La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



martedì 29 settembre 2015

Buzzeche

Trovata una vecchia scatola di pelati bisognava appiattirne l'apertura schiacciandola con una pietra o con un solido colpo di scarpone.
Si poteva allora cominciare a giocare a buzzeche. Non molto originale come gioco, assomigliava alla tradizionale nascondarella ma qualche regola particolare ne faceva l'originalità.
La
classica tana era sostituita dalla scatola, posata per terra in mezzo alla via o meglio al centro di uno spiazzo bello largo. Tana mobile quindi ma che doveva sempre essere riportata al punto stabilito.
Non c'era la conta.
Uno dei giocatori, - spesso il più abile perché era quello che rischiava di essere preso subito -
dava uno o tre calci (mi pare dipendesse dal numero di partecipanti) alla scatoletta, scaraventandola il più lontano possibile.
Era ancora meglio, viste le caratteristiche del paese, quando la scatola di latta rotolava lungo una discesa, spariva sotto un muro o si perdeva tra le ortiche. Mentre lo scalognato prescelto per stare sotto correva per ritrovare la scatoletta e riportarla nel punto prestabilito, gli altri correvano a nascondersi.
Chi teneva la tana doveva scoprire il nascondiglio degli altri; scovato un avversario batteva tre volte la latta per terra, sancendone la cattura. Bisognava fare attenzione però a non allontanarsi troppo dalla scatola che doveva essere sempre lasciata per terra.
Bastava infatti che un giocatore non ancora scoperto desse un calcio alla latta e tutti coloro che erano stati catturati tornavano in libertà.
A volte la scatola volava lontano, sfiorando qualche anziano di passaggio e l'incauto calciatore riceveva i meritati improperi. Il gioco poteva durare a lungo, interrotto dalle ombre della sera o dalla scomparsa della latta persa chissà dove dopo un calcio troppo potente. Mo chi la va a retruvuo' abballe pe se coste!

mercoledì 23 settembre 2015

Luciano Canfora: La biblioteca scomparsa

Gli uomini istruiti sono superiori a quelli non istruiti come i vivi sono superiori ai morti.
Aristotele.
Possedere il sapere è possedere il potere. Fu forse questo principio a spingere Tolomeo I ad organizzare la grande biblioteca di Alessandria. Sembra che l'idea fosse stata dello stesso Alessandro Magno, suo predecessore sul trono, ma la morte precoce non gliene aveva lasciato il tempo.
Era il 332 avanti Cristo quando Alessandro arrivò in Egitto. Pensava di aver trovato il luogo per una nuova città attorno ad un'ottima base navale. Alessandro che aveva avuto Aristotele come precettore, volle fare di Alessandria anche un centro culturale capace di primeggiare sul mondo. Alla sua morte però la città era ancora in cantiere e non ebbe la possibilità di vedere l'inizio della costruzione della nuova biblioteca.
Furono dunque i suoi successori ad attuare il suo progetto.
Non si sa molto di questa impresa, né il numero di libri raccolti (rotoli di papiro) - si va da 40000 a 700000 mila - , né l'esatta collocazione, né le ragioni della loro scomparsa.
Probabilmente la biblioteca si trovava all'interno del palazzo reale, vicino al tempio delle Muse (il Museo), non lontano dal porto e dall'isola di Faro.
Tolomeo I era stato un generale di Alessandro e, alla morte di quest'ultimo, ne aveva preso il posto. Era un amante delle lettere e un appassionato bibliofilo. Volle seguire l'aspirazione del suo predecessore e fare della nuova città che si stava costruendo alla foce del Nilo, il centro della cultura ellenica. Chiamò alla sua corte letterati e filosofi e cominciò a raccogliere tutti i testi greci che erano in circolazione. I suoi successori della dinastia dei Tolomei ne continuarono l'opera, aumentando sempre più il numero di libri catalogati.
Innumerevoli scribi lavoravano nella biblioteca, copiando e ricopiando i volumi che arrivavano da tutto il mondo conosciuto. Ogni nave che attraccava nel porto di Alessandria e che trasportava libri doveva lasciare l'originale alla biblioteca in cambio di una semplice copia.
Quando lo spazio disponibile non bastò più si costruì una biblioteca annessa, accanto ad un altro tempio, il Serapeo.
Ma raccogliere i testi greci non fu sufficiente. Si cominciarono a tradurre le opere di altre lingue. La numerosa comunità ebrea che viveva ad Alessandria aveva bisogno di una Bibbia tradotta in greco, ormai la sola lingua conosciuta da tutti tra loro. Fu per questo che Tolomeo II Filadelfo chiamò alla sua corte 70 scribi da Gerusalemme e domandò loro di tradurre i testi sacri del giudaismo. E c'è anche chi afferma che si andò al di là della semplice traduzione e che alcune parti della Bibbia furono scritte in quest'occasione. Quella “dei Settanta” fu la prima traduzione dell'Antico Testamento e fu fondamentale per l'espansione della conoscenza del libro e poi del cristianesimo.
Il III secolo avanti Cristo fu l'epoca del massimo splendore della Biblioteca. Quando a Pergamo, in Asia minore, il re Eumene II costruì una biblioteca capace di rivalizzare con quella di Alessandria, dall'Egitto si bloccarono le esportazioni di papiro, nel tentativo di bloccare l'emergenza di un polo rivale. Ma il boicottaggio ebbe un esito non previsto, provocando indirettamente la diffusione dell'uso della pergamena. Racconta la leggenda che sarebbe stato Marco Antonio a svuotare la biblioteca di Pergamo dei suoi 200000 volumi e ad offrirli a Cleopatra per gli scaffali di Alessandria.
Il sogno di Alessandro Magno si stava realizzando.
Poi cominciò il declino fino a quando si perse ogni traccia di quella gigantesca collezione.
Le ipotesi sull'accaduto sono molte.
Per Plutarco il responsabile fu Giulio Cesare. Durante la “guerra alessandrina”, ordinò che, con torce infuocate, si distruggessero le navi nemiche presenti nel porto. L'incendio però arrivò alla biblioteca e tutti i volumi furono distrutti. Ma non tutti sono d'accordo con questa versione ritenendo che i libri distrutti durante quest'incendio non erano della grande biblioteca ma erano solo quelli di un deposito secondario vicino al porto.
C'è chi accusa il vescovo Teofilo, durante il regno dell'imperatore Teodosio, quando ormai il cristianesimo era religione ufficiale. Teofilo avrebbe voluto distruggere tutte le opere di autori pagani.
C'è poi chi accusa i persiani che avevano occupato l'Egitto all'inizio del VII secolo oppure gli arabi maomettani che, nello stesso secolo li avevano scacciati, sostituendoli ad Alessandria.
O forse la grande biblioteca è scomparsa gradualmente, durante e dopo questa serie di eventi storici.
Oggi non resta nessuna traccia del tentativo utopistico di riunire in un sol luogo tutto il sapere del mondo e di fare della conoscenza un'impresa collettiva e la nuova Biblioteca alexandrina, inaugurata nel 2002 non è che un tentativo, ampiamente criticato di riprodurre quell'esperienza.
Qua e là per l'Italia sindaci “veggenti” vogliono chiudere le biblioteche comunali “che nel mondo di wikipedia nessuno più utilizza”. L'imperativo economico prende il sopravvento su ogni altra considerazione. Non è più il possesso del sapere che interessa chi aspira al potere ma piuttosto il controllo dei canali di comunicazione. Leggere libri diventa quindi un atto sovversivo. Fahrenheit 451 racconta una storia che rischia di diventare realtà. Non sarà questa la vera crisi della civiltà moderna?
Luciano Canfora: La biblioteca scomparsa Sellerio editore

sabato 12 settembre 2015

Le pagliare di Tione

Sono relativamente pochi gli spazi coltivabili nell'Abruzzo aquilano e particolarmente nella valle dell'Aterno. Il prosciugamento del lago del Fucino fu una delle opere (la più spettacolare) destinate a rimediare a questa carenza. Sui pendii meridionali del Gran Sasso è facile incontrare mucchi di pietre, le macerine, risultato di lunghi lavori di spietramento fatti nei secoli passati e testimonianza tangibile della caparbia volontà degli abitanti di questi luoghi di recuperare terreni per l'agricoltura.
Sulle pendici nord del Sirente, anche gli abitanti di Tione, come quelli dei paesi vicini Fontecchio e Fagnano, hanno nel passato cercato di sfruttare ogni spazio disponibile, risalendo i pendii del monte e disboscando gli altipiani del versante nord della montagna.

Vicino a questi spazi si costruirono dei semplici edifici che diventarono dei villaggi. Erano occupati solo nella bella stagione quando le famiglie risalivano qui dai paesi sottostanti per coltivare i campi. Sono le pagliare, piccole costruzioni in pietra calcarea costituite da due locali sovrapposti: in basso la stalla e sopra l'abitazione.
A parte la porta, spesso non ci sono altre aperture se non piccolissime finestre. Le pagliare di Tione a 1084 metri di quota, sono senz'altro le più conosciute. Arroccate su uno sperone roccioso, dominano una bella piana, ancora oggi usata come pascolo.
La vista sulla parete nord del Sirente è magnifica e spettacolare. Un sorprendente pozzo circolare di notevoli dimensioni fu costruito per raccogliere l'acqua piovana.

Oggi alcune di queste abitazioni sono all'abbandono, altre sono state ristrutturate e sono diventate residenze di vacanza.
Solo la presenza di qualche automobile, arrivata fin qui percorrendo la non facile strada (è piuttosto un'ippovia) trasporta il luogo nel mondo moderno.

domenica 6 settembre 2015

Gran Sasso

In una mattina di fine estate, sulla strada da Campo Imperatore verso Assergi. Il sole a poco a poco scende dai crinali e illumina i prati. Nel fondovalle, verso la valle del Tirino, la nebbia non si è ancora diradata. 





giovedì 27 agosto 2015

Bominaco

Sorprendentemente, Bominaco è un paese poco conosciuto nei circuiti turistici abruzzesi. Sarebbe però veramente un peccato, per chi si trovasse nella regione, non visitare questo sito magnifico e affascinante.

Sull'altopiano di Navelli, tra L'Aquila e Popoli, il borgo si trova un po' in disparte e nascosto. Bisogna lasciare la strada principale che attraversa il piano e dirigersi verso la valle dell'Aterno. Superato il paese di Caporciano si arriva rapidamente alla frazione di Bominaco.
Su una cresta rocciosa appaiono i resti del castello con le sue mura e la torre cilindrica.
Bella è la veduta circostante con in lontananza a fare corona le vette del Gran Sasso, della Maiella, del Sirente e del Velino.
La catena del Gran Sasso e il borgo di San Pio delle Camere
In estate, il breve sentiero che porta ai ruderi profuma di timo selvatico e si colora di ginestre in fiore.


Le mura del castello
Ma non sono solo il castello e il borgo di Bominaco a spingere fin qui il viaggiatore.
Le chiese viste dal castello

Più vicino al paese due chiese benedettine ricordano la presenza di un monastero di origini antichissime.
La chiesa abbaziale

La tradizione parla della presenza di un missionario, San Pellegrino, venuto dalla Siria e martirizzato in Abruzzo nel IV secolo. Gli abitanti lo seppellirono nel loro cimitero e più tardi eressero un monumento. Una scritta incisa sul fianco dell'altare della chiesa abbaziale lo afferma in maniera quasi perentoria: CREDITE QUOD HIC EST CORPUS BEATI PELLEGRINI (Credetelo! Qui è il corpo del beato Pellegrino).
La pietra con la scritta che indicherebbe la sepoltura di San Pellegrino. Secondo la tradizione, mettendo l'orecchio sul foro si sentirebbe il battito del cuore del santo. Abbiamo provato...

La fama di San Pellegrino si diffuse in tutta la regione e, verso la fine dell'VIII secolo, fu costruita, sul luogo della sepoltura, una prima chiesa.
La facciata posteriore dell'oratorio con l'ingresso riservato ai monaci

Il pronao dell'oratorio è più recente
Alla fine dello stesso secolo, Carlo Magno, venuto in Abruzzo per altre vicende, favorì la costruzione dell'Oratorio, dotò la chiesa di terre e poi l'assegnò alla potente abbazia benedettina di Farfa, in Sabina che inviò sul sito di Bominaco un gruppo di monaci. Cominciò così la secolare storia dell'abbazia abruzzese, avamposto di quella di Farfa fino all'inizio dell'XI secolo, poi indipendente.
Fu il conte Oderisio, nel 1001, ad arricchire l'abbazia con donazioni di terre, boschi, vigne, pascoli e interi paesi.
Tra il XII e il XIII secolo l'abbazia di Bominaco conobbe un periodo di prosperità. Fu completata la costruzione della chiesa abbaziale e si costruì anche il castello difensivo sul colle vicino. Doveva permettere ai monaci di trovare un rifugio in caso di pericolo e di proteggere i beni da eventuali saccheggi.
L'interno dell'oratorio


Nel 1263 cominciarono i lavori di decorazione nella chiesa più piccola, il cosiddetto Oratorio di San Pellegrino. Il piccolo edificio, assai modesto nella sua apparenza esteriore, fu coperto all'interno da affreschi di grande fascino.
L'adorazione dei magi

In anticipo di qualche decennio rispetto alla “rivoluzione culturale” che Giotto compirà ad Assisi per esaltare il nuovo ordine mendicante francescano che si sviluppava e si diffondeva, i benedettini di Bominaco allargarono gli spazi della raffigurazione pittorica, superando con decisione i limiti dell'arte bizantina, introducendo nelle rappresentazioni una sensibilità naturalista ma anche un'iconografia nuove e originali.
La lavanda dei piedi
La tentazione del serpente

Gli studiosi deducono dalla stretta simmetria tra soluzioni pittoriche e etica dell'ordine che siano gli stessi monaci ad aver realizzato i cicli di affreschi.
La sepoltura del Cristo
Più precisamente si pensa che siano tre i “Maestri”, restati però anonimi, ad aver lavorato nell'oratorio: il Maestro dell'infanzia, il Maestro della passione e il Maestro miniaturista. Quest'ultimo è l'autore del calendario bominacense, forse l'immagine più celebre dell'Oratorio.
I primi tre mesi del calendario

Dipinto per l'uso liturgico della comunità il calendario è uno dei più antichi di questo tipo ancora esistenti in assoluto. Ad ogni mese corrispondono, su due quadri, un'immagine rappresentativa, il segno dello zodiaco e le date essenziali dell'anno ecclesiale e di quello benedettino.
Il bacio di Giuda

La fagellazione
Vicino all'Oratorio di San Pellegrino è, più grande, la chiesa abbaziale di Santa Maria Assunta. Essa è tornata a nuova vita dopo il restauro che, negli anni Trenta, ha eliminato le decorazioni barocche del Settecento e riportato alla luce l'antica struttura.
Il pulpito della chiesa abbaziale
Purtroppo gli affreschi sottostanti erano stati ormai quasi completamente distrutti.
Particolare del pulpito
Restano le belle sculture: il pulpito datato al 1180, con i suoi ornamenti e le originali scene di caccia, la cattedra, la colonna candelabro destinata ad accogliere il cero pasquale, le belle colonne decorate.
La colonna con il cero pasquale e l'ambone (ricostruito a partire da frammenti)
Ma è tutto l'ambiente a suscitare un senso di armonia e di eleganza.
Le finestre monofore decorate dell'abside della chiesa abbaziale

Le chiese di Bominaco furono forse uno delle ultime espressioni della cultura benedettina in Abruzzo. Di lì a poco comincerà il lento declino dell'Ordine e, alla fine del XV secolo, anche i monaci del luogo abbandoneranno il monastero il cui abate sarà ormai nominato da signorotti locali che ne avevano ottenuto il privilegio dalla gerarchia ecclesiastica.
Sul lato della cattedra l'abate regge il bastone pastorale simbolo della sua indipendenza dal vescovo di Valva

Finisce così la storia del monastero benedettino di Bominaco di cui restano però queste splendide testimonianze.

venerdì 31 luglio 2015

L'Ambrosina

Le vacanze cominciavano quando vedevamo il mare. Lo scoprivamo ad un tratto dal finestrino del treno che correva verso sud lungo la costa. Paesi accesi improvvisamente dal sole che si alzava rosso fuoco e poi subito giallo dall'orizzonte azzurro. A tratti apparivano file di ombrelloni colorati, ancora chiusi, ognuno con una sedia a sdraio, chiusa anch'essa, tutte appoggiate in file ordinate come per un omaggio al sole nascente. Di tanto in tanto si vedeva una barca, sembrava immobile nel quadro del finestrino e poco dopo il porticciolo in un'apparizione rapidissima. Gli oleandri in fiore bianchi e rossi nascondevano l'orizzonte che poi si apriva di nuovo sul riflesso del sole sull'acqua.
Sapevamo che il viaggio stava per finire. Aprendo il finestrino sembrava di sentire un odore particolare, portato dal fresco dell'aria del mattino.
Ma il mare rimaneva nel ricordo come una lunga cartolina, scritta ad un amico lontano, poi spedita e la cui immagine si affievoliva a poco a poco nella memoria. Perché la costa non era la nostra destinazione. Per anni spiagge e ombrelloni resteranno come un universo estraneo, visto come un miraggio dal finestrino di un treno e mai conosciuto concretamente. Arrivati alla stazione scendevamo e ci mettevamo alla ricerca dell'autobus che ci portava verso le montagne. E già qui non era difficile trovare qualche viso noto di persona diretta allo stesso paese, riascoltando così la lingua dell'infanzia mai dimenticata. Immancabilmente c'era un tassista, annoiato nell'attesa dei clienti che spiegava che la corriera non c'era o che sarebbe partita molto più tardi. Ma il trucchetto per rimediare una corsa non funzionava mai.
Eravamo partiti la sera prima dalla stazione della città. La fabbrica di automobili, come allora ancora si usava, aveva chiuso i cancelli per tre settimane e, senza accordi espliciti, ma seguendo la norma dettata dal capogruppo, tutti gli altri stabilimenti avevano seguito la regola. Migliaia di famiglie si erano affrettate lungo i binari dove “diretti” e “direttissimi”, come si chiamavano allora, si erano riempiti in un attimo. I più sfortunati tra i viaggiatori restavano nei corridoi, seduti sulle valigie, rassegnati alla prospettiva di una lunga notte che avrebbe indolenzito le ossa ancora stanche dal lavoro quotidiano alla catena. La città si svuotava, i negozi chiudevano al punto che per i pochi abitanti rimasti i due quotidiani locali pubblicavano le liste di panetterie e altri negozi restati aperti. Più di una vacanza era il ritorno a casa, momentaneo, di chi era arrivato qualche anno prima con migliaia di altri, i napuli come li chiamavano allora quelli che invece parlavano con l'accento del nord e che mal ne sopportatavano la cosiddetta invasione.
Il viaggio di ritorno era per noi relativamente breve, scendevamo dal treno mentre alti viaggiatori contuinuavano il percorso verso la lunga penisola pugliese.
Sulla piazza della stazione cercavamo l'autobus rosso, quasi un'istituzione. Perché la domenica, nella stagione estiva una linea speciale collegava la costa al Gran Sasso. L'idea era sviluppare il turismo locale, portando al fresco delle montagne i cittadini della città costiera. Ma erano piuttosto gli emigrati che tornavano a casa ad approfittare di questa corsa supplementare. I veicoli erano della società “Rossi & Ambrosini” ed è per questo che tutti conoscevano l'autobus delle 9.00 con il soprannome di Ambrosina. La linea regolare aggirava la montagna risalendo la valle del Pescara e poi quella del Tirino. L'Ambrosina invece si dirigeva direttamente verso le pendici orientali del Gran Sasso, attraversando l'entroterra e risalendo verso il valico di Forca di Penne, là dove per secoli erano passate le greggi seguendo il “tratturo magno”. Il percorso inverso a quello seguito da Annibale nella sua discesa verso le Puglie. Brittoli era l'ultimo paese del versante pescarese, poi la strada, che continuava a salire non era più asfaltata e una nuvola di polvere si posava sul rosso vivo dell'autobus. Bisognava chiudere rapidamente i finestrini e, nella giornata estiva, il calore cominciava a farsi sentire. Dopo il valico una lunga discesa finiva all'incrocio con la statale proveniente dalla valle del Tirino. La strada riprendeva il suo aspetto normale e ricominciava a salire verso la nostra meta.
Attraversato l'ultimo villaggio, sull'autobus restavano solo facce più o meno conosciute, parenti più o meno lontani. Si riconoscevano le contrade e a memoria si contavano le curve che mancavano prima di quella fatidica dopo la quale appariva la piramide del paese arroccato sulla montagna.
L'autista annunciava con fragorosi colpi di clacson bitonale l'arrivo a Castel del Monte. Si fermava sulla piazza. Davanti ad un palazzotto occupato dall'esattoria e dal barbiere. Per tutta la lunghezza della facciata correvano tre scalini sui quali stavano seduti gli anziani del paese, quasi tutti con un cappello in testa e bastone tra le mani, commentando e assertendo su fatti e persone. L'arrivo dell'autobus era un'occasione per movimentare un po' la giornata. Poi attorno all'Ambrosina si radunavano parenti e amici, con abbracci e esclamazioni, si scaricavano le valige e, a gruppetti ci si dirigeva verso casa dove il pranzo era già quasi pronto e per alcuni non mancava il brodo di gallina perché, tutti lo sanno... per chi viaggia il brodo con le vularelle, i quadrettini di pasta all'uovo, è una panacea. 
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giovedì 9 luglio 2015

Vassilis Alexakis: Il clarinetto

La manifestazione si è conclusa nelle sale del municipio con un dibattito sull'avvenire del romanzo. E' stato introdotto da uno studioso di letteratura, un uomo di una certa età che da qualche anno moltiplica gli interventi sul tema nei saloni del libro e sulla stampa ma che ha scritto una sola opera che racconta l'ascensione dell'Himalaya compiuta da tre amici d'infanzia provenienti da Quimper. Ha denunciato l'egocentrismo degli autori contemporanei che si interessano solo a se stessi, che rimuginano pagina dopo pagina le proprie delusioni, che non vanno mai più in là dell'ufficio postale del loro quartiere, e li ha vivamente incoraggiati a viaggiare, a confrontarsi con la diversità degli uomini, insomma ad abbracciare il vasto mondo. Non ha mancato di evocare il caso di Flaubert che effettivamente aveva compiuto qualche gran viaggio. Mi è venuto in mente che effettivamente era stato in Grecia. Tra i presenti, il discorso è stato accolto meglio dagli stranieri che dai francesi. Fernand Mondego ha fatto notare, molto giudiziosamente bisogna ammetterlo, che l'importanza del soggetto non determinava assolutamente la qualità del romanzo. Anche lui ha citato Flaubert asserendo che il tema di Madame Bovary era a prima vista del tutto insignificante. Quanto a me, ero rimasto indignato alla pretesa dell'oratore di dare delle direttive ai romanzieri. Per il piacere di contraddirlo ho accentuato l'idea di Fernand Mondego affermando che la missione principale della letteratura era di cogliere le vaghe idee concepite mentre si aspetta che l'acqua per gli spaghetti cominci a bollire.