riemergere storie ormai lontane, dando dignità a chi è spesso dimenticato dalla grande Storia.

*Pierre Milza, Voyage en Ritalie 1993 (p.9/10)
**Pierre Milza, Voyage en Ritalie 1993 (p.105)
***I ritals sono gli emigrati italiani; il termine deriva dall'iscrizione R.Ital., che appariva sui documenti di identità (Ressortissant Italien = Cittadino Italiano). Il termine divenne un neologismo e, anche se utilizzato in passato dai francesi con un certo disprezzo, fu adottato dagli stessi italiani residenti in Francia (ricordiamo il romanzo autobiografico di François Cavanna: Les Ritals).


giovedì 1 marzo 2018

Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi

Nel Libro di Giobbe Dio domanda: “ Dov'eri mentre ponevo le fondamenta della Terra? Dillo se hai tanta intelligenza! […] Chi ne ha posto la pietra angolare. mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?
“Ero là” è sicuramente la risposta alla domanda di Dio. Perché, qualunque sia il modo in cui è nato il mondo, la maggior parte degli atomi in questo aggregato fluttuante che noi designamo come nostro corpo esistono fin dall'inizio.
Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi

mercoledì 24 gennaio 2018

Louis Ferdinand Céline: Viaggio al termine della notte

Louis Ferdinand Céline è l'autore di un'opera che ha segnato la Storia della letteratura e non solo di quella francese.
Tra i suoi romanzi, Viaggio al termine della notte è senz'altro il più intenso e potente.
Ferdinand Bardamu, il personaggio principale – lo sarà anche del successivo Morte a credito – racconta, in prima persona, le sue peripezie attraverso tre continenti in momenti storici cruciali. Partecipa alla prima guerra mondiale e ne descrive severamente la crudeltà e la violenza, l'inettitudine degli ufficiali, la spietatezza e la ferocia del conflitto che priva di ogni umanità coloro che vi partecipano. Alla fine della guerra Bardamu va in Africa e qui trova un'altra piaga, quella del colonialismo, sistema perverso e diabolico che attira subdolamente soprattutto quelli come lui reduci non solo dalle trincee ma da tutto, sperduti e senza futuro. Una nuova fuga da questo universo lo spinge fino in America. Ed eccolo quindi negli Stati Uniti, il regno del dio denaro nel quale ogni cosa, anche l'umanità è mercificata. Nelle fabbriche di Detroit Bardamu scopre l'alienazione operaia e la miseria degli uomini sottomessi alle macchine. È qui che incontra il solo personaggio positivo del suo viaggio: Molly, una ragazza di cui si innamorerà. Ma quest'incontro non sarà sufficiente ad interrompere il suo viaggio al termine della notte; tornato in Francia Bardamu riprenderà gli studi di medicina che aveva abbandonato allo scoppio della guerra e andrà a vivere nella periferia parigina dove si troverà a curare i poveri riscoprendo la stessa miseria che aveva incontrato in giro per il mondo.
Quello che colpisce nel romanzo di Céline è soprattutto la sua rappresentazione della società umana. Nel racconto non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall'altra; senza manicheismo, il giudizio del narratore è acerbo e severo contro tutti, siano essi sfruttati o sfruttatori. In una sorta di nichilismo cosmico egli non fa nessuna concessione, non ha nessuna compassione nemmeno per le vittime; per tutti c'è la denuncia della loro vigliaccheria.
Lo stile del romanzo è assolutamente fuori dagli schemi e dalla tradizione letteraria. L'uso dell'argot, il gergo popolare parigino, la frase che tende a rompere la struttura logica, fanno della prosa del Viaggio qualcosa di insolito e straordinario. Il libro, pubblicato nel 1932 provocò un vivo dibattito tra detrattori e ammiratori. Ebbe in definitiva un notevole successo e fu tradotto (malgrado l'evidente difficoltà di rendere in altre lingue quel gergo particolarissimo) in 37 paesi. Suscitò l'ammirazione degli ambienti progressisti e anche Leon Trotsky ne fece l'elogio. Solo per pochi voti non ottenne il premio Goncourt, il più importante tra i premi letterari francesi, ma gli fu assegnato un altro apprezzato riconoscimento: il premio Renaudot.
Per molti Voyage au bout de la nuit (forse una traduzione più corretta del titolo, visto anche il tema del romanzo, sarebbe secondo me: Viaggio al fondo della notte) è uno dei libri più importanti della letteratura del XX secolo. Tra tutti ricordiamo l'apprezzamento dello scrittore americano Philip Roth per chi Céline era il più grande di tutti romanzieri.
Niente in questo libro lascia apparire il razzismo dello scrittore anzi la sua prosa suscitava l'ammirazione anche nel Partito comunista francese.
Eppure, pochi anni dopo, le scelte personali e i pamphlet antisemiti di Céline non lasceranno spazio a dubbi. A guerra già praticamente finita lo scrittore seguì le truppe tedesche nella loro ritirata dalla Francia e propose la sua collaborazione agli ultimi pétainistes, i seguaci del maresciallo Pétain che, ancora convinti di poter evitare la disfatta, volevano costituire un governo francese filonazista in esilio. Fu arrestato in Danimarca dove passò più di un anno in prigione. Nel 1950 fu condannato da un tribunale francese per atti pregiudizievoli alla difesa nazionale ma non per tradimento. Quella sentenza relativamente clemente gli evitò un ritorno in carcere; l'anno di prigione già effettuato azzerò la pena.
Nel 2017 ancora una volta Louis Ferdinand Destouche, - è il nome all'anagrafe dello scrittore - è tornato alla ribalta delle pagine letterarie dei quotidiani francesi. La sua vedova Lucette, alla veneranda età di 105 anni ha autorizzato l'editore francese Gallimard a pubblicare i tre pamphlet antisemiti scritti da Céline a partire dal 1937. Lucette Destouche aveva fino ad oggi rifiutato la pubblicazione dei testi che considerava all'origine di tutte [le loro] disgrazie. Gli scritti erano già stati pubblicati in Canada senza il suo accordo (perché per la legge di quel paese erano entrati nel dominio pubblico dopo 50 anni) ma non in Francia dove un'opera perde i diritti d'autore solo dopo 75 anni. La possibilità di una tale diffusione nel paese d'origine dello scrittore ha provocato un vivo dibattito. Da un lato coloro che considerano negativamente questa eventualità: sono testi ignobili, diffondono idee spregevoli e secondo loro, non devono essere messi nelle mani di tutti. Dall'altra c'è chi pensa che, di fronte ad un'inevitabile diffusione via internet, sarebbe stato meglio proporre un'edizione “ufficiale” con un apparato critico capace di mettere l'accento sulle aberrazioni concettuali.
Di fronte alla protesta di numerosi uomini e donne di cultura contrari alla pubblicazione, l'editore Gallimard ha rinunciato all'impresa. Bisogna dire che l'edizione canadese non era proprio un buon esempio. Pubblicati da un editore con inquietanti simpatie per l'estrema destra, i tre pamphlet erano stati stampati con il titolo Écrits polémiques, titolo eufemistico come se quegli argomenti fossero solo “polemici” e non infamanti.
In realtà i tre testi: Bagatelles pour un massacre, L'école des cadavres, Les beaux draps sono scritti che esprimono in una prosa turpe e aggressiva un razzismo e un antisemitismo intollerabili e ingiustificabili.
Resta quindi il dilemma: è possibile separare lo scrittore del Viaggio al termine della notte ma anche di Morte a credito da quello che affermava in L'école des cadavres: “Mi sento molto amico di Hitler, molto amico di tutti i tedeschi, li considero come fratelli e hanno tutte le ragioni di essere razzisti.”?
Non è la prima volta che emerge la questione del rapporto tra autore e opera. Un caso altrettanto emblematico era stato quello di Ezra Pound, grandissimo poeta ma anche ammiratore di Hitler e di Mussolini. Per quel che riguarda Céline il caso è ancora più complesso: è giusto edulcorare la sua produzione letteraria facendo la cernita nei suoi scritti tra il “capolavoro” e l'”infamia”? Al momento dell'edizione dell'opera nella prestigiosa collezione della Pleiade, riconoscimento importantissimo per un autore, i pamphlet vennero scartati, non senza qualche discussione.
Gli Strutturalisti pensavano di aver risolto il problema leggendo nell'opera un universo unico, completamente avulso dall'autore, eliminato in quanto individuo e al quale davano solo una funzione.
Ma in definitiva come leggere i romanzi di Céline senza pensare agli agghiaccianti propositi espressi dallo stesso scrittore? È possibile separare l'opera dall'autore? Ammirare un libro e detestare la persona che lo ha scritto?

mercoledì 10 gennaio 2018

Henry David Thoreau: Walden o la vita nei boschi.


In ogni tempo, a qualsiasi ora del giorno o della notte, mi sono sforzato di privilegiare l'istante presente e di segnarlo con una tacca sul mio bastone; di tenermi a questa convergenza tra due eternità, il passato e l'avvenire, precisamente ciò che è l'istante presente; di seguire questa linea in punta di piedi. Mi scuserete qualche oscurità, poiché ci sono più segreti nel mio mestiere che in quelli della maggior parte degli uomini; eppure non lo faccio apposta, essi sono indissociabili dalla sua stessa natura. Svelerei volentieri tutto ciò che so, senza mai scrivere “Ingresso vietato” sulla mia porta.
Henry David Thoreau, poeta e filosofo statunitense viveva a Concord, un paese di duemila abitanti situato a una ventina di chilometri da Boston. A Concord era nato nel 1817 e qui, malato di tubercolosi, morirà prematuramente nel 1862.
Thoreau passò due anni, tra il 1845 e il 1847 in una capanna che egli stesso aveva costruito vicino al lago Walden, non lontano dalla cittadina. Da questa esperienza prese spunto il suo libro più importante, tradotto in italiano con il titolo Walden o la vita nei boschi. (o nel bosco. Secondo le edizioni)
Amico, e per un certo tempo discepolo, di un altro celebre filosofo americano: Ralph Valdo Emerson, uno dei padri del Trascendentalismo, Thoreau è oggi considerato come uno dei precursori delle teorie ecologiste. Certamente i suoi scritti sono importanti in quest'ambito ma sarebbe riduttivo circoscrivere il suo pensiero all'ambientalismo.
Pacifista e antischiavista, non esitò a impegnarsi in prima persona nella lotta per la liberazione dei neri e l'abolizione della schiavitù. Rifiutò di pagare la tassa che serviva a finanziare la guerra contro il Messico (passò una notte in prigione e seppe utilizzare quell'esperienza per propagandare le sue idee in un testo che farà molto scalpore: La disobbedienza civile.
Thoreau aveva fatto degli studi classici. Già a Concord aveva imparato il latino e il greco ma anche il francese, l'italiano, il tedesco e lo spagnolo. Grazie ad una borsa di studio poté frequentare l'università di Harvard dove studiò la retorica, la filosofia, le scienze e la teologia.
Tornato a Concord, fu per breve tempo maestro elementare ma abbandonò rapidamente il suo posto rifiutando di infliggere, come invece allora era d'uso, le punizioni corporali ai suoi alunni.
Decise, con il fratello, di aprire una scuola privata nella quale mettere in pratica concezioni dell'insegnamento antiautoritarie e tolleranti. Anche in quest'ambito essenziale era per lui il contatto con la natura ed infatti la sua pedagogia dava grande importanza sulla scoperta dell'ambiente circostante e per questo accompagnava i suoi alunni in lunghe passeggiate nei boschi.
Dopo varie peripezie, un soggiorno di un anno a New York e la morte del fratello, Thoreau tornò a Concord dove decise di costruire una capanna sulle rive del lago Walden. L'idea era quella di avere un posto tranquillo dove scrivere ma soprattutto dove mettere in pratica le sue teorie.
Esistono oggi professori di filosofia ma nessun filosofo. Eppure è lodevole professare poiché tempo fa era lodevole vivere. Essere filosofo non vuol dire semplicemente avere dei pensieri arguti, e nemmeno fondare una scuola, ma amare la saggezza al punto da vivere secondo i suoi precetti, una vita di semplicità, d'indipendenza, di magnanimità e di fiducia. È risolvere qualcuno dei problemi della vita, non in maniera teorica, ma pratica. Il successo ottenuto dai grandi studiosi e dagli eminenti pensatori è in generale un successo di cortigiano, né regale né virile. Si arrangiano semplicemente per vivere come conformisti, più o meno come lo furono i loro padri, e non sono per niente i padri di una razza di uomini più nobili.
E in effetti Walden non è solo il diario di un'esperienza personale ma il tentativo di dimostrare concretamente come fosse possibile uscire dai modelli di vita imposti dalla società basata sull'accumulo di ricchezze di averi inutili. Il testo di Thoreau non è sempre molto facile alla lettura. È ricchissimo di citazioni letterarie, filosofiche, mistiche, espressioni proverbiali, inserite nel discorso senza essere messe in evidenza e senza annuncio. Alcune di queste risultano di difficile interpretazione se non addirittura impenetrabili. Lo scrittore attinge a piene mani, grazie alla sua profonda conoscenza, ad autori classici, latini e greci, a testi sacri come il Bagavad Gita o la Bibbia, a racconti della traduzione popolare.
Thoreau visse nei boschi attorno al lago di Walden tra il 1845 e il 1947. Non si trattava di un vero e proprio eremitaggio. Il paese di Concord non era in definitiva molto lontano e egli vi andava quasi tutti i giorni, tornando a volte dalla sue visite con viveri che gli permettevano di variare la sua dieta autarchica. Peraltro, malgrado il suo elogio della solitudine, non disdegnava gli incontri con i suoi vicini e i suoi amici venivano sovente a trovarlo. Avevo tre sedie – racconta nel suo libro – una per la solitudine, una per l'amicizia e una per la società; ma più avanti spiega che le visite erano numerose: ho avuto più visite durante il mio soggiorno nei boschi che durante ogni altro periodo della mia vita. Ed erano visite gradite : Credo di amare la società come la maggior parte della gente e sono pronto ad aggrapparmi come una sanguisuga al primo uomo dal sangue ben ricco che incrocerà il mio cammino.
Il suo libro fu pubblicato una prima volta nel 1854. In una conferenza egli presentò l'opera come “una storia di me stesso”. In realtà che l'obiettivo fosse più ambizioso di quello di scrivere un semplice diario lo si intuisce anche dalla sua struttura. In effetti benché avesse trascorso due anni nei boschi la riflessione dello scrittore è organizzata attorno ad un solo ciclo di stagioni, più simbolico che reale quindi. D'altronde i capitoli sono intercambiabili, gli avvenimenti quotidiani: costruzione della capanna, solitudine, incontri, agricoltura, autosufficienza, economia... sono solo lo spunto per riflessioni, ragionamenti e meditazioni molto più ampi. Inoltre Thoreau riprende e integra nel testo molti passaggi del diario personale – una sorta di zibaldone - che aveva cominciato a redigere già nel 1839. Nell'ultima edizione di Walden, nel 1862, chiederà al suo editore di sopprimere il sottotitolo “o la vita nei boschi”, conservando il solo nome, - che al lettore doveva apparire misterioso - , della località. Probabilmente voleva così eliminare l'aspetto contingente e occasionale del suo scritto e, al contrario, sottolineare il carattere universale e assoluto delle sue riflessioni.
Il discorso del filosofo americano non è sempre lineare. Ad un elogio della frugalità e dell'ozio – Certi giorni non riuscivo a sacrificare la splendida vitalità del momento presente a nessun lavoro, manuale o intellettuale - segue un panegirico della ferrovia fonte di progresso e del commercio, di cui loda lo spirito imprenditoriale e il coraggio. Non è un caso se Thoreau è considerato dai libertariani americani come uno di loro. Allo stesso modo, nonostante la sua proclamata nonviolenza non esitò a schierarsi a fianco dell'attivista abolizionista John Brown quando questi fu condannato per un tentativo di insurrezione contro gli schiavisti; in sua difesa pubblicò un'apologia: A Plea for Captain John Brown.
Walden risulta così un opera in fieri nella quale le apparenti contraddizioni appaiono come in un discorso dialettico in una struttura filosofica che a poco a poco prende forma sotto i nostri occhi.
Sono andato nei boschi perché desideravo vivere in modo equilibrato, affrontare solo i fatti essenziali della vita, vedere se fosse possibile imparare ciò che avrebbe potuto insegnarmi, et non scoprire al momento della mia morte che non avevo vissuto. Non desideravo vivere ciò che non era vita, poiché la vita è preziosa, non desideravo nemmeno coltivare la rassegnazione, a meno che non fosse assolutamente necessario. Desideravo vivere a fondo, succhiare tutto il midollo della vita, vivere con una tale risoluzione spartana al punto che tutto ciò che non fosse stato vita sarebbe caduto in rovina, tagliare larghe bracciate d'erba, e rasare corto, spingere la vita in un angolo e ridurla alle sue componenti più elementari, e se essa avesse dovuto mostrarsi meschina, ebbene allora estrarne tutta l'autentica meschinità e informare il mondo intero di questa meschinità oppure, se essa si fosse rivelata sublime, conoscerla con l'esperienza e riuscire a stabilire un rapporto felice durante la mia escursione successiva.
Ecco quindi che Walden si rivela come una sorta di manuale di filosofia, non di concetti né di teorie ma di esempi tangibili, capaci di ispirare il lettore e di suggerirgli idee e attività pratiche.

mercoledì 27 dicembre 2017

Jean Giono: L'uomo che piantava gli alberi

Nel 1953 la rivista americana Reader's Digest organizzò un concorso di scrittura sul tema “Il personaggio più straordinario che ho incontrato”. Jean Giono era a quell'epoca già considerato, almeno in Francia, come uno dei più importanti scrittori del suo tempo e, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1951 de “L'ussaro sul tetto", la sua fama era ancora cresciuta. Nonostante ciò decise di partecipare al “concorso” e inviò alla redazione della rivista un racconto, senza titolo, scritto in una notte tra il 24 e il 25 febbraio di quell'anno.
Un narratore anonimo racconta di una sua escursione tra le remote località della Alta Provenza, lungo la valle della Durance, il fiume affluente del Rodano che bagna anche Manosque, la cittadina in cui Giono viveva.
L'escursionista vaga un po' a caso tra colli e valli dall'aspetto desolato. Solo cespugli di lavanda crescono tra le pietre delle lande deserte e arse dal sole. Quando giunge ad un antico villaggio – lo scheletro di un paesino – poiché non ne restano che i ruderi, è già sera e decide di fermarsi per dormire. Il giorno dopo il camminatore riprende la sua escursione. Si accorge di non avere più acqua e decide di rivolgersi ad un pastore che ha visto in lontananza con le sue pecore. È un uomo in apparenza non molto loquace ma che lo aiuta e lo accoglie con cortesia. Elzéard vive in una casa ben tenuta, con muri e tetto in buono stato, l'unica in buone condizioni nel villaggio di macerie. Il pastore invita il viandante a fermarsi per la notte e quest'ultimo accetta. L'ospite osserva con curiosità le azioni del pastore e scopre con sorpresa la vita serena e tranquilla dell'uomo che ha per sola compagnia il suo cane. Nel corso della serata Elzéard si dedica ad una strana attività: da un mucchio di ghiande seleziona, pulisce e lava le più belle che poi mette da parte. Finito il suo lavoro il pastore va a dormire.
Il giorno dopo incuriosito, il viandante chiede al pastore il permesso di fermarsi ancora un giorno “per riposarsi un po'”. Quando quest'ultimo si incammina con il suo gregge, lo segue per scoprire che cosa avrebbe fatto con le sue ghiande. È così che lo vede fermarsi in una radura deserta per piantarle con un'estrema attenzione, una dopo l'altra.
Più tardi l'ospite ritroverà il pastore e gli chiederà il motivo della sua attività. È così che Elézard racconterà il suo scopo: Ne aveva piantate centomila. Delle centomila, ventimila erano spuntate. Delle ventimila pensava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto ciò che è impossibile prevedere nel disegno della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel luogo dove prima non c'era nulla.
Il narratore racconta poi di essere stato richiamato sotto le armi durante la Prima guerra mondiale e di non aver più pensato al pastore. Ma quattro anni dopo, tornato per un'escursione in quei posti lo ritrova. Il pastore è diventato apicultore (le pecore avevano tendenza a mangiare i germogli delle sue piante) e gli fa visitare la nuova foresta che è cresciuta in quegli anni.
Continua a rendergli visita fino alla Seconda guerra mondiale e poi, un'ultima volta, nel giugno del 1945. Elézard Bouffier ha ormai 87 anni e continua a piantare alberi. La regione si è trasformata, il deserto ha lasciato il posto a una vegetazione rigogliosa. Dalla finestra della sua ultima dimora il vecchio Eléziard ammira il bosco, il frutto della sua vita.
La redazione della Reader's Digest, che probabilmente non aveva mai sentito parlare né ancora “digerito” Jean Giono, è interessata dal racconto ma chiede allo scrittore di fare qualche modifica. Giono dà qualche precisione toponomastica supplementare ai luoghi e un cognome al protagonista, cognome abbastanza diffuso nella regione: Bouffier. Anche il finale è modificato, per dare alla storia un tono più educativo ed edificante: nella versione definitiva Eléziard non ha piantato gli alberi solo per il suo piacere ma per uno scopo più filantropico: molte case sono state ricostruite e molti abitanti li hanno ripopolate. Più di diecimila persone devono le loro felicità a Elézard . Bouffier.
Nonostante questi aggiustamenti il racconto non passa la selezione. I responsabili della rivista americana dubitavano della veridicità dei fatti raccontati (condizione per la participazione al concorso) e addirittura mandano un corrispondente francese nella regione per indagare. Nessuna traccia di un tale chiamato Eléziad Bouffier, né all'ospizio di Banon, dove Giono situa la fine della sua vita, né altrove. Il manoscritto è definitivamente rifiutato.
Sarà un'altra rivista americana Vogue che lo pubblicherà l'anno dopo, nel 1954 con il titolo : “L'uomo che piantava la speranza e faceva crescere la felicità”.
Il successo fu grande, prima negli Stati Uniti poi altrove. Il testo sarà tradotto in dodici lingue. Anche in Italia il racconto fu pubblicato una prima volta con il titolo molto simile a quello americano:L'Uomo che piantò la speranza e crebbe la felicità”. La pubblicazione francese è più recente, del 1974 e fu in quell'occasione che apparve il titolo attuale “L'homme qui plantait des arbres”. Malgrado il desiderio di Jean Giono di lasciare il racconto nel dominio pubblico, il testo divenne per molti editori anche un successo commerciale.
L'uomo che piantava gli alberi” è da allora un manifesto ambientalista. Nella bibliografia di Jean Giono il tema non è nuovo, ma per la prima (e forse unica) volta si tratta di un racconto ottimista che vede nel risultato del lavoro del protagonista la concreta possibilità di cambiare le sorti del mondo. I detrattori hanno sottolineato il carattere naif della storia; forse anche per questo il libro è stato a volte catalogato nella letteratura per ragazzi. Probabilmente le correzioni apportate dopo le osservazioni dei redattori della Reader's Digest sono almeno in parte all'origine di questo giudizio. In effetti, rispetto alla prosa consueta di Giono non appare il lirismo che altrove caratterizza i suoi scritti. Il racconto manca probabilmente di spessore e di complessità.
Nonostante ciò, resta, sotto forma di parabola, un'idea forte e concreta che supera le illustrazioni teoriche per dare una prospettiva reale e tangibile all'azione umana. Per qualche anno Giono ha voluto far credere che Eléziad Bouffier fosse un personaggio realmente esistito e molti lo credettero al punto da mettersi alla sua ricerca, cercandone le tracce fino al cimitero di Banon. Lo scrittore voleva così sottolineare la possibilità reale della sua azione. In una lettera scritta nel 1957 al Conservateur des eaux et forêts de Digne confessa per la prima volta il carattere fittizio del protagonista della sua storia. Sottolinea però soprattutto l'importanza che aveva per lui il racconto:
È uno dei testi di cui sono più fiero. Non mi fa guadagnare nemmeno un centesimo ed è per questo che adempie ciò per cui è stato scritto.
Mi piacerebbe incontrarla, se le è possibile, per parlare precisamente dell'uso pratico ci questo testo. Penso che sia il momento di fare una “politica dell'albero” anche se la parola “politica” sembra molto inadatta.”


sabato 16 dicembre 2017

Vézelay, Borgogna

Il paesino di Vézelay, sul crinale del suo colle, si leva, lungo una breve salita e domina la valle sottostante. Dall'altro lato la collina è tagliata di netto, praticamente inaccessibile.
Più in basso, esposte a sud, sono le vigne che producono il Bourgogne de Vézelay, vino rosso o bianco.
Al culmine della salita, al limite del balcone naturale che si affaccia a nord est, è la basilica dedicata a Santa Maria Maddalena.
Si trova sulla via che, dal nord est della Francia, portava i pellegrini verso Santiago di Compostela; anzi era proprio il punto di partenza della via Lemovicensis che da qui si dirigeva verso Limoges e che raggiungeva le altre vie francesi a Saint-Jean-Pied-de-Port alla frontiera spagnola.
A lungo l'abbazia di Vézelay è stata meta di pellegrinaggio; si veniva fin qui per pregare sulle reliquie di Maria Maddalena. Ma nel 1267 il papa proclamò solennemente che il corpo della Santa era quello ritrovato a Saint-Maximin-la-Sainte-Baume in Provenza. I pellegrini non vennero più e per Vézelay cominciò il declino.
La ricchezza e la potenza dell'abbazia che medioevo si era ingrandita, furono seguite da una lunga decadenza.
Alla Rivoluzione l'istituzione religiosa cessò di esistere e gli ultimi monaci abbandonarono il paese.
La chiesa che vediamo oggi è il risultato del restauro di Viollet-le-Duc che, alla metà del XIX secolo fu incaricato dal governo di rispondere all'appello dello scrittore Prosper Mérimée:
Non mi resta che di parlare del degrado spaventoso che ha subito questa magnifica chiesa. I muri sono sbilenchi, marci d'umidità. Non si sa come la volta, tutta screpolata, tenga ancora. Mentre disegnavo nella chiesa, sentivo a ogni istante sassolini staccarsi e cadere attorno a me… per finire non ci sono parti di questo monumento che non abbiano bisogno di riparazioni… Se si aspetta ancora per soccorrere la Maddalena, bisognerà ben presto decidersi ad abbatterla per evitare incidenti.
Il lavoro dell'architetto Viollet-le-Duc fu come nelle sue abitudini, più una ricostruzione che un restauro. L'edificio che vediamo oggi è certamente differente da quello delle origini. Conserva però un innegabile fascino nella sua struttura romanica e nei suoi grandi spazi. Un ampio nartece, il vestibolo destinato ad accogliere i catecumeni e i penitenti, introduce nelle navate più luminose. Avanzando si arriva al coro, in stile gotico e con ampie vetrate. Dal buio verso la luce, in una simbolica dall'effetto sorprendente. Ogni anno, al solstizio d'estate, la luce che entra dalle finestre a sud arriva con una serie di punti luminosi esattamente al centro della navata centrale.
Entriamo nell'edificio mentre si svolge una funzione religiosa: un gruppo di monaci e di suore saluta così un confratello che si appresta a partire in missione. I canti risuonano affascinanti sotto le alte volte.
Oggi sono soprattutto i turisti che vengono quassù. Il bel paesino, nel novero dei plus beaux village de France, e la basilica romanica hanno conservato un'indubbia attrattiva. La struttura del borgo è assai semplice, un'unica via sale verso la basilica e da questa si diramano, come i rami di un albero, altre vie che si allargano un poco attorno al colle.
Un folto gruppo di ragazzini corre qua e là con un foglio di indicazioni in mano. Sono alunni in gita scolastica per i quali gli insegnanti hanno organizzato una sorta di caccia al tesoro per permettere loro di scoprire il borgo. Alcuni hanno fatto il giro attorno alla grande chiesa e li sentiamo chiedersi l'un l'altro: “Peut-être c'est celle-ci l'église ?”