mercoledì 30 ottobre 2019
Ella Maillart: La via crudele
Nel giugno 1939, mentre l’Europa è sull’orlo della guerra, Ella Maillart e
Annemarie Schwarzenbach (nel racconto chiamata Christina) partono a bordo di
una Ford verso l’Afganistan. L’obiettivo è semplice e nello stesso tempo impegnativo:
scoprire “come si può vivere in accordo
con il proprio cuore”. Entrambe sono giornaliste già note, ciascuna ha già
girato il mondo scrivendo reportage acuti e coinvolgenti sui paesi visitati.
Ma, a parte questo importante elemento, tutto sembra dividere le due donne.
Ella Maillart è forte ed energica, dallo spirito ottimista e ironico, Annemarie
Schwarzenbach soffre di depressione, è tossicodipendente e ha l’impressione di
aver perso il senso della vita. Questo viaggio ha per lei anche – soprattutto –
uno scopo terapeutico.
Ella Maillart è già stata in Afganistan qualche anno prima; vuole ritrovare
il paese che l’aveva affascinata ma soprattutto scoprire nuove realtà.
È una viaggiatrice infaticabile. Ha attraversato l’Asia a piedi, a cavallo,
a dorso di cammello, sfidando tutte le difficoltà climatiche, geografiche e
burocratiche. (qui)
Attraverso l’Italia de nord, i Balcani, la Turchia e l’Iran le due donne
arriveranno fino a Kabul. Nell’Europa di quell’anno le croci uncinate
sventolano e preannunciano la catastrofe ma, lungo il viaggio, l’eco della
Storia presente a poco a poco di attenua fino a scomparire. Ne resta qualche
segno tangibile anche se aneddotico come l’automobile – dono di Hitler, è
indicato sulla targa sul cruscotto – con la quale il re d’Albania Zog I era
scappato da Tirana, occupata dalle truppe italiane, e che le due donne trovano
casualmente accanto alla loro, parcheggiata in un garage di Istanbul.
Per Ella Maillart l’Afganistan rappresenta una sorta di paradiso perduto,
un luogo mitico di vita pacifica e armoniosa che vuole ritrovare lontano dal
caos del mondo. Ma non si tratta di una fuga, piuttosto c’è il desiderio di
osservare l’attualità e il presente da un punto di vista più distante e
distaccato. La descrizione dell’itinerario lascia trasparire l’entusiasmo che
la guida.
A est del mar Caspio visiteremo l’indimenticabile torre del Gumbad-i-Kabus
e ci accamperemo tra i turkmeni d’Iran: forse vivono ancora secondo i costumi
che non ho potuto osservare dai loro cugini, trasformati dai Soviet. Vedremo la
cupola d’oro della moschea Reza, preziosa tomba liscia e compatta che punta verso
il cielo. Poi raggiungeremo i due giganteschi Budda scolpiti nella pura valle
di Bamiyan e, nella stessa regione, i laghi incredibilmente blu del
Band-i-Amir. Ancora più lontano, ai piedi del versante nord dell’Hindu Kuch,
risalendo la valle dell’Amu-Daria (in passato chiamata Oxus), spariremo tra le
montagne prima che un divieto, venuto da Kabul, possa fermarci. È là che vivono
gli uomini che voglio studiare, in una regione in cui mi sento a mio agio. Sono
dei montanari che la schiavitù dei bisogni artificiali non ha ancora raggiunto,
uomini liberi che nessuno spinge ad “aumentare la loro produzione giornaliera”.
Se il Kafiristan ci fosse vietato potremmo attraversare l’India, raggiungere la
nuova strada di Birmania e vivere laggiù come i Lolos del Tibet orientale.
Allora tutto sarà perfetto.”
Ella non si dilunga sulle difficoltà dei
rapporti personali tra lei e Annemarie-Christina, sentiamo però come i momenti di crisi che quest’ultima attraversa aggiungano una difficoltà supplementare al viaggio. La separazione, quasi repentina, alla
fine dell’avventura, sarà quindi per lei quasi un sollievo.
Ci resta il resoconto di questa epopea, ricco di
osservazioni e di riflessioni accorte e penetranti, lo sguardo su società umane
probabilmente ormai perdute, alla ricerca di valori che la tragedia mondiale
stava spazzando via.
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